È in uso, tra i grandi giornalisti bellamente accomodati alla mensa del potere, recensire, con lodi sperticate, mediocri libercoli scritti da potenti politici, ricchi signori del mondo o importanti “intellettuali” di regime, dai quali ottenere, in comodato d’uso, il diritto di parola, subordinato alla vendita della propria coscienza, della propria dignità, della propria libertà.
Noi ci pregiamo, invece, di recensire, da queste pagine, L’ho sempre saputo – ultima fatica letteraria di Barbara Balzerani, edita da DeriveApprodi – e di accomodarci accanto a questa donna che, insieme ai suoi compagni delle Brigate Rosse, quei potenti, quei signori e quegli intellettuali – tutti pateticamente rinserrati nella celebrazione narcisistica del proprio Ego smisurato – ha fatto tremare, per oltre un decennio, mettendone a ferro e fuoco le ragioni e, con esse, il sistema di rapporti di produzione e conoscenza, su cui si fondava – e ahimè, purtroppo, continua a fondarsi – il loro arrogante privilegio di comando.
Una donna forte, caparbia, finanche dura, ma non certo priva di quella tenerezza di sguardo e predisposizione alla fratellanza – sociale, mai clericale – con i reietti ammassati nelle periferie delle megalopoli, con i deportati delle banlieue, con i plebei delle baraccopoli di tutti i Sud del pianeta, che ne hanno fatto, ieri, una guerrigliera comunista; oggi, una scrittrice dalla sensibilità lacerante e crudele, dal tratto realistico e magico, dallo stile scarno e spigoloso, seppur ricercato nell’uso di una parola dai profondi echi simbolici e di costrutti densi di coltissime risonanze; e dall’impronta inequivocabilmente marxista.
Fratellanza e tenerezza, dunque, si diceva, alimentate nel silenzio sofferto delle ingiustizie del mondo. Un mondo oppresso dal furore distruttivo del capitale e del profitto, e di cui a pagare dazio sono, da sempre, proprio i dannati della terra.
Una donna che ha saputo resistere al carcere trentennale – il cui senso di svuotamento soffocante e di intima violazione dell’intelligenza, dell’immaginazione e del corpo, è onnipresente nei sui scritti – senza mai svendere i suoi ideali e il suo pensiero rivoluzionario e che, una volta uscita dalle patrie galere, ha continuato ad esercitare dissenso.
Un pensiero perciò, quello della Balzerani, antagonista, sovversivo, eterodosso; che si dispiega, con apocalittica lucidità, non disgiunta da un umanissimo sentimento di appartenenza femminile alla terra e alla comunità degli uomini, anche e soprattutto in questo suo ultimo lavoro.
Proseguendo sulla falsa riga tracciata da Lascia che il mare entri, che già segnava una certa discontinuità con i precedenti lavori, L’ho sempre saputo è un libro certamente di non facile lettura, complesso nelle sue articolazioni concettuali, che risente profondamente della lezione di Walter Benjamin e delle sue Tesi di Filosofia della Storia, come del suo linguaggio messianico-allegorico.
Per tutto il romanzo veniamo posti, nell’incessante fluire di un racconto, che ha la potenza ancestrale di una memoria mitica, nella stessa prospettiva esistenziale dell’Angelo della Storia, di cui parla il pensatore e critico tedesco, mutuandone l’immagine dal bellissimo dipinto espressionista di Paul Klee, Angelus Novus.
Il nostro sguardo è sgomento e inorridito, i nostri occhi feriti dall’abisso dove il Tempo, al muovere di ogni pedina sulla scacchiera della Storia, rovescia cumuli di morti e macerie. Rovine che i passi dell’uomo bianco, attraverso i secoli, hanno lasciato sulla strada dell’inesauribile marcia verso lo sviluppo della tecnica ed il regno delle magnifiche sorti e progressive. Rovine ammassate, nel segno barbarico di un progresso che nessuna beatitudine collettiva ha garantito fin qui; e anzi, il cui prezzo viene posto, dai pochi detentori della ricchezza terrena, a debito inestinguibile sulle vite dei molti miserabili.
Non si può ricomporre lo specchio spezzato della nostra imago, mandata in frantumi dalla nostra stessa avidità di potenza. Vorremmo ridestare i morti, ma non possiamo. Perché la tempesta del progresso, inarrestabile e cieca, ci trascina via dal passato, verso un futuro che ci appare sempre più rapito dal sorriso ebete di un Dio, virtuale e famelico.
È quanto sembra volerci dire la Balzerani ponendoci – con la razionalità ferma del pessimismo ma con l’altrettanto ferma volontà del riscatto possibile – di fronte ai nostri fallimenti politici, di fronte alle nostre presunzioni ideologiche; ma, allo stesso tempo, scuotendoci dal torpore, dal nostro idillio con la resa e dal nostro delirio social-solipsista. Perché una strada percorribile, se vogliamo ancora dirci comunisti, dovremo pur trovarla, nella comunanza della lotta.
L’ho sempre sapiuto è, quindi, come si può facilmente intuire, un libro colto e popolare, immediato e sublime (secondo la definizione di Schiller), circonfuso di un’ aura scioccante (per sintetizzare, in ossimoro, la concezione benjaminiana dell’arte), dove finanche la strada e la riproducibilità dei rifiuti possono farsi poesia.
Un libro poetico, di amara e insultante bellezza – per parafrasare il primo verso delle Illumination di Rimbaud – iniettato di quel mauvais sang, di quel sangue cattivo, di quel sangue negro che, sputato dalle viscere della terra stessa, contamina e condanna l’arroganza potente del colonialismo e dell’imperialismo occidentale, con il suo vorace idolo capitalistico, con il suo «tempo veloce», che uccide persino l’umanità dei sogni più semplici.
Nella stretta cella di un carcere, una donna racconta. È un’immigrata, una nera, una sciamana proveniente dalle terre d’Africa. Dov’è nato l’Uomo. Racconta di un viaggio, il nostro viaggio. Il viaggio dell’umanità ai confini del Tempo e della Storia. Un racconto narratole da sua figlia, nei nove mesi che l’ha tenuta in grembo. Un racconto alla scoperta di sé stessa e della nostra infanzia. Un racconto alla scoperta di un ancora possibile avvenire.
Perché se – come diceva Karl Kraus (ripreso da Benjamin: esergo XIV Tesi) – l’origine è la meta, allora solo una nuova nascita può, rialacciando i fili della memoria, profeticamente presagire il futuro. Solo una nuova nascita può ricongiungere il passato precapitalista e l’avvenire postcapitalista. L’antica esperienza perduta e la futura esperienza liberata. Solo una nuova nascita può interrompere il lineare processo del tempo e la sua progressiva accumulazione storicistica. E dunque, solo una nuova origine, solo la frattura redentrice del kairòs, dell’istante in cui si realizza quell’atto che, al suo compiersi, annulla in sé l’azione continua del tempo, che ne ha provocato l’inverarsi sulla scena della Storia, può ricongiungere passato e futuro, ridestando la memoria dei vinti, oppressa dal giogo commemorativo dei vincitori.
Quell’atto, evidentemente, non può che essere l’atto rivoluzionario, che anela al sovvertimento del potere della classe dominante, alla ricomposizione delle secolari ingiustizie e al riscatto degli sconfitti. Atto rivoluzionario colto nella sua essenza fanciullesca, tragicamente necessaria e inelluttabilmente marxista, capace di restituirci a quella società senza classi che non è lo scopo finale del costante processo storico, ma la sua interruzione così spesso invocata, sempre mancata e finalmente attuata.
L’ho sempre saputo è, allora, un libro appassionante, che rapisce sensi e intelligenza, proprio per questa profondità di pensiero, filtrata dalle crepe di una narrazione che sa farsi mitica, popolare, comune, antagonista.
Un libro capace – con il viatico di una vasta e sedimentata cultura iconoclasta, tracciata comunque nel solco della filosofia e della prassi marxiste, di cui recupera, come si sarà compreso, lezioni altre e certamente non dogmatiche – di affondare il bisturi della critica fin dentro il Cuore di Tenebra del colonialismo bianco ed occidentale, di ogni potere imperialistico, del selvaggio capitalismo finanziario, del mercato, del macello umanitario, della merce elevata a moloch. Ma anche in grado di riaffiorare, sulle labbra livide di angoscia, con la semplice eco e l’immediato dolore di quotidiane parole e di istantanee salgadiane.
Parole e immagini impastate di tremante disperazione, di insopportabile povertà, di crudele mercificazione della persona, di intollerabile svendita sulle tavole dei Mercati borsistici, della primitiva Bellezza umana. Incursioni poetiche che riscoprono un umanissimo desiderio di solidarietà, che penetrano tra le pieghe di non impossibili legami di fratellanza, che viaggiano tra i ricordi di dimenticate abilità artigianali, che si posano sul palmo di mani solcate dal duro lavoro, che giocano su lembi di terre emerse, che celebrano l’acqua, la nascita, la donna.
Tragici ditirambi che ci parlano di ammutolite urla, levate nelle discariche metropolitane a cielo aperto; di brandelli di carne infantile, divorati dal cancro della produzione industriale; di massacri e di deportazioni, di schiavitù e di catene. E, infine, lingua politica, che sulle macerie dell’Apocalisse capitalistica crepita e palpita al fuoco rivoluzionario, covato sotto le ceneri post moderniste e post digitali della catastrofe post liberista, capace di annientare risorse, popoli, individui, resistenze.
Ma sotto quelle ceneri, sembra dirci Balzerani, la Lotta dei miserabili per la vita, non si spegne. Ed è un grembo materno a partorirla!
Nello scorrere incessante delle parole, delle immagini e dei pensieri, che si rincorrono sulla pagina come su uno schermo cinematografico, viviamo improvvise accelerazioni, assistiamo a bruschi rewind, ci smarriamo in assordanti dissolvenze di intere civiltà. L’ho sempre saputo si srotola come una sorta di film lisergico/sinestetico, dove assaporiamo colori, vediamo suoni, annusiamo danze, ascoltiamo umori, tocchiamo parole. Un’Odissea kubrickiana in cui il passato e il presente si fondono, risucchiati in un buco nero spazio/temporale dove le epoche aprono squarci visionari di civiltà passate, di contemporaneità infette, di futuri incerti ma possibili. Futuri anteriori dove lo sviluppo delle forze produttive potrà realizzarsi al ritmo di passi meno affannati, più lenti, capaci di pacificare l’uomo e la terra, in una dimensione culturale umanista, di solidarietà e comunismo finalmente realizzato!
E allora, per tutto quanto detto finora, L’ho sempre saputo è un libro importante, che possiamo iscrivere a pieno titolo, proprio in forza di questa sua architettura linguistico-teoretica, di questa sua tensione etico-allegorica, di questa sua valenza messianica, nella tradizione del romanzo filosofico, da Voltaire a Sartre, da Deleuze a Merleau-Ponty. Un libro che pone domande severe, dolorose, perentorie e imprescindibii, senza cercare alibi o facili rifugi ideologici, nelle pieghe dell’ortodossia marxista. E le pone a noi, come donne, come uomini, come comunisti. Barbara Balzerani non indica risposte, si limita a lasciare orme indelebili per un percorso da condividere nella Lotta comune. «Autogoverno, economia comunitaria, autonomia fondata sulla messa in comune, sul mutuo soccorso». Parole dal sapore antico ma dal potente significato rivoluzionario.
Un libro, come si diceva più su, che risente degli echi di tante letture, di studi approfonditi ma mai compiuti, nel segno di una reverenza ortodossa e dogmatica agli autori di riferimento.
Possiamo parlare così, ad esempio – spingendoci a citare il Moravia che descriveva Pasolini, in un articolo comparso su L’Espresso, a pochi giorni dalla morte del poeta – di un comunismo creaturale, che, nel caso della Balzerani, però, coniuga un rigoroso discorso economico all’indiscutibile valenza umanista. Di Pasolini, ancora, la scrittrice recupera – a mio modesto avviso – la critica alla modernità (ma meglio sarebbe parlare di postmodernità) e la critica all’acculturazione piccolo-borghese delle masse, alla repressione delle culture periferiche e all’omologazione dei desideri, compiute dal dominante pensiero neoliberista, soprattutto attraverso i nuovi social-media.
Una critica alla modernità che, tuttavia, non può certo confondersi con le teorie e i teorici postmodernisti della Decrescita Felice, alla Serge Latouche, per intenderci; quantunque quella critica passi, nel libro, anche attraverso quello splendido capitolo intitolato Il dono, dove la Balzerani, forse riallacciandosi al Saggio sul dono di Marcel Mauss, ci ricorda proprio l’economia del dono, fondata sul dare, sul ricevere e sul contraccambiare; dove il valore d’uso delle merci e degli oggetti era certamente più importante del loro valore di scambio, e le relazioni umane erano fondamentali nell’organizzazione della vita sociale, a differenza di quanto accada nell’economia di mercato, dove i rapporti sono mediati esclusivamente dal denaro.
Un libro, inoltre, decisamente femminile ma non riduttivamente femminista. Ad attraversarlo, infatti, è un carattere femminile che rivendica il suo ruolo fondamentale nella Storia e il suo protagonismo rivoluzionario, nel processo di disintegrazione delle vecchie istituzioni borghesi. Un libro femminile, proprio per l’ancestrale sentimento di appartanenza alla Terra, nonché per quel senso del dono sopra indicato, che lo pervade.
Un libro, ancora, dionisiaco, nel senso più rivoluzionario del temine. Un libro ebbro, orgiastico, danzante. Un libro intriso di eccessiva sapienza dionisiaca. Perché, come scrive Giorgio Colli: «Con Dioniso, invero, la vita appare come sapienza, pur restando vita fremente: ecco l’arcano. In Grecia un dio nasce da un’occhiata esaltante sulla vita, su un pezzo di vita, che si vuole fermare. E questo è già conoscenza. Ma Dioniso nasce da un’occhiata su tutta la vita: come si può guardare assieme tutta la vita? Questa è la tracotanza del conoscere: se si vive, si è dentro a una certa vita, ma voler essere dentro a tutta la vita assieme, ecco, questo suscita Dioniso, come dio onde sorge la sapienza».
Un libro, infine, decisamente teatrale. Non solo per le modalità del racconto compiuto dalla donna: racconto intessuto di gestualità visionaria e imbastito di parola artaudiana e crudele. Non solo perché il Teatro è all’origine della cultura umana, antropologicamente consustanziale ad essa: il Teatro ci sarà, finché saranno in vita due esseri umani. Ma anche perché L’ho sempre saputo mi ricorda quel manifesto Per un teatro clandestino in cui Antonio Neiwiller diceva, con un tono di ammonitrice preveggenza: «È tempo di mettersi in ascolto. È tempo di fare silenzio dentro di sé. È tempo di convivere con le macerie e l’orrore, per trovare un senso […] Che senso ha se solo tu ti salvi […] Un nomadismo, una condizione, un’avventura, un processo di liberazione, una fatica, un dolore, per comunicare tra le macerie […] Ma la merce è merce e la sua legge sarà sempre pronta a cancellare il lavoro di chi ha trovato radici e guarda lontano. Il passato e il futuro non esistono nell’eterno presente del consumo. Questo è uno degli orrori, con il quale da tempo conviviamo e al quale non abbiamo ancora dato una risposta adeguata […] È tempo che l’arte trovi altre forme per comunicare in un universo in cui tutto è comunicazione. È tempo che esca dal tempo astratto del mercato, per ricostruire il tempo umano dell’espressione necessaria […] Tutto ricordare.Tutto dimenticare».
Orbene, un libro, questo ultimo di Barbara Balzerani, di profonda, intima, rigorosa ma mai pedissequa cultura rivoluzionaria. Ma che, allo stesso tempo, non elude quel severo spirito autocritico che è tratto distintivo dell’onestà intellettuale della scrittrice, ex componente del direttivo delle Brigate Rosse.
Ed è proprio sull”esperienza delle Br che, ad apertura di libro, si appunta l’autocritica dell’autrice. Sulle ragioni di una sconfitta che ha lasciato orfane di linguaggio e pratiche rivoluzionarie, le generazioni successive. Un’autocritica che investe, par di capire, anche e soprattutto lo schema rivoluzionario, fin troppo dottrinario – nelle sue coordinate di costruzione del socialismo e del comunismo – che sottese a quella spinta insurrezionale. Uno schema ideologico che, pur portando magistralmente a sintesi precedenti esperienze di sovversione comunista e conquista del potere (Marxismo-Leninismo, Maoismo, Movimenti di Guerriglia in Americalatina e Africa) avrebbe corso probabilmente il rischio, nell’entusiasmo di una possibile vittoria, di riproporre modelli di socialismo reale che, ahinoi e purtroppo, non sempre hanno consentito una reale liberazione delle masse e della loro vita dalla schiavitù del lavoro, del denaro, dell’economia, conducendoci ad una sconfitta di cui, ancor oggi, paghiamo le conseguenze.
Modelli – sembra dirci la Balzerani – che hanno, in fin dei conti, soggiaciuto alle stesse leggi produttivistiche ed economiciste, sia pur pianificate e non deregolate, del capitalismo avanzato, perseguendo un’idea di progresso positivista, scientista, uniforme e buona ad ogni latitudine, ancorché messi al servizio di una società più equa, giusta e libera. Scrive Balzerani: «Pur negandolo, avevamo creduto nelllo sviluppo tecnico illimitato, nella graziosa concessione, da parte del capitale morente, dei mezzi per una transizione mai avvenuta…».
«Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato», scriveva invece George Orwell, in 1984, a proposito del biopensiero. Oggi, nell’epoca della biopolitica e della psicopolitica – teorizzate da Foucault, Agamben, Chul Han – è il passato (per parafrasare Marc Bloch) che necessita di essere liberato dalla sua condizione di ostaggio del presente. E, se vogliamo liberare i nostri corpi e le nostre menti dalla dittatura del pensiero unico neoliberista, la Storia dell’insorgenza comunista degli anni ’70, in Italia, ha bisogno di essere rimessa al centro di un dibattito storiografico serio, franco, non gravato da pregiudizi morali o da lacrime per vittime. Un dibattito che ne contestualizzi i tempi e i modi. Ne politicizzi le motivazioni e le strategie. Un dibattito che non ne riduca il portato al solo sequestro Moro!
Un compito che dovremmo assumerci principalmente noi comunisti. Perché quella Storia ci appartiene. Perché se non siamo in grado di sentirla nostra, di difenderne l’autenticità di Rivoluzione di Classe, se non siamo in grado di credere che quell’assalto al cielo fu possibile e fu condotto da una soggettività politica riconducibile al proletariato e alla Classe Operaia, abbiamo già perso. E consegneremo – se non lo abbiamo già fatto – le generazioni future all’immobilismo, se va bene. Quando non ad una persistente resa al cospetto dei padroni.
È proprio per scongiurare questo rischio che abbiamo bisogno, allora, di restituire la parola ai protagonisti di quegli anni. Una parola che lo Stato vorrebbe negargli. O che sarebbe disposto a concedere solo in caso di pentimento e di abiura. Una parola più che mai necessaria, come quella di Barbara. Che, al pentimento e all’indulgenza, ha sempre opposto.l’orgoglio della sua Storia.
Parola dura come la pietra, ma levigata con la passione scolpita nelle mani di antichi artigiani. Ma d’altronde, io l’ho sempre saputo!
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Riccardo Mario Corato
Complimenti Vincenzo.
Una recensione bella e profonda e soprattutto ,meritata dell’ultima potente fatica letteraria di Barbara.
Anch’io, come te, credo che “L’ho sempre saputo” sia un capolavoro.
Un abbraccio fraterno.