La cosiddetta globalizzazione, o meglio la nuova fase di mondializzazione capitalista, è nata dall’arma dello Stato imperiale. Al fine di proteggere ulteriormente il loro capitale all’estero, gli USA e l’UE hanno creato una nuova dottrina NATO che rende legali le guerre di aggressione contro ogni Paese che minacci interessi economici vitali (delle loro multinazionali), chiamandole “guerre preventive”.
Le alleanze militari dello Stato imperiale con più Stati sono fatte per assicurare un lasciapassare per le multinazionali americane ed europee all’interno dei Paesi “deboli” e per garantire che i profitti possano essere rimpatriati senza problemi nelle sedi centrali negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale.
La finanziarizzazione è un fenomeno strettamente legato alla globalizzazione neoliberista, in cui le grandi imprese finanziarie, i fondi investimento e i fondi pensione stanno togliendo alle grandi imprese industriali una grande fetta d’investimenti. Oggetto della speculazione finanziaria possono essere anche i diversi tipi di cambio monetari e attualmente la quasi totalità delle criptovalute. Il controllo valutario e del capitale finanziario permette di determinare delle oscillazioni del tipo di cambio e, attraverso esso, di accumulare un notevole profitto.
La crisi capitalistica che oggi si presenta in tutta la sua dirompenza è stata definita come sistemica: la ragione di tale definizione è insita nell’analisi della strutturalità e della globalità della crisi, che evidenzia chiaramente la tendenziale caduta del saggio di profitto nei Paesi a capitalismo avanzato. Sempre più ampio si presenta il divario tra lo sviluppo delle forze produttive, modernizzazione e socializzazione dei rapporti di produzione corrispondenti.
In questa fase storica, non esiste possibilità per le classi lavoratrice, per le masse subalterne (per usa le parole di Antonio Gramsci) di ricercare il loro riscatto e la loro emancipazione dalla condizione di spoliazione patita. La mancata corrispondenza tra il disagio, la materialità delle condizioni di vita determinate dal sistema capitalistico e la rappresentanza organizzata, di classe, più tradizionale, per questo blocco sociale è uno degli argomenti oggi più controversi e dibattuti.
Superando l’ostracismo accademico operato nei confronti della teoria di Marx, risulta ineludibile una riflessione su una prassi alternativa e positiva delle contraddizioni fondamentali del modo di produzione capitalistico: intervento dello Stato in economia, superamento dell’alienazione e della condizione di sfruttamento del lavoro e, persino e sempre maggiormente, della condizione di moderna schiavizzazione dei lavoratori, sono oggi un terreno di analisi ineludibile, che comporta che i limiti di sistema e i suoi prodotti (condizione di disoccupazione, precarizzazione tendenziale) non siano accettati come dati, ma siano considerati quale specchio dei limiti sopra citati.
Una comunicazione deviante, di fatto piegata alle logiche di compatibilità di sistema, tende oggi ad asservire alle logiche capitalistiche stesse i danni del modello produttivo, a rappresentare la condizione di disoccupazione, le grandi sacche di povertà e diseguaglianza come frutto della negligenza o della incapacità soggettiva, di un darwinismo sociale odioso, in luogo di un prodotto, in verità, finito di un intero sistema economico e sociale.
Tale critica non è, in verità, appannaggio della sola teoria marxista, ma essa è stata fatta propria dalla migliore tradizione keynesiana, autenticamente progressista e nemica della mercificazione e della diseguaglianza sociale di cui è portatrice la venerazione del mercato e delle ragioni proprietarie e dei suoi araldi nel panorama intellettuale ed anche accademico.
Nell’introduzione a “In difesa del Welfare State”, il prof. Federico Caffè, del resto, espone magistralmente la natura e l’impianto propri di una “concezione economico-sociale progressista” che faccia suoi, irrinunciabilmente, gli obiettivi di egualitarismo e assistenza consustanziali a quello Stato inteso come “garante del benessere sociale” e quindi della rimozione delle inevitabili gravi conseguenze del laissez faire, della centralità della proprietà privata nella regolazione dei rapporti di produzione e sociali. La contestazione è direttamente portata alla centralità assoluta del mercato e al ruolo “nefasto” e guastatore attribuito allo Stato. Tale assunto è contrastato, da parte di Caffè, attraverso l’evidenza del mercato come diretta creazione umana e dell’intervento pubblico come sua componente necessaria.
Di particolare e distinta importanza, appaiono le parole di Caffè rispetto al primato degli obiettivi sopra ricordati, al punto da accettare e sostenere una politica economica munita di strumenti capaci di controllo e condizionamento delle scelte individuali, al fine di garantire gli scopi più alti fondamentali. Si tratta, con ogni evidenza, di un equilibrio fondamentalmente spostato in favore del ruolo attivo ed agente dello Stato e, di contro, sfavorevole agli spazi di manovra proprietari e individuali nel mercato.
Pur non giungendo all’affermazione di un’alternativa di sistema generale, nella storia del pensiero economico autenticamente di progresso, hanno trovato pienamente cittadinanza tanto il rifiuto della naturalizzazione dei rapporti di produzione, quanto la necessità di archiviare la centralità del primato della valorizzazione a scopo di profitto, a qualunque costo, propria del modello capitalistico, assieme alla definizione di un ruolo centrale dello Stato nella rimozione delle peggiori conseguenze di una visione squisitamente liberista dell’economia.
Del resto, lo stesso Caffè ha mostrato favore e apprezzamento anche per differenti teorie economiche, a cominciare da quella marxista, per la immutata centralità della questione sociale, delle «condizioni di chi è privo di lavoro, di assistenza, di prospettive di elevarsi […]», denunciando apertamente anche la condotta mancante del riformismo laico.
Nel pensiero di Amin, esistono due possibili sbocchi evolutivi per il sistema: il primo, rappresentato da un evoluzione pienamente nella continuità e nell’implementazione del colonialismo e dell’apartheid in senso generale, con conseguente livellamento delle forze produttive per cui un vasto proletariato presterà il proprio lavoro al corrispondente più alto livello di sviluppo delle forze produttive, ma con remunerazioni e salari assolutamente differenti (modello di Jaffe); il secondo, rappresentato da un avvenire capitalistico privo di colonialismo.
Uno scenario quest’ultimo, poco verosimile in quanto «la borghesia, il proletariato della periferia non potrebbero essere, per un ragione o per l’altra, sfruttati in questa misura, perché ciò minaccerebbe una rottura del sistema e l’instaurazione del socialismo […]» , per evitare il quale la borghesia sarebbe costretta ad elargire concessioni e a ridurre (contrariamente ai propri interessi) il livello di spoliazione, mediando con le potenze imperialiste anche la “tutela” degli interessi dei lavoratori, sulla spinta di uno spirito puramente nazionalistico.
Accanto a tali ipotesi – ed è, questa, la posizione di Frank, accolta e presa in considerazione da Amin – vi è la possibilità di un’integrazione intermedia tra gli scenari di cui sopra: una generalizzazione dello scenario del secondo tipo, ma contenente al suo interno aree e Stati cosiddetti sottosviluppati, secondo quanto descritto attraverso il primo scenario presentato.
Alla luce di quanto detto circa la funzione concreta del capitalismo e della politica imperialista nei confronti dei Paesi dominati, ben si comprendono le parole di Amin che individua la tendenza propria del modello di produzione capitalistico alla demolizione dei residui precapitalistici negli Stati coloniali, ma allo stesso tempo alla rigenerazione dei medesimi come condizione del permanere dello sfruttamento e della conservazione della dicotomia tra dominato e dominante.
Risulta evidente, sulla base di quanto in ultimo esposto, quale peso essenziale rivestano le lotte di classe nella definizione di questi scenari, posto il rifiuto di ogni supposizione previsionale puramente basata su un marxismo inteso erroneamente come blando economicismo.
Il rapporto tra struttura e sovrastruttura, nell’ambito della critica all’economicismo anche come deformazione del pensiero di Marx, ha interessato da vicino tanto la critica al sistema mondiale capitalistico, quanto la questione delle esperienze di transizione al socialismo. A partire dall’evidenziazione di un nesso strettissimo tra modello culturale e modello di produzione, è stato affermato che:
«nella misura in cui questo modello culturale cadesse, il capitalismo si troverebbe privo di un base materiale e senza forza culturale; perché nella definizione stessa di ciò che è forza produttiva per il capitalismo, entra una componente ideologica: forza produttiva è ciò che serve al soddisfacimento dei bisogni di un uomo già a priori preformato».
In tale contesto, si prefigura la possibilità, nonostante la vigenza di un modello di dominio capitalistico, di schierare il proletariato in una battaglia ideologica capace di costruire un’alternativa, a partire dall’avvertimento di autentici bisogni proletari non capitalistici per i lavoratori, tesi accolta da Amin .
È da tali problemi e dinamiche reali che ci si pone oggi l’obiettivo di analizzare l’intenzione di creare un nuovo ordine economico pluripolare e multicentrico, la sua fattibilità e la garanzia di un equilibrio universale che minimizzi la supremazia delle potenze e ci permetta di procedere verso modelli di giustizia sociale ed uguaglianza. Tuttavia, la presente evoluzione mondiale non traccia alcun “nuovo ordine” quanto piuttosto nuove forme di scontro mondiale tra l’ordine dell’impero (occidente) e la volontà di indipendenza (di “decolonizzazione”) di quello che volgarmente si è soliti chiamare “terzo mondo”.
Quello che sta avvenendo è che la volontà di indipendenza nazionale degli Stati ancor più i semiperiferici si rivela con nuovi parametri ideologici (neo-sviluppo nazionale), i quali continuano ad avere come elemento principale la critica del dominio della proprietà privata e, quindi, della volontà imperiale di possedere la proprietà di tutto il capitale redditizio in tutto il mondo e in particolare nella periferia.
La differenziazione del lavoro all’interno delle aree periferiche, tra una componente perfettamente integrata nel sistema produttivo mondiale ad alta produttività e di un’altra vasta componente impiegata in settori bassamente produttivi, ha posto e pone il problema del «valore generato dal lavoro e, dall’altro, il problema del valore della forza-lavoro […]».
Da questo punto di vista, emerge la questione lungamente dibattuta sulla presenza già in Marx di un capitalismo poggiante sulle basi del colonialismo o di un modello capitalistico storicamente descritto dalle circostanze storiche reali, tra cui quelle rappresentate dalla colonizzazione. Il capitalismo mondiale, descritto negli anni Settanta, in questa prospettiva e coerentemente alle premesse date, è considerato come “una famiglia di formazioni sociali” essenzialmente fondata sulla alleanza tra classi borghesi e proprietari terrieri in un periodo mercantilistico e figlio dell’industrializzazione. La cifra caratterizzante il sistema mondiale e la diseguaglianza, la disomogeneità: nei livelli di sviluppo, di produttività, di status economico e commerciale.
Lo studio intrapreso nel presente volume si propone non già di basare l’approfondimento sul sistema monetario e, in generale, sui problemi dell’economia in astratto, focalizzando l’attenzione della ricerca esclusivamente su di un’ “economia pura”, fondata sull’astrazione delle categorie economiche, o sui peculiari tratti caratteristici, anche in questo caso valutati in astratto, del modello produttivo ed economico ancor oggi dominante, quello capitalistico.
Questa riflessione si propone di indagare i problemi del sistema monetario internazionale, della sua gestazione, della sua evoluzione, dei problemi nuovi che in esso si ritrovano a partire dall’inquadramento della questione specifica nell’ambito della fase storicamente determinata attuale, data dalla mondializzazione della produzione e della riproduzione sociale capitalistica, con particolare cura all’evidenziazione del tornante inedito che essa sta assumendo nel confronto tra le tendenze mondiali, specialmente negli anni più recenti.
In particolar modo, si fa riferimento al declino dell’egemonia unipolare statunitense e del suo segno sulle relazioni economiche, politiche e internazionali del tempo presente; al nuovo scenario determinato dalle politiche poste in essere dalle classi dirigenti USA per contenere o tentare di invertire la tendenza così descritta; in ultimo, alla parallela ascesa di un contesto internazionale multicentrico o pluripolare, all’interno del quale esistono oggi elementi nuovi e persino inediti di riflessione per una prospettiva di transizione.
Nel volume “Volta la carta… nel nuovo sistema economico-monetario: dal mondo pluripolare alle transizioni al socialismo”, trattato di analisi del ciclo economico multicentrico a cura di L. Vasapollo, J. Arriola, R. Martufi (edizioni Efesto 2020) si affrontano le tematiche più attuali e controverse dell’economia mondiale:
• La grande recessione e la lunga depressione: caratterizzazione della crisi attuale, prendendo in esame tutte le crisi globali del capitalismo in quanto periodi di evoluzione, mutamento e cambiamento strutturale; quali cambiamenti sono previsti con la più recente crisi del capitalismo; interpretazione della finanziarizzazione, del neocolonialismo, del neoprotezionismo e del militarismo come dimensioni della lotta di classe contemporanea.
• La finanziarizzazione e l’indebitamento nella crisi sistemica, ossia l’attuale crisi del capitale che viene da lontano e mostra la sua strutturalità già dai primi anni ‘70, con una tendenza al ristagno e forti e continue tensioni recessive, in parte attenuate da continui processi di ricomposizione della localizzazione dei centri di accumulazione mondiale del capitale, con una riduzione temporale dei cicli delle crisi finanziarie, che hanno evidenziato come le diverse forme di indebitamento crescente, interne ed esterne, di pubblico e privato, abbiano di fatto in qualche modo garantito la sopravvivenza degli storici centri di accumulazione del capitale del Nord America e dell’Europa Occidentale.
• L’indebitamento generalizzato è parte di questa prospettiva finanziaria, che si è affermata con un lungo ciclo di bassi tassi di interesse, accompagnato da forme selvagge di deregolamentazione e dal ruolo centrale degli organismi internazionali, in particolare del FMI, che ha sostenuto un sistema di pagamenti internazionali in grado di garantire la continuazione di una voluta condizione di squilibrio, nella quale all’incredibile indebitamento statunitense potesse sopperire l’enorme surplus di Giappone, Germania e Cina. È ovvio che una tale struttura dei pagamenti internazionali immette nel sistema una gigantesca concentrazione di liquidità detenuta dalle grandi multinazionali e gestita dalle grandi banche e dalle grandi società finanziarie. Tali eccessi di liquidità sono stati incanalati nel sistema finanziario contraendo ancor più fortemente gli investimenti produttivi, riducendo così la capacità di reddito dei lavoratori. La trasformazione monetaria. Il concetto di denaro è diverso nel capitalismo rispetto altri modi di produzione; sotto il MPC il denaro è l’espressione generale (materiale e simbolica) del valore, è quindi una condizione per la possibilità della produzione (e circolazione) capitalistica dei valori d’uso. Tuttavia, lo stesso regime monetario si è evoluto in diverse fasi del capitalismo.
• Il cambiamento produttivo, dove la caratteristica principale del nuovo capitalismo si esprime nelle catene globali del valore: la separazione tra la produzione dei valori d’uso e la dissoluzione degli spazi fissi di localizzazione del processo produttivo e della configurazione territoriale e sociale ad essi associata (urbanistica, educazione, relazioni sociali, etc.).
• Verranno analizzate le nuove forme di gestione monetaria associate alla globalizzazione finanziaria, la formazione di un mercato finanziario globale come strumento di controllo sociale: dal governo unitario della sinistra francese e la crisi del debito dell’America Latina (1982) all’attuale Venezuela, la destabilizzazione finanziaria ha giocato un ruolo centrale nell’opposizione del capitale globale a qualsiasi forma di espressione di sovranità popolare e lotta anticapitalista.
• Le resistenze monetarie. Questa parte analizzerà la teoria dell’indipendenza monetaria come forma di resistenza al capitale globale e indicherà il tipo di architettura finanziaria e funzionale necessaria alla sua efficace attuazione.
Le ragioni dei fallimenti di tali impostazioni come di tanti movimenti egualitarismi privi di una base d’analisi scientifica o comunque teoricamente organica è stata chiaramente esplicitata dallo stesso Samir Amin:
«tutti questi movimento sono falliti perché erano stati incapaci di immaginare ciò che noi oggi possiamo immaginare come comunismo: un comunismo nella ricchezza, un comunismo che sappia dominare la natura. Il loro era un comunismo all’interno dell’accettazione del predominio della natura […]. A quel livello di dominio della natura non si poteva andare più avanti; ma in ogni caso, il progredire del dominio sulla natura, il relativo svilupparsi delle forze produttive, non costituivano la strada verso ineguaglianze individuali, come la mente occidentale contemporanea immagina, ma per l’eguaglianza, per un’eguaglianza tutti insieme, a livello delle masse e una maggior potenza per lo Stato, uno Stato spesso molto migliore di quelli attuali. Quest’ultimo costituiva l’alienazione ideologica necessaria per il progresso della società a quel livello di sviluppo» .
Ciò che invece, come già ricordato, risulta irrinunciabile è il carattere scientifico della critica ricercata, il rifiuto dell’utopismo – l’avversario, in fin dei conti, sempre gradito in una contesa sul terreno scientifico – come prospettiva di alternativa rispetto allo stato delle cose esistenti.
Lo studio in oggetto, in ultima analisi, si propone l’unità della ricerca e dell’indagine teorica con la prassi; di ricercare la strada per la comprensione della società e della via per i suoi mutamenti. La questione della democrazia per i lavoratori, del mutamento qualitativo del potere, del suo esercizio, sono oggi il terreno storicamente ancora necessari per un’analisi che non si accontenti della mera descrizione didascalica dei fatti, ma che porti la sua scientificità alle necessarie conseguenze.
La crisi sistemica, che ha reso manifesti – e non da oggi – i limiti endogeni del sistema mondiale dominato dal capitalismo dimostra che il mantra della “fine della storia”, imposto con la crisi dell’ex blocco sovietico, è stato concretamente un prodotto ideologico finalizzato ad un nuovo ciclo di espansione imperialistica, al sostegno all’estensione del processo di mondializzazione.
Come approfonditamente esplicitato nelle pagine del testo, il quadro odierno si presenta tutt’altro che predeterminato e oggi, forse più che mai, la competizione internazionale si caratterizza per un esito incerto, sul terreno economico, tecnologico, e probabilmente persino militare. I rapidi mutamenti della fase storica di transizione oggi in corso necessitano di strumenti di indagine che, in premessa, si presentino immuni da ogni passiva accettazione del concetto di naturalizzazione del sistema produttivo, economico e sociale; per questo, le categorie della tradizione della critica dell’economia politica e della teoria che più conseguentemente ha sottoposto a critica scientifica i meccanismi di funzionamento del modo di produzione capitalistico si presentano di estrema attualità e necessario impiego, tanto per l’interpretazione, quanto per la trasformazione.
Luciano Vasapollo, presentazione del libro “Volta la carta… nel nuovo sistema economico-monetario: dal mondo pluripolare alle transizioni al socialismo”, edizioni Efesto 2020
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