Philip Roth ha scritto troppe storie con scene di sesso. Philip Roth non ha ricevuto il premio Nobel, ancora una volta. Philip Roth ha dichiarato di voler smettere di scrivere. Philip Roth ha smesso di scrivere. Philip Roth ha ordinato nel testamento la distruzione del suo archivio.
Philip Roth è morto.
Mentre la sua stella brillava alta, tra le maggiori del firmamento letterario, Philip Roth ha “salutato” il mondo intero andandosene a passi silenziosi, a causa di un infarto che lo ha colpito la notte del 22 maggio 2018. Tante le dichiarazioni personali annunciate, confermate e smentite fino all’unica notizia certa che ha sancito per davvero la scomparsa di uno dei più grandi scrittori nati nel novecento della letteratura statunitense.
Ha vinto il Premio Pulitzer con Pastorale Americana (nel 1998), mentre prima e dopo di quella vittoria così prestigiosa, come un atleta instancabile, ha tagliato il traguardo di una lunga serie di altri premi che lo hanno visto sempre in corsa perenne. Unica direzione preannunciata quel Premio Nobel mai conferito a un americano sincero come lui che nei confronti dell’Accademia di Svezia non ha mai provato a dire (o scrivere) quanto probabilmente sentiva in cuor suo.
Fra scommesse inglesi e quotazioni in salita che lo davano di anno in anno sempre più favorito per il premio dell’Accademia, le dichiarazioni provocatorie sugli accadimenti legati alla vita di Philip Roth non hanno mai smesso di circolare pubblicamente, mostrando al mondo intero cosa passava nella mente, di volta in volta, di uno scrittore intenso e superbo quanto i suoi personaggi letterari.
Un lungo percorso di vita biologica e letteraria che gli ha garantito un’esistenza e una carriera fuori dal canone dello scrittore solitario e poco dedito alla vita mondana, come ad esempio è accaduto per Thomas Pynchon.
Con Il lamento di Portnoy “condusse” mano nella mano, fin sul lettino dello psicanalista, ogni americano capace di riconoscersi in quel protagonista nevrotico e morbosamente legato all’erotismo. Al tempo stesso, nei panni eleganti dello scrittore coraggioso e feroce ha descritto, senza pietà, un Paese a stelle strisce in continua paranoia e bisognoso di trovare un nemico ovunque, riuscendo a raccontarne le più grande contraddizioni nelle pagine di quei romanzi apparsi negli stati uniti durante gli anni settanta: La nostra gang (1971) e Il grande romanzo americano (1973).
Diversi libri dopo, pur avendo già scritto il grande capolavoro Pastorale Americana, riesce a stupire il grande pubblico con Ho sposato un comunista (1998), tracciando con grande abilità un vero e proprio spaccato sull’ipocrisia americana di segno maccartista.
Con oltre 20 libri di successo pubblicati, e ottantacinque anni di vita, vissuti in qualità di autore dotato di una mente arguta e intelligente, ha potuto riversare nella sua scrittura le più grandi domande che ogni individuo contemporaneo si sia mai posto a proposito di grandi temi universali quali: sesso, vanità e rapporti umani.
In questi ultimi anni di silenzio narrativo, pur smettendo di scrivere sul serio, lo scrittore nato a Newark (all’anagrafe registrato come Philip Milton Roth) è stato capace di far “chiacchierare” i tanti suoi lettori – nonché i detrattori, non di certo pochi e comunque esistenti sic! – fino al punto da permettere, involontariamente, che gli echi della sua presenza si propagassero in lungo e largo prima nel web fatto di bit e byte (facebook e dintorni social) e poi nei media tradizionali (quotidiani, televisioni, radio).
Che piaccia o no ai molti che lo hanno letto, invidiato, amato o al contrario evitato, odiato e sconsigliato, il padre dell’alter ego letterario indimenticabile quale è stato nel tempo Nathan Zuckerman, farà parlare ancora a lungo di sé e della sua opera.
So long Mister Roth.
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