Nuovo appuntamento con l’Accademia Rebelde: “Dalla Costituente alla morte di Togliatti”. Venerdì 12 febbraio, ore 18:00, in diretta Facebook su “Rete dei Comunisti Roma” e “Radiosonar.net”, e Instagram su “Accademia Rebelde”.
Dopo il Fascismo e la Resistenza, il PCI cambia forma ancora una volta: da partito di quadri (poi nella versione clandestina) al “partito nuovo”, di massa. Diventa così qualcosa di diverso (non proprio di nuovo) da ciò che era all’atto della sua fondazione nel 1921, la cui versione bolscevica durò pochissimo (fino alla messa al bando nel 1926).
Con questa formula organizzativa prova a dare vita a un percorso di “trasformazione rivoluzionaria” (secondo un’espressione ricorrente nei documenti) del Paese attraverso le formule prima della “democrazia progressiva” e poi della “via italiana al socialismo”, la cui sostanza consisteva in una via gradualista e parlamentare, di lotta e di egemonia politica e culturale con le quali portare le “masse popolari” al governo.
Le future “riforme di struttura” per la democratizzazione in senso socialista della politica e dell’economia saranno la declinazione pratica di questa strategia che a buon diritto può chiamarsi “riformista”.
L’ambiguità del riformismo (strumento per il socialismo o stampella del capitalismo nella fase della ricostruzione?) perdurerà per mezzo secolo fino allo scioglimento del partito, equivoco che ha portato alla lunga a privilegiare il mezzo (le riforme) e a perdere di vista il fine (la “trasformazione rivoluzionaria”), non ponendo mai a verifica la strategia e i mezzi con cui attuare la strategia.
Col fallimento della rivoluzione in Occidente, dalle parole del Gramsci dei Quaderni si enucleava una diversa modalità rivoluzionaria per i paesi imperialisti, quella della “guerra di posizione” la cui caratteristica principale, a differenza della “guerra manovrata”, non sarebbe consistita nell’avanguardia delle trincee ma in tutta l’organizzazione di retroguardia che avrebbe sostenuto la linea del fronte.
Da queste metafore militaresche si passò alla declinazione pratica di Togliatti per dare vita alla sua strategia, non più bolscevico-rivoluzionaria (per l’assalto al “palazzo d’inverno”, “guerra manovrata”), ma gradualista con una forte organizzazione di quadri ma soprattutto di massa (guerra di posizione).
Si può discutere a lungo quanto le previsioni di Togliatti fossero nel giusto, ma di certo quella degli anni Cinquanta fu una battaglia di retroguardia, più che una guerra di posizione. Non si trattava di avanzare lentamente ma inesorabilmente verso il potere (cosa che non avvenne mai), ma si trattò della sopravvivenza stessa del partito di massa e di una forza comunista in sé: nel clima del più becero anticomunismo nazionale e internazionale e del più vieto clericalismo anticomunista del Vaticano, il PCI fu osteggiato e ostracizzato, dopo l’iniziale partecipazione al governo nazionale subito dopo la fine della guerra, fino ad arrivare all’attentato a Togliatti, “evocato” e realizzato nel luglio del 1948.
Il PCI, a livello nazionale, riuscì sicuramente a salvarsi e a dare “rappresentanza politica” alle masse proletarie e popolari. In questo senso il PCI del dopoguerra, quello di Togliatti, è stato sicuramente un protagonista di primo piano della storia della Repubblica italiana, e non è errato dire che è stato una forza che ha consolidato la democrazia in questo paese che non ha mai finito di fare i conti con il fascismo. Tutto questo, del resto, era quanto affermato e voluto dalla linea di Togliatti.
Ma non riuscì a dare incisività alle masse popolari, che, più che modificare, subirono le politiche reazionarie della borghesia e della DC-Vaticano. Al massimo riuscì ad arginarle, per quello che gli fu possibile.
Dunque la strategia della “democrazia progressiva” o della “via italiana al socialismo” non sortì gli effetti desiderati. E questo è un fatto incontestabile. Il PCI non è stato un’organizzazione fattualmente rivoluzionaria; si potrà certo discutere se fosse stato un problema di condizioni oggettive (come ci si giustificava, almeno all’inizio), o se fosse stato un problema di influenze esterne, bloccata dall’Unione Sovietica, come alcuni storici sostengono, per dimostrare che il PCI era, “colpevolmente”, diretta emanazione del PCUS; oppure, ancora, si potrà dire che fosse stato un problema di condizioni soggettive, di mancanza di coraggio e spinta rivoluzionari, di trasformismo revisionistico e reazionario.
O forse è stato il frutto di tutte queste cose, di condizioni oggettive e soggettive, ma servirebbero storici di altro tipo per verificare questa ipotesi: non solo il PCI, in Occidente, non è riuscito nell’intento della “trasformazione rivoluzionaria” di un paese capitalista e complice dell’imperialismo, ma neanche il movimento comunista internazionale ha saputo affrontare organicamente il nodo della trasformazione rivoluzionaria dell’“Occidente” (che era il grande nodo teorico e politico dei Quaderni del carcere). Fu un problema di incapacità o di opportunismo politico?
Sarà un caso che la rivoluzione “classica”, mentre ha sempre fallito in Occidente, nel centro della metropoli imperialista, ha fatto presa solo nella periferia del mondo capitalistico? Sarà un caso che la presa del palazzo d’inverno riprese in Cina e nel mondo colonizzato, in condizioni economico-sociali e statuali affatto diverse da quelle del centro imperialista? È, forse, lo scontro tra Togliatti e Mao non tanto il simbolo di un contrasto tra revisionismo e fermezza ideologica, quanto di differenze, oggettive e soggettive, tra “Occidente e Oriente”, ossia tra il “centro” e la “periferia” del sistema capitalistico mondiale?
Certo è che la linea della “democrazia progressiva” o della “via italiana al socialismo” ha portato solo al consolidamento dell’Italia repubblicana (come si vantano i suoi miseri eredi), dunque della democrazia borghese e alla restaurazione della socialdemocrazia in Italia (come in tutta l’Europa occidentale, del resto).
Quella forza che si volle rivoluzionaria, che non si discostò mai dall’appoggio del blocco comunista capeggiato da Mosca (ma con quale strategia?), che continuava a considerare necessaria un’azione internazionale comune del movimento comunista (almeno finché visse quella generazione che si formò con l’Internazionale e il Comintern), non solo non riuscì a trasformare quei rapporti di forza a livello nazionale, non solo non li intaccò in modo durevole (se non, forse, per un breve periodo), ma finì addirittura coll’opporsi a quelle forze che successivamente si posero l’obiettivo dell’“assalto al cielo” negli anni Settanta.
A quel punto il PCI si trasformò da forza riformista (con le ambiguità di cui sopra) in forza controrivoluzionaria, opponendosi ai “gruppi” rivoluzionari sorti sull’onda delle risorte rivoluzioni nel mondo (Cuba, Vietnam, ecc.) e di un rinato protagonismo operaio e proletario che in Italia, benché non maggioritario, aveva segnato le lotte dagli anni Sessanta ai primi anni Settanta.
Ma questa sarà la storia della prossima e ultima puntata di questo ciclo.
Appuntamento: venerdì 12 febbraio, ore 18:00, in diretta Facebook su “Rete dei Comunisti Roma” e “Radiosonar.net”, e Instagram su “Accademia Rebelde”.
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