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Quale “non violenza”, se Israele finanzia?

Se Israele finanzia, sia pure “solo” assumendosi le spese di viaggio di suoi cittadini perché giungano dove devono esibirsi per un’iniziativa che voglia diffondere la cultura della nonviolenza, non fa un buon servizio innanzitutto agli organizzatori né alla nonviolenza o non-violenza o non violenza, comunque la si voglia scrivere.

Difficilmente l’evento si potrà scrollare di dosso l’accusa di aver contribuito alla propaganda israeliana ed alla normalizzazione di occupazione e apartheid.

E’ accaduto al Love Sharing Festival tenutosi a Cagliari dal 17 al 26 ottobre. “Festival di teatro e cultura nonviolenta”.

Del ruolo dell’Ufficio Culturale dell’Ambasciata d’Israele nell’evento informa il “Sardegna Reporter” ripetutamente e il 23 ottobre titola: A Cagliari la danza è protagonista. Ruolo confermato dalla risposta data dagli stessi organizzatori: “L’ambasciata israeliana ha finanziato il viaggio di questi artisti”, all’Associazione Sardegna-Palestina, che aveva lamentato la paradossalità di una sponsorizzazione israeliana della nonviolenza.

Il sottotitolo dell’articolo citato sottolinea: “va in scena la compagnia Tami Dance Company (in arrivo da Israele)” e tale provenienza è evidenziata anche nello stringatissimo “Kalaris Eventi” ed in altre pubblicazioni, che inoltre riportano il ruolo dell’Ufficio cultura dell’Ambasciata israeliana, in “Antas” , portale di storia e personaggi della cultura sarda”; in “Eventi Culturali”, che in aggiunta assume come immagine dell’intero programma quella del balletto israeliano.

L’effetto propaganda per Israele difficilmente può essere negato.

Dal portale Antas, che informa anche dell’attività del pomeriggio, “Immaginare vita e lavoro gestiti in maniera collettiva: l’esperienza innovativa del kibbuz”, si riceve l’immagine di una giornata facilmente percepibile come israeliana.

La breve disamina sembra confermare la convinzione dell’Associazione Sardegna-Palestina che questa presenza nel festival di “cultura nonviolenta” abbia un effetto di propaganda per lo Stato israeliano e favorisca la normalizzazione delle sue numerose violazioni del diritto internazionale e dei diritti dei Palestinesi ed addirittura lo faccia apparire “pacifista, dialogante e promotore di iniziative sullo sfondo della non violenza”, come osserva l’imprenditore Mouhamed Dieng nel post in cui comunica il proprio ritiro dal festival .

Tuttavia, qualcuno con ostinato candore potrebbe domandarsi: “forse gli organizzatori non hanno tutti i torti: se hanno avuto dei soldi per far venire artisti che propugnano messaggi nonviolenti e si oppongono allo status quo israeliano, che male c’è?”

D’altra parte, è con piglio ferreo che gli organizzatori hanno risposto “Love Sharing Festival ha invitato gli artisti israeliani, che non sono lo Stato Israeliano. Sono al contrario coloro che all’interno di quello Stato portano avanti una cultura nonviolenta.“

Per organizzatori di un festival che vuole proporre un modello che è nello stesso modo di procedere, può essere facoltativo approfondire la ricerca d’informazioni sugli invitati?

Chi avesse effettuato queste ricerche in internet accessibili a tutti, avrebbe saputo che

la Compagnia invitata è già ampiamente connessa con le violazioni israeliane, in quanto istituzione culturale di quello Stato.  Lo dice di sé a chiare lettere sul suo sito:

La Nimrod Freed/Tami Dance Company si esibisce in Israele e all’estero, con il repertorio della Compagnia e co-produzioni internazionali. Essa è sostenuta dal Ministero della Cultura e dello Sport, dal Dipartimento di Danza dell’Amministrazione, dal Consiglio della lotteria per Cultura ed Arte, dal Ministero degli Esteri –la Divisione per Relazioni Culturali e Scientifiche, dal Tami House Central Tel Aviv Community Center, dall’Associazione dei Coreografi.

Inoltre, in generale coloro il cui viaggio è pagato da Israele sono “rappresentanti” di quello Stato, come testimoniano diversi episodi anche dopo la pubblicazione anni fa di un documento-tipo firmato da artisti letterati ed in generale intellettuali che andavano all’estero con finanziamenti statali e la stessa cura che ha Israele nel far risaltare la propria presenza, anche grazie ad ingenti investimenti, in progetti e competizioni sportivi e culturali.

Per quanto osservato sin qui, anche se non fossero stati dati altri finanziamenti, oltre l’acquisto dei biglietti della compagnia, il Festival risulta sponsorizzato anche dallo Stato d’Israele.

Colpisce il tenore della risposta fornita dagli organizzatori alla critica mossa dall’Associazione Sardegna Palestina.

Che cosa significa affermare che gli artisti invitati “sono coloro che all’interno di quello Stato portano avanti una cultura nonviolenta”? Sono gli unici? Gli unici riconosciuti tali dagli organizzatori?

La risposta degli organizzatori prosegue: “E’ nostra convinzione che sostenere chi aderisce a una cultura nonviolenta ed è in grado di dialogare con le altre culture, sia una valida strategia per far crescere la possibilità di un cambiamento pacifico all’interno di quello Stato. Di fronte alla violenza favoriamo la crescita e il rafforzamento di forze pacifiche.”

E’ il caso di ricordare che il festival non nasce in un vuoto pneumatico e non ha da inventare ex-novo ogni gesto ed un codice per leggerlo: i Palestinesi dal 2005 hanno lanciato al mondo la richiesta di boicottare Israele. Questo non sembra facilmente eludibile senza assumersene la responsabilità morale e politica.

Non è un modo qualificante della nonviolenza intervenire non già imponendosi intervenendo di propria iniziativa, bensì accogliendo l’invito di chi nel “conflitto” è la parte soccombente?

Riteniamo che sia fondamentale, da nonviolenti, incoraggiare chi all’interno di Israele promuove una cultura di pace”. Gli organizzatori non hanno bisogno di ascoltare la richiesta dei Palestinesi, hanno una propria strategia, paghi dei propri esclusivi strumenti di valutazione.

Non è forse vero che la violenza più forte è quella strutturale? Non è forse vero che imporre il silenzio alla protesta del debole è su di lui un’ulteriore violenza?

Gl’interlocutori degli organizzatori sono altri, evidentemente. “Nimrod Freed, direttore della compagnia di danza Tami Dance Company, è un ferreo pacifista e afferma: ‘per tutta la nostra vita speriamo, preghiamo e danziamo per la pace. Vorremmo davvero che questo eterno conflitto si risolvesse pacificamente.’

Secondo studiosi di Aldo Capitini, uno dei padri italiani della nonviolenza, questi non apprezzava l’equivalenza tra nonviolenza e pacifismo, anzi!

Andrea Coppi precisa: obiettivo polemico di Capitini era il pacifismo, (…) limitato ad offrire una risposta passiva e non attiva, (…) il suo obiettivo non era il pacifismo, ma la pace, da perseguire mediante l’adozione di metodi nonviolenti” (pag 4)

L’espressione d’impegno del pacifista della compagnia israeliana: ‘vorremmo davvero che questo eterno conflitto si risolvesse pacificamente.’ Sembra in realtà più una generica speranza di una risoluzione che “si” faccia senza soggetto, più vicina alla passività vista come pericolo di un generico “pacifismo” da Capitini che un’assunzione di responsabilità che si traduce in azione.

Certo, sono nominate le preghiere e le danze come azioni in quella direzione. Ma perché tacere di quell’altra opposizione nonviolenta alla violenza strutturale di questo Stato di apartheid che persegue anche oggi la pulizia etnica: boycott from within, Israeliani ed Israeliane che boicottano il proprio Stato e con i Palestinesi chiedono ai cittadini del mondo di fare altrettanto? Perché gli unici interlocutori in Israele sono costituiti “dai singoli artisti agli obiettori di coscienza che rifiutano di andare in guerra.”?

E’ frutto di una preferenza per la dimensione individuale: l’obiezione di coscienza invece del boicottaggio?

E pure, appena la settimana scorsa fa proprio a Cagliari Miko Peled, ebreo israeliano “figlio del generale”, come si è definito nel titolo della sua autobiografia, ha tenuto due incontri pubblici. Ed in questi, lui ex soldato e figlio di combattente, ha con forza sostenuto la necessità di boicottare Israele, perché gli sia imposto di porre fine alla pulizia etnica ed all’apartheid che continua a portare avanti.

Lo “scivolone” del festival ed il finanziamento israeliano, di qualsiasi entità ed a qualsiasi titolo, saranno stati utili se potranno essere un punto di ripartenza del confronto più ampio e della riflessione nello stesso universo della nonviolenza.

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