Il Ceo di Twitter, Jack Dorsey, ha messo all’asta il suo primo Tweet. L’offerta più alta raccolta sino ad adesso è di 2,5 milioni di dollari (v.cent.co/tweet/20). Mike Winkelmann, classe 1981, artista digitale made in USA, noto come Beeple, giovedì 11 marzo, dopo una serie di più di 180 offerte nell’ultima ora, in un’asta online da Christie’s ha venduto un file JPG per 69,3 milioni di dollari, battendo astisti tradizionali come Turner, Georges Seurat e Francisco Goya (nytimes.com).
L’opera venduta da Beeple è Everydays – The First 5000 Days. Si può vedere un po’ dappertutto, ovviamente anche sul sito di Christie’s. Si tratta del collage di immagini scattate da Beeple negli ultimi tredici anni e caricate sul suo feed di instagram, beeple_crap.
Il fenomeno si sta allargando. L’artista Sean Williams ha scattato una foto di un buco di scarpa nel muro e l’ha messa all’asta al prezzo base di 10 mila euro. Le offerte attese supereranno di gran lunga il prezzo base, anche perché il mercato delle opere «Nifty» è surriscaldato, come confermano i gestori della piattaforma di trading Nifty Gateway, la quale tratta, appunto, opere di questo genere.
«Crossroad», per esempio, un’opera sempre di Beeple, su niftygateway.com ha ricevuto da @pablo, abbinato a un fantomatico Museum of Crypto Art, un’offerta di $ 66.666,60 – e siamo solo all’inizio.
Alex Ramírez-Mallis, 36 anni, promettente regista con base a Brooklyn, ha messo in vendita la sua opera «Nifty» (si tratta di un file audio) «One Calendar Year of Recorded Farts», la maggiore offerta ricevuta è di 185 dollari. L’asta è ancora aperta. Si tratta del collage dei suoni delle scoregge che Ramírez-Mallis e quattro amici hanno iniziato a condividere in un gruppo WhatsApp dall’inizio della pandemia nel 2020.
Non si tratta di una provocazione. Non siamo negli anni 60 del Novecento, non si tratta di un remake della «Merda d’artista in scatola, 30gr» di Piero Manzoni. Anche perché quello che viene venduto non è l’oggetto fisico. Non viene venduto il file, e neanche il contenuto del file. Non viene venduta nemmeno la licenza d’uso, come nel caso della vendita della canzone di un cantante o del programma di un computer.
Quando compriamo un libro di carta, il prezzo di vendita comprende tutte le spese di produzione, trasporto e commercializzazione (carta, inchiostro, lettura, correzione, impaginazione, grafica, stampa, imballaggio, trasporto, vendita, contabilità, tasse), più il diritto di utilizzare l’opera.
Non acquistiamo l’opera, ma solo il supporto e il diritto alla lettura. La proprietà dell’opera in genere è venduta all’ingrosso a un editore. Il consumatore finale compra solo il diritto alla lettura.
Nel caso di un dipinto, in cui l’opera non può essere staccata dal supporto senza comprometterne l’integrità, l’acquisto del supporto coincide con l’acquisto dell’opera. In questo caso il diritto d’autore, come lo si pratica al giorno d’oggi, non può costituirsi.
Anche se in linea di principio l’opera d’arte è stata sempre riproducibile – di un quadro si può sempre fare un copia che può funzionare come l’originale – l’introduzione di nuove tecniche di fabbricazione ha reso questa pratica sempre più semplice, sino al punto che per molte opere la questione dall’originale ha perso ogni significato. Un fotogramma può essere stampato o riprodotto su schermo più volte. Nessuna delle stampe o visualizzazioni può essere considerata l’originale.
Mano a mano che le tecnologie diventano sempre più sofisticate, la riproduzione delle opere diventa sempre più semplice. In più, come nota giustamente Benjamin (L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità di massa), man mano che la tecnologia rende sempre più accessibile per un pubblico vasto i libri e le opere d’arte e dell’ingegno in generale, sempre più persone cominciano a leggere, e, di conseguenza, sempre più persone cominciano anche a scrivere e dipingere, suscitando la gelosia, la difesa regressiva, la spocchia aristocratica, dei vecchi addetti ai lavori, i quali si autoproclamano, di volta in volta, come custodi dell’ortodossia, della verità, bollando tutto ciò che arriva dal popolino come falso (fake).
Che cos’è un falso nel campo dell’arte?
La risposta non è semplice come sembra. Fior fior di scienziati e filosofi si sono cimentati nell’impresa, senza raggiungere risultati definitivi, soprattutto per il fatto che la dimostrazione non può evitare una caduta empirica – come sapeva bene Turing, che aveva costruito una macchina capace di emettere un verdetto definitivo a patto che fosse rifornita di un nastro infinito.
La soluzione proposta nel caso delle opere «Nifty» si chiama, appunto, NFT (non-fungible token). L’autenticità dell’opera viene certificata da uno speciale token crittografico (scrittura) che garantisce l’hic et nunc, e con ciò l’autenticità della cosa.
L’autenticità, dice Benjamin, è la quintessenza di tutto ciò che può venire tramandato. Se per un qualche motivo dovesse vacillare lo statuto di autenticità della cosa, dice Benjamin, con ciò stesso vacillerebbe l’idea stessa di storia.
Nel caso delle opere Nifty cosa viene davvero certificato?
Il significato del quadro non può essere staccato dal suo supporto empirico, e in ogni caso un sopporto diverso, per esempio una fotografia dello stesso dipinto, non restituisce l’opera autentica. La pennellata, la tela, la pasta dei colori e tutto il resto fanno parte a tutti gli effetti dell’opera stessa.
Nel caso di un libro, invece, il significato dell’opera può essere staccato, ed effettivamente il diritto lo considera separato dal suo supporto. Ciò che costituisce oggetto di diritto è proprio (o si crede che sia proprio) il significato del libro, e non il suo referente.
Allo stesso modo, nel caso della musica, ciò che è oggetto del diritto di autore, ciò che viene ritenuto autenticamente uscito dalle meningi dell’artista, è il significato della canzone, e non la sua riproduzione su un nastro magnetico piuttosto che su un disco di plastica o di silicio.
Tuttavia, qui iniziano i problemi, ci si è resi conto, sia in ambito musicale, sia in ambito delle arti plastiche, che lo stesso significato non può essere considerato fissato una volta per sempre, e che, addirittura, esso riemerge alterato dal contesto in cui viene riprodotto. Non si arriva a riconoscere che il mezzo è il messaggio, o a ritenere che ci sia una totale arbitrarietà anche del significato, ma si riconosce perlomeno che a produrre il significato concorrono il contesto e le persone coinvolte, che la produzione artistica è un fenomeno un tantino più complesso di come se lo rappresentano gli artisti moderni.
Nell’arte Nifty cade anche la foglia di fico del significato. Ciò che si mira a proteggere è il mero hic et nunc. Non è il supporto o la pennellata (la mano dell’artista artigiano) che conferisce all’opera la sua autenticità; non è nemmeno il significato, il presunto valore frutto del gesto creativo, in quanto l’opera assume valori diversi a seconda dei contesti in cui si innesta.
Autentico è il mero gesto artistico, il gesto vuoto, la pura volontà – la decisione. Siccome ho deciso adesso, qui, di postare questa foto, questo momento è unico, irripetibile, dunque non riproducibile.
L’intero ambito dell’autenticità, dice Benjamin, si sottrae alla riproducibilità tecnica. Ciò che si mira a fissare nell’NFT è proprio la non fungibilità di questo istante, la sua non riproducibilità tecnica, la sua sovranità o dittatura, direbbe Schmitt.
O, perlomeno, questo è quello che si crede di fare. Perché sarebbe facile dimostrare, e Turing lo ha fatto, che questa ultima spiaggia del genio artistico (e politico) è un altro modo per rimandare la resa dei conti con tutta l’impalcatura che permette di costruire rendite di posizione – anche miliardarie (vedi Apple e Microsoft).
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