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L’economia della rivoluzione

Riflessioni a partire da un importante lavoro di Vladimiro Giacché. da marx21

Antonio Gramsci definì l’Ottobre russo una rivoluzione contro il capitale, in quanto si discostava dalle previsioni marxiane secondo cui la rivoluzione sarebbe stata possibile in paesi ad avanzato sviluppo capitalistico e non nell’arretrata Russia. Probabilmente il grande dirigente politico e teorico italiano non poteva disporre di alcuni scritti dell’ultimo Marx proprio sulla Russia che non escludevano invece una possibilità di rottura rivoluzionaria in quel paese [1]. Ma a prescindere da ciò, Gramsci aveva ragione a respingere le posizioni dogmatiche che pretendevano un’applicazione senza mediazioni della teoria del Capitale a tutte le situazioni.

Questa teoria, che poi in realtà è un grande abbozzo incompiuto, è stata elaborata a un elevato livello di astrazione: parla del modo di produzione capitalistico, dei suoi caratteri generali, comuni a tutte le realtà economico-sociali in cui prevale tale modo di produzione

Naturalmente essa è indispensabile per individuare, partendo da questi caratteri generali, le particolarità delle singole, diverse realtà. Ma andremmo fuori strada se pensassimo che basti usare questa teoria generale per giungere a corrette decisioni politiche contingenti. Servono invece, come ha puntualizzato anche il bravo Roberto Fineschi [2], teorie cuscinetto a un livello inferiore di astrazione che ci permettano di cogliere le specificità della diverse situazioni. La teoria dell’imperialismo di Lenin, per esempio, è uno dei più fecondi casi di applicazione non dogmatica della teoria marxiana alla realtà che si presentò davanti agli occhi del rivoluzionario russo nel corso della prima grande guerra fra imperialismi.

Pur dotato di una robusta formazione teorica, Lenin dimostrò una forte dose di antidogmatismo anche di fronte all’esigenza di prendere decisioni concrete in campo economico, per salvare la rivoluzione e per avviare la transizione verso il socialismo in un paese arretrato, devastato dal conflitto mondiale prima e dalla guerra civile poi, accerchiato dalle potenze occidentali,  in cui imperversavano la carestia, il mercato nero e il burocratismo delle strutture statuali.  Anzi criticò aspramente, tacciandole di opportunismo o di infantilismo, le posizioni derivanti da letture solo libresche della realtà.

Dobbiamo essere grati a Valdimiro Giacchè, che ha raccolto in un importante libro [3], numerosi scritti di Lenin sull’argomento. L’antologia, dopo l’introduzione generale, si articola in tre parti. La prima riporta gli scritti dei primi mesi dopo la rivoluzione, la seconda quelli che furono elaborati per affrontare la guerra civile, e quindi trattano del comunismo di guerra, e la terza raccoglie gli scritti sulla Nuova politica economica (Nep). Vladimiro Giacché ci accompagna sapientemente nel percorso maturato a partire dai primi anni della rivoluzione fino alla morte di Lenin, curandone con utili presentazioni – oltre all’introduzione c’è un breve preambolo in ognuna delle parti in cui si suddivide il libro – e con un puntuale apparato di note, che consentono anche ai meno documentati di contestualizzare le opere nel quadro degli avvenimenti e del dibattito dell’epoca. Colpisce la capacità di Lenin di prendere decisioni coraggiose, anche affrontando scontri all’interno del partito comunista russo.

Nella prima parte si riporta per prima la lapidaria proclamazione dell’abbattimento del governo provvisorio, contenente l’impegno a cessare la guerra, ad abolire la proprietà fondiaria e a creare un governo sovietico. Gli altri articoli riguardano i primi provvedimenti per attuare questi impegni e riflessioni su come realizzare il socialismo (per esempio il controllo operaio, il ruolo delle cooperative, il programma economico, la politica bancaria), in cui fra l’altro si inizia a parlare di capitalismo di stato. Così pure si introduce la necessità di utilizzare il paradigma fordista, allora senza dubbio il più avanzato tecnologicamente, nell’organizzazione del lavoro delle fabbriche. C’è anche un’analisi sui motivi del “disastro militare” subito contro la Germania e sulla necessità di un “ritirata”, cioè di una pace assai onerosa per la nuova repubblica dei Soviet, molto più onerosa di quella che si sarebbe potuto ottenere se il partito avesse seguito il consiglio di Lenin di trattare la pace prima della prevedibile sconfitta.

Nella seconda parte si affrontano i terribili problemi posti dalla guerra civile: la carestia, l’organizzazione e la disciplina del lavoro, il rischio del burocratismo, l’alleanza con i contadini poveri e la neutralizzazione di quelli medi, la direzione personale, e non collegiale delle fabbriche, la concessione ai capitalisti stranieri di alcune risorse naturali per poter finanziare l’industrializzazione. Anche in questo caso, alcune concessioni ad istituti borghesi (l’uso del denaro, le concessioni, il capitalismo di stato) vengono viste come necessarie per salvare la rivoluzione. Grande peso viene dato al problema dell’elettrificazione di tutto l’immenso territorio russo, obiettivo considerato di grande importanza e per il cui raggiungimento viene istituita un’apposita commissione statale diretta dal valente ingegnere e rivoluzionario Gleb Maksimilianovič Kržižanovskij.

La Nep, altra ritirata strategica, è l’oggetto fondamentale della terza parte. Essa si impose non senza opposizione all’interno del partito comunista russo. Si trattò di misure con cui si prendeva atto che la transizione al socialismo è cosa assai complessa, che non si può passare direttamente dal feudalesimo al comunismo, senza prima potenziare le forze produttive e far acquisire alla classe operaia le conoscenze necessarie per dirigere questa transizione. Lenin era ben consapevole che con questa misura ci si allontanava dai principi del comunismo, ma nondimeno ritenne indispensabile questo passaggio, senza il quale la rivoluzione sarebbe potuta andare incontro a una disastrosa sconfitta. Così fece ammenda degli errori compiuti nel sottovalutare l’arretratezza della Russia e l’impreparazione della classe operaia a dirigere il sistema economico. L’introduzione dell’imposta in natura in luogo dei prelevamenti forzosi nelle campagne e con essa l’apertura al mercato dei prodotti agricoli è l’aspetto fondante questo nuovo corso economico. Lenin non manca tuttavia, in questa nuova fase, di ritornare su vecchie questioni alla luce delle esperienze e delle verifiche dei fatti: il capitalismo di stato, la cooperazione, l’alleanza fra operai e contadini, il sindacato, la riforma monetaria e la Banca di Stato, solo per citarne alcuni. Chiude la raccolta, il notissimo “Meglio meno ma meglio”, una sorta di bilancio critico dei successi, dei problemi rimasti insoluti e delle incognite rimaste di fronte alla rivoluzione. Un invito realistico alla cautela di fronte alla potenza economica e militare dei paesi occidentali, ma anche la determinazione a giocare le carte della rivoluzione guardando a immense realtà quali la Cina e l’India. Questi sono i passi conclusivi.

“Non abbiamo un grado sufficiente di civiltà per passare direttamente al socialismo, pur essendoci da noi le premesse politiche [… ] dobbiamo godere della fiducia dei contadini [… ]ed eliminare dai rapporti sociali ogni traccia di sperpero. Dobbiamo […] eliminare ogni traccia che la Russia zarista e il suo apparato burocratico ha lasciato in eredità […]. Ogni più piccolo risparmio serva a sviluppare la nostra industria […] l’elettrificazione […]. Questo e solo questo è la nostra speranza” (p. 492).

Nel complesso emerge nettamente l’atteggiamento antidogmatico e il senso pratico di Lenin. Se nella prima fase del potere sovietico aveva ritenuto impossibile consolidare questo successo in assenza di una rivoluzione nei paesi occidentali, di fronte al fallimento delle rivoluzioni in Europa e al tradimento della socialdemocrazia si accinse ad organizzare la costruzione del socialismo in un paese solo, dovendo a tal fine rivedere molte scelte di fondo. Facendo autocritica per alcuni fallimenti iniziali, non esitò, in nome dell’obiettivo del salvataggio della rivoluzione, ad accordare concessioni e a scendere a patti con le potenze imperialistiche, con i capitalisti stranieri e russi, con i contadini medi, con i tecnici borghesi, ad aprire al mercato per i contadini e per le piccole imprese capitalistiche, tenendo fermi solo alcuni capisaldi quali la statalizzazione di grandi industrie e banche, l’espropriazione senza indennizzo dei latifondi e la distruzione dei residui feudali.  Lo fece nella piena e dichiarata consapevolezza che quello che andava realizzando era solo il capitalismo di stato, una premessa necessaria per la transizione al socialismo, e che la reintroduzione di rapporti borghesi dopo la drammatica economia di guerra, costituiva un necessario passo indietro, per poterne fare altri in avanti. Di Lenin è anche la consapevolezza, successivamente fatta propria dai compagni cinesi, che la lotta di classe perdurerà, sia pure in forme nuove, fino all’abbattimento delle classi, fino al comunismo.

Si tratta di un’esperienza che ci serve anche per l’impegno politico dell’oggi, purché, anche in questo caso non applichiamo in maniera dogmatica le acquisizioni leniniane, ma utilizziamo invece il suo metodo per analizzare la realtà dei singoli paesi – come seppe fare ai suoi tempi Gramsci con riferimento alla situazione italiana e più in generale dell’Occidente – e per individuare il blocco sociale del cambiamento, gli alleati, le scelte economiche.

Lenin è stato senza dubbio un punto di riferimento anche del partito comunista cinese che ugualmente ha dovuto scendere a compromessi per salvare la rivoluzione e portare il paese più povero del pianeta a essere la seconda, e forse prestissimo la prima, potenza economica mondiale. Quel partito ha ottenuto questo risultato facendo tesoro di questa lezione, ma tenendo anche di conto della specificità dalla realtà cinese. L’estrema miseria ha obbligato la Cina a misurarsi con la realtà e a introdurre elementi mercantili, affiancando all’economia pianificata quella di mercato, a partire dall’istituzione delle zone economiche speciali (dei distretti del proprio territorio in cui erano possibile investimenti di capitale privato straniero) e via via aprendo sempre più al mercato. Senza questa scelta pragmatica, un singolo, povero paese, sia pure di grandissime dimensioni, non avrebbe potuto resistere nello spietato mercato internazionale. La legge del profitto che così rimane, tende a ritardare la maturazione dei requisiti oggettivi e soggettivi per sviluppare rapporti socialisti. Le contraddizioni del cosiddetto “socialismo di mercato” sono quindi anche in questo caso destinate a perdurare finché non si realizzeranno condizioni per il suo superamento, che dipendono anche dalla situazione internazionale.

Il modello cinese odierno vede convivere il ruolo di guida del Partito Comunista (Pcc) con il riconoscimento dell’impresa privata. Il comparto pubblico prevale ancora nettamente nei settori strategici e ha costituito fin qui la spina dorsale del poderoso sviluppo, che tuttavia si è affermato fra enormi contraddizioni e crescenti diseguaglianze rispetto al periodo maoista. Solo molto recentemente la pianificazione ha potuto introdurre le priorità di un ruolo potenziato della domanda interna, di una maggiore giustizia sociale, della salvaguardia ambientale, di relazioni sindacali armoniose e di progressiva diminuzione dei divari nella distribuzione della ricchezza. Le diseguaglianze, i rapporti borghesi e i compromessi con il capitalismo sono stati il prezzo necessario pagato per togliere dalla miseria centinaia di milioni di cinesi.

Alla classe capitalista viene riconosciuto un ruolo, anche all’interno del partito guida e ciò, oltre a costituire una notevole differenza rispetto all’esperienza leninista, comporta il rischio di una perdita di egemonia delle classi lavoratrici e perfino di un affievolimento irreversibile del carattere socialista del paese.

Sarà cruciale quindi l’esito di una lotta di classe che potrà investire anche lo stesso partito comunista.

Venendo a noi, cosa ci insegna in Occidente l’esperienza leniniana? Ci propone di approfondire l’analisi delle situazioni specifiche, di costruire su questa base il blocco sociale del cambiamento, di usare la necessaria duttilità nelle scelte tattiche, di praticare alleanze, anche contingenti, di diffidare delle certezze dogmatiche.

La differenza principale fra noi e la Russia del ’17 sta senza dubbio nell’enorme capacità odierna delle forze produttive, cui è connessa però, nonostante la crisi mondiale, una vastissima potenza del capitale, che si sta insinuando in ogni aspetto della nostra vita, dallo strapotere sui media, alla sottomissione sotto il suo controllo degli stessi servizi pubblici, al suo radicamento in tutti i gangli del potere, fino a estromettere gli organi elettivi dal reale controllo del governo e a determinare un grave deficit democratico, configurando le istituzioni statuali e sovranazionali  come un sistema oligarchico più che democratico.

Per tale ragione, usando un un eufemismo, la presa del Palazzo d’Inverno non potrà essere altrettanto semplice di quanto lo fu nell’anello debole del capitalismo costituito dalla Russia zarista. Richiederà enorme pazienza: uno sforzo immane per riunificare la classe lavoratrice, attualmente smembrata dall’uso capitalistico delle nuove tecnologie e dalle politiche statuali subordinate agli interessi del capitale; una lotta senza quartiere per l’egemonia di questa classe attorno a cui costruire un blocco sociale del cambiamento; il ripristino della solidarietà internazionalista verso i popoli che faticosamente stanno tentando di uscire dalle politiche liberiste e di costruire brandelli di socialismo. La ricostruzione di un forte partito comunista è una premessa necessaria che deve realizzarsi attraverso la ripresa della lotta di classe, ultimamente praticata solo dal padronato. Ma personalmente credo che questa altamente sviluppata potenza del capitale, ci potrà permettere, qualora riuscissimo a sconfiggerlo, se non di saltare, quantomeno abbreviare notevolmente una serie di passaggi dolorosi. Tra l’altro, grazie alla disponibilità di tecnologie e basi statistiche  idonee sarà possibile ricorrere molto meno intensamente all’economia di mercato e al cosiddetto socialismo di mercato.

Su questo tema W. Paul Cockshott e Allin Cottrell hanno prodotto degli studi [4] che sostengono, anche sul piano dell’efficienza e del risparmio di informazioni necessarie, la superiorità di un sistema pianificato rispetto ad un’economia di mercato. La conferma empirica di ciò sta nella circostanza che i due più eclatanti esempi di sviluppo accelerato sono costituiti dalla Russia degli anni 20-50 e dalla Cina da Deng in poi in cui l’economia di mercato è fortemente diretta da una pianificazione centralizzata, a dispetto di tutto il bla bla bla liberal liberista. Gli studi di Cockshott e Cottrell astraggono però dal fattore umano e cioè dal comportamento che può essere assunto dai soggetti economici di fronte all’assenza degli incentivi che il sistema di mercato offre. L’altro formidabile compito che starà di fronte ai comunisti, sarà quindi quello di formare l’uomo nuovo, di modo che le motivazioni individuali siano ispirate anche a un grande senso della socialità o, per dirla con le esemplari parole del Manifesto del Partito Comunista, “il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione per il libero sviluppo di tutti”.

Note

[1] Su questo argomento si veda l’ultimo capitolo di Alberto Burgio, Strutture e Catastrofi. Kant Hegel Marx, Editori Riuniti, Roma, 2001.

[2] Roberto Fineschi, Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, Carocci Editore, Roma, 2006, pp. 9-10.

[3] Lenin, Economia della rivoluzione, a cura di Vladimiro Giacché, Ed. Il Saggiatore, Milano, 2017, pp. 521.

[4] Si veda fra tutti W. P. Cosckshoot and A. Cottrell, Economic planning, computers and labor values, gennaio 1999, scaricabile liberamente all’Url http://ricardo.ecn.wfu.edu/~cottrell/socialism_book/aer.pdf.

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