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La Comune e noi

La Rete dei Comunisti Roma lo scorso giovedì 18 marzo ha ospitato un dibattito sulla propria pagina Facebook sulla Comune di Parigi e il valore di quell’evento per il mondo moderno – intitolato proprio La Comune e il mondo moderno – nell’occasione del 150° anniversario dalla presa del potere da parte della Parigi operaia.

Il ricco incontro ha avuto la possibilità di spaziare tra molti argomenti, dalle cause storiche che hanno portato all’insurrezione, alle specificità della rivolta urbana e i possibili parallelismi con la situazione odierna, alla questione dello Stato, della presa del potere, della democrazia e molto altro.

Gli interventi di Cristiano Armati per la Red Star Press e di E. Vertius per Unité Communiste, con un video inviato direttamente dalla Francia, hanno impreziosito l’ora e mezza di dibattito, aperto da Danilo Ruggeri, introdotto e moderato da Chiara De Marchis e concluso da Alessandro Perri.

In vista di una possibile pubblicazione degli atti e di altri scritti che saranno raccolti nei prossimi giorni, aggiungiamo un contributo a firma di Massimiliano Piccolo.

Buona lettura.

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“Il filisteo socialdemocratico recentemente si è sentito preso da un salutare terrore sentendo l’espressione: dittatura del proletariato. Ebbene, signori, volete sapere com’è questa dittatura? Guardate la Comune di Parigi. Questa era la dittatura del proletariato”.

Friedrich Engels, nel ventesimo anniversario della Comune di Parigi

Dopo decenni di riflusso – successivo alla grande stagione di lotte che tra i Sessanta e i Settanta (del Novecento) ha animato le lotte e le piazze di quasi tutto il mondo – una ricorrenza, come quella del centocinquantesimo dalla fondazione della Comune di Parigi, ci offre parecchi spunti di riflessione sull’organizzazione delle forze rivoluzionarie e sulle sue forme, sulla nozione di fallimento, sulle tappe che un’idea rivoluzionaria necessariamente attraversa, sulle rotture con la sinistra e la tradizione capitalista/parlamentare, sui rapporti di forza e anche sul nostro presente e futuro.

Di più: un’occasione come la ricorrenza della Comune parigina non può ridursi a una commemorazione, a una celebrazione liturgica; essa deve costituire la rappresentazione della possibilità dell’inversione storica. Non bisogna relegare – cioè – la giusta analisi dei rapporti tra le forze in campo a un determinismo (il cui eventuale sbocco rivoluzionario sarebbe quasi messianico) che, partendo dalla constatazione della presunta insussistenza delle condizioni (sussistenza delle condizioni che sarebbe, invece, il prodotto di una linea del tempo semplice, “la fila indiana del prima e del poi”, progressiva e tesa, perché sempre piena di avanzamenti), rimandi sempre il momento della responsabilità dell’accoglimento di una prospettiva rivoluzionaria. Una siffatta filosofia della storia sarebbe incapace di cogliere l’irruzione di un evento, di qualcosa, cioè, irriducibile a un ordine precostituito.

Diamo per acquisita la ricostruzione dei fatti, dal conflitto franco-prussiano alle dinamiche storiche interne al tessuto sociale francese (e anche le principali analisi – classiche e meno classiche – che sono state prodotte dal movimento operaio e comunista) e spingiamoci verso l’analisi di ciò che questi hanno sedimentato nella nostra consapevolezza e nell’oggettività dei processi.

L’insegnamento principale, che possiamo trarre dalla Comune – e che mi sembra invece di poter anticipare come conclusione ma anche come ipotesi da verificare – è la possibilità di assegnare un’identità (sfuggevole sì ma sempre determinata) ai grandi eventi interni alla trama rivoluzionaria, quelli, cioè, capaci di generare delle conseguenze e che, nel caso dell’azione dei comunardi, potrebbe essere l’aver creato un insieme di valori universali seppur nati in un contesto determinato: essa fu, leggendo Marx, il vero governo nazionale, perché rappresentante di tutti gli elementi sani della società francese, ma allo stesso tempo un governo internazionale, “modello per l’emancipazione del lavoro”.

Marx, a proposito della durata della Comune, cioè della storia delle sue conseguenze, aveva già le idee chiare: “Essa non può venir sradicata da nessun massacro, per quanto grande. Per sradicarla, i governi dovrebbero sradicare il dispotismo del capitale sul lavoro, condizione della loro stessa esistenza di parassiti. Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata in eterno, come l’araldo glorioso di una nuova società”[1]. Quindi modello può anche essere letto così: come un evento capace di generare conseguenze che durano nel tempo, andando oltre il suo essere circoscritto alle contingenze che lo fotografano.

Lo stesso Marx, già un ventennio prima, analizzando i fatti di febbraio e giugno del 1848 a Parigi, indicava la prospettiva futura: “il progresso rivoluzionario” non si compie, infatti, attraverso le sue conquiste immediate, per cui se maledetto dev’essere giugno, al contrario – e solo in modo apparentemente paradossale – febbraio non fu la disfatta della rivoluzione ma degli ostacoli prerivoluzionari, tant’è che l’aristocratico Lamartine “era la rivoluzione di febbraio stessa, l’insurrezione di tutti, con le sue illusioni, la sua poesia, il suo contenuto chimerico e le sue frasi”[2]. Sarà il proletariato a imporre la Repubblica al governo provvisorio, conquistando un nuovo terreno di lotta per l’emancipazione.

Ma la Repubblica diventò presto la restaurazione dell’ordine borghese – che proprio nel 1848 in Francia – esauriva la sua parabola rivoluzionaria – e agli operai non rimase che rispondere “il 22 giugno con la terribile insurrezione in cui venne combattuta la prima grande battaglia tra le due classi in cui è divisa la società moderna”[3]. Comincia a operare, così, seppure in modo ancora surrettizio, quella rottura tra la Repubblica e il proletariato che diverrà manifesta, oltre un ventennio dopo, il 28 gennaio del 1871 con la firma dell’armistizio fra Jules Favre e Bismarck e che determinò la capitolazione di Parigi. Fu una rottura con la borghesia e non con la forma politica della Repubblica (che in quel momento ne era strumento); così come a Campo di Marte, nel luglio del 1791, la rottura fu con una fazione della borghesia stessa e, come fosse una faglia sopra la monarchia di Luigi XVI, il proletariato fu accompagnato da una delle due parti nel suo spostamento.

Ma la Comune segna pure una frattura rispetto alla Rivoluzione dell’Ottantanove, allo schema del suo manifestarsi: nella prima fase – quella monarchico costituzionale – il Terzo Stato o, potremmo dire con Soboul, la borghesia costituente, attraverso la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino prima e la Costituzione del 1791 dopo, aveva assicurato “il dominio delle classi possidenti”[4]. La vera rivoluzione avrà inizio tra il 1792 e il 1793 nella sua fase democratica e popolare: qui il popolo riconosce ancora alla borghesia (a quella parte di essa che lo stava accompagnando nel suo spostamento) una funzione, fin quando questa, tra il luglio del 1794 e il maggio del 1795 non restaura l’ordine borghese e liberale. Segni di disaffezione tra il governo rivoluzionario e il movimento popolare si erano già avvertiti ad aprile del 1794: “la rivoluzione è congelata”, notava Saint Just. L’esercizio ancora indiretto e mediato del potere, da parte delle classi popolari, rimandava l’acquisizione consapevole della necessità dello strappo, della rottura.

Con Babeuf, tra il 1795 e il 1796, si superano, per la prima volta, le contraddizioni in cui era caduta la Rivoluzione nel momento in cui voleva difendere gli interessi popolari e la proprietà privata; ma, oltre a sfuggirgli l’importanza della concentrazione capitalistica e dello sviluppo della produzione industriale, il comunismo gli appariva ancora come un ideale. Infatti, la sua “Congiura degli uguali costituì il primo tentativo d’introdurre il comunismo nella realtà”[5]. Su questo scarto tra reale e ideale torneremo tra poco.

Marx, nella Guerra civile in Francia, descrivendo minuziosamente fatti e personaggi riguardanti la Comune, opera continui rimandi alle vicende del 1848 francese (e non solo); la Francia era considerata, infatti, la “terra classica delle lotte di classe”, dove in quarant’anni (dal 1830 al 1870) i giovani repubblicani e gli operai avevano fatto cadere due monarchie e un impero. Gli operai in armi – va aggiunto – perché come notava sempre Marx, “Parigi armata era l’unico ostacolo serio sulla via del complotto controrivoluzionario”[6]. In questo modo, gli usurpatori del 4 settembre 1870, quelli che dopo il rovesciamento dell’impero a seguito di poderose manifestazioni popolari e la presa dell’Hotel de ville, dirottarono il contenuto politico della Repubblica verso il governo di difesa nazionale, avevano ormai le ore contate.

Nella storia delle battaglie del movimento operaio sono frequenti i casi in cui le circostanze dei tempi sono utilizzate – a destra da chi fa il proprio mestiere, a sinistra da chi si autoproclama soggetto del cambiamento – come pretesti per blindare, irreggimentare, il divenire del processo storico; in Francia, come in Italia (la cosiddetta solidarietà nazionale dopo il decennio rosso del lungo sessantotto italiano), allora come oggi.

Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte ci consegna la famosa immagine in cui Marx, parafrasando Hegel, nota come tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa e, gli stessi moti del 1848, appaiono una parodia del 1789 o del biennio rivoluzionario 1793-95. I moti del 1848 possono essere considerati, allora, ancora all’interno della durata delle conseguenze dell’Ottantanove. La Comune, invece, è un assoluto cominciamento, un inizio. Una nuova generazione di operai e rivoluzionari, in gran parte sconosciuti ai vecchi repubblicani, emerge nella nuova scena delle lotte di classe in Francia.

Quindi, come dirà poi Mao: “lotta, fallimento, nuova lotta, nuovo fallimento, nuova lotta ancora, e così fino alla vittoria”.

Cos’è, dunque, un fallimento? Prendiamo spunto da quella che Badiou ha chiamato l’ipotesi comunista e dall’analogia – da lui istituita – col problema scientifico posto dal teorema di Fermat, che ha impiegato tre secoli prima di giungere alla definitiva dimostrazione per opera del matematico Wiles; un periodo lungo e pieno di tentativi per dimostrarlo che ha generato anche nuove e importanti scoperte. Così Badiou: “La fecondità di questa serie di fallimenti, della loro disamina, delle loro conseguenze, ha animato la vita matematica. In questo senso il fallimento, a condizione che non si ceda sull’ipotesi, non è altro che la storia della giustificazione di quest’ultima”[7].

A condizione che non si ceda sull’ipotesi – mi sembra – che sia per noi la proposizione su cui porre l’accento. Appare oggi del tutto evidente, infatti, la necessità del cambiamento di questo mondo e non – come invece fino a qualche tempo fa sosteneva la sinistra (quella cosiddetta radicale che quando può va al governo) – che un altro mondo è possibile. Ciò di cui la realtà ci parla è l’insostenibilità di questo mondo, esigenza ben più stringente della velleitaria e moralistica rivendicazione di una possibilità altra nella storia.

Qual è, allora, l’identità, il ruolo, la funzione, che la Comune parigina assume su di sé all’interno di questo percorso? Potremmo dire la sua forza o la sua capacità di generare conseguenze all’interno della storia dell’inveramento delle ragioni del comunismo? In altre parole: con la Comune ci si confronta con l’immanenza di una verità politica all’interno dell’infinito processo storico del suo farsi. La Comune, quindi, come evento creatore di senso e pregno di conseguenze, che rompe con la tradizione rivoluzionaria repubblicana delle precedenti lotte di classe in Francia e che, assumendo un valore universale, postula l’esistenza di una figura dell’emancipazione che empiricamente diviene sì il partito rivoluzionario, ma come strumento transeunte del socialismo e del comunismo.

La riflessione leninista sul partito, la pratica politica concreta del partito rivoluzionario che vuole superare la contraddizione tra la critica allo Stato e il farsi poi esso stesso Stato, le precauzioni di Mao sulle contraddizioni in seno al popolo e sulla lotta di classe interna allo stesso partito, sono tutte, infatti, conseguenze aperte dalla Comune. Domande che, in particolar modo quelle sulle forme adeguate dell’organizzazione rivoluzionaria, non hanno ancora esaurito tutta la loro carica euristica.  

Quindi se “il comunismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi, […] ma il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente[8], anche la Comune, allora, fu un Moderno Principe (Gramsci); perché come Lenin e il partito bolscevico, non ha tentato – come cavaliere della virtù (Hegel) – di uniformare il reale all’ideale, di “invertire l’invertito corso del mondo”, ma, essendone la grammatica, l’ha abitato come un frammento della verità in via di realizzazione. Per un marxista, infatti, il comunismo non è un semplice ideale regolativo (lo stesso che aveva animato Babeuf, come abbiamo visto).

La Comune, così, realizzando l’inversione storica attraverso la capacità prometeica di mettere in atto ciò che la realtà è in potenza, districandosi nell’infinità di variabili costituite dalle determinazioni storiche, è riuscita, sotto l’ingiunzione del caso, a imbrigliare le forze nella direzione dell’inveramento dell’ipotesi comunista. Questo aveva spinto Gramsci a definire “moderno principe” il partito di Lenin: riuscire a mettere in atto ciò che la Russia del tempo chiedeva. Infondere nuovo significato alla storia è una grandezza, sia consentito, incommensurabile rispetto a tanti altri esempi; o, almeno, stabilisce un’inconfutabile priorità dalla quale non si può prescindere. All’apprendista stregone borghese ha risposto il prometeo proletario.

Una leggenda narra che Lenin si sia messo a ballare una volta che il potere bolscevico ebbe a superare i settantadue giorni complessivi di durata della Comune (dal 18 marzo al 28 maggio del 1871); mentre non è una leggenda ma storia effettiva – ampiamente documentata – quanto questa sia stata fondamentale per la rivoluzione culturale cinese e pure utilizzata nello scontro politico e ideologico con i dirigenti bolscevichi. Gli effetti della Comune, la sua durata, com’è evidente, trapassano quei settantadue giorni. All’alba del 18 marzo 1871, Parigi ebbe il suo manifesto, la sua dichiarazione della Comune: “I proletari di Parigi […] hanno compreso che è loro imperioso dovere e loro diritto assoluto di rendersi padroni dei loro propri destini, impossessandosi del potere governativo”[9].

L’assalto al cielo ha avuto inizio, ma modificare il senso dello Stato, nato in epoca moderna, era un’opera enorme: esercito, polizia, burocrazia, fisco, diplomazia e tutti gli altri gangli vitali dell’amministrazione pubblica con cui la borghesia si era emancipata dal servaggio feudale dopo secoli di lotte di classe, andavano riorientati.

La Comune è, così, non solo un momento della storia del movimento operaio e rivoluzionario, ma un momento del marxismo: essa fu, infatti, chiamata a creare (quasi dal nulla) le risposte politiche alle domande poste dall’urgenza della contingenza, meglio e prima di qualunque pretestuosa filosofia della politica che per sua natura si rivela una modellistica, una precettistica ideologica e, per questo, astratta, separata dall’ordine reale delle cose (e Marx, infatti, si era guardato bene dal farlo in tutta la sua opera). Battaglia delle idee e concreti processi storici non sono, infatti, su piani paralleli: Antonio Labriola scriveva che le idee non sono appese come caciocavalli!

Nell’immediatezza del suo apparire, del suo costituirsi, la Comune, attraverso i membri del Comitato Centrale della Guardia Nazionale, non aveva ancora maturato la scelta di occupare l’Hotel de ville; bisognava rompere la gabbia che le derivava dall’aver introiettato la logica del mandato da parte del governo. Saranno, come sempre accade, le circostanze, ad affrettare tale processo di maturazione e a istituire la possibilità fondante dell’imminente rottura: la fine del vassallaggio nei confronti della sinistra parlamentare è il momento iniziale dell’autocoscienza politica della Comune.

Il suo primo decreto fu la soppressione dell’esercito permanente – che in epoca moderna aveva contribuito in modo decisivo alla centralizzazione e al rafforzamento del potere monarchico (e poi anche borghese) contro l’anarchia feudale – e la sua sostituzione col popolo armato.

La struttura istituzionale della Comune era composta da consiglieri municipali, in maggioranza operai o da essi riconosciuti come rappresentanti, revocabili in qualunque momento. Non era un’istituzione parlamentare in cui alimentare il vizio d’origine della democrazia intesa non come potere al popolo (già dal tempo di Atene nel V secolo a.C.), ma come potere a chi (gli usurpatori del 4 settembre 1870 e tutta una folta schiera di accoliti per i successivi centocinquanta anni) nasconde dietro il vessillo del bene comune, i beni di pochi. Era un organismo esecutivo e legislativo insieme, capace di superare la retorica della mediazione tra le parti che poi, in realtà, si è sempre mostrata mediazione sino a quando un interesse popolare un po’ più tutelato o una prospettiva di cambiamento più generale non abbia fatto scattare la repressione e la sospensione delle cosiddette libertà parlamentari, con buona pace dei sedicenti liberali (il che non vuol dire – per noi – sottovalutare l’eventuale importanza tattica di un’azione parlamentare quando questa abbia, però, anche un orizzonte strategico rivoluzionario che le faccia da cornice).

I preti, poi, tornarono a vivere di elemosina e le scuole furono liberate dalle ingerenze clericali e dello stato. La Comune, insomma, dava di sé un’immagine viva, dinamica, non solo nel momento dell’azione rivoluzionaria, armi in pugno, ma anche nel momento, altrettanto decisivo, della deliberazione politica (ragione sufficiente questa, ad esempio, nella rivoluzione culturale cinese, impegnata contro la sclerotizzazione burocratica della rivoluzione bolscevica successiva alla morte di Stalin, per porre la Comune a modello, come abbiamo già visto nell’intuizione e nell’auspicio di Marx).

Ecco, allora, prendere forma quella funzione nuova, creatrice di senso, che l’evento della Comune portava con sé. Una rottura gravida di conseguenze nella storia del mondo e delle sue rivoluzioni: dalla Russia alla Cina, a Cuba, come anche nella microfisica di tutti i movimenti di lotta e di contropotere che hanno animato per decenni le società dell’Occidente capitalista.

Eppure il tentativo di ammansirla, di addomesticarla, di renderla – cioè – sterile è stato fatto dal pensiero liberale e conservatore tanto quanto da quello della sinistra. Scriveva Marx: “È comunemente destino di tutte le creazioni storiche completamente nuove di essere prese a torto per riproduzioni di vecchie e anche defunte forme di vita sociale, con le quali possono avere una certa rassomiglianza”[10].

Ma essa non era un ritorno al Comune medievale e neanche un’esasperazione della vecchia lotta contro l’eccesso di centralizzazione; essa rappresentava sì la libertà municipale ma non come concessione da parte di uno Stato centrale (ormai inesistente), bensì all’interno di una federazione di Comuni. Spazzava i residui della monarchia e consentiva alla Repubblica vere istituzioni democratiche. Fu il primo governo operaio della storia, ma con una connotazione molto lontana dal descrittivismo sociologico che spesso impera attorno al concetto di operaio.

Come non vedere, ad esempio, in filigrana con i fatti della Parigi comunarda appena evocati, alcuni fra i primi passi della rivoluzione bolscevica dalla notte tra il 24 e il 25 ottobre 1917 e il 18 gennaio 1918? E non cogliere come tanto il popolo russo, quanto quello francese, avessero compreso che l’unica strada per dare seguito concreto alle aspettative di pace, libertà e giustizia sociale, fosse la rottura con la tradizione parlamentare e il governo diretto dei lavoratori. La rivoluzione bolscevica, però, non durò solo settantadue giorni ed ebbe, dunque, modo di segnare ulteriormente e significativamente la storia del mondo.  Avrà avuto di certo buone letture Bucharin – e pure qualche buon consigliere – ma avrebbe potuto riflettere meglio sulle pagine che Marx dedicava al rapporto tra la Comune, il governo operaio e i contadini.

Adesso una domanda (meglio, una serie di domande): l’evento Comune ha esaurito di dispiegare nelle conseguenze che ha determinato tutta la sua forza? In altre parole: nel nostro tempo, siamo ancora all’interno del raggio d’azione dei suoi effetti o l’inveramento del comunismo ci attenderà immobile e altrove? Possiamo, forse, formulare l’ipotesi che fintanto che non irrompa una nuova rottura, che continui a operare nel solco della precedente, questa continui a esercitare, magari con minore intensità, la propria forza facendoci permanere all’interno della storia dei suoi effetti e delle sue conseguenze.

D’altra parte, se il comunismo non è un capriccio della storia, un’accidentalità, ma, come si diceva inizialmente, l’immanenza di una verità politica all’interno dell’infinito processo storico del suo farsi (o meglio: la forma politica assunta dalla verità nell’infinito processo storico del suo farsi), il suo spettro si aggira e si aggirerà, la talpa continuerà a scavare.  La Comune ha probabilmente prodotto i suoi effetti sino alla fine degli anni Sessanta e agli inizi dei Settanta del Novecento, quando le nuove figure operaie, diverse per composizione sociale e strumenti di lotta, hanno posto domande nuove all’ordine del giorno della realtà; come anche con la Grande rivoluzione culturale proletaria in Cina nel suo rapporto con le masse rurali, l’urbanizzazione e il partito.

La Comune aveva posto con forza l’esigenza di un partito rivoluzionario come organizzazione capace di superare i limiti stessi dell’esperienza comunarda; esigenza raccolta da Lenin e dal partito bolscevico. Oggi essa ci parla per via di quest’assenza e c’impone, così, di riflettere sulle forme di organizzazione funzionali al nostro tempo, di superare (cercando soluzioni nuove) il tradizionale bivio tra partito di massa e partito di quadri; e ci parla ancora della Cina, per comprendere i temi e i tempi della transizione socialista o, anche, di Cuba e della sua Resistenza. Il suo esempio è per noi, oggi, l’invito a non esaurire quella capacità creatività che il marxismo deve mostrare sempre, nelle forme dell’organizzazione come in quelle della lotta. 

Per finire, chi sia questo noi cui essa continua a parlare e che qui è stato assunto come soggetto di queste riflessioni, può essere sintetizzato così: gli eredi dell’ultima grande stagione di lotte a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento che, nel generale riflusso di cui abbiamo parlato in apertura, non hanno ceduto sull’ipotesi in via di dimostrazione. Viva la Comune.

Note

[1] K. Marx, La guerra civile in Francia.

[2] K. Marx, Le lotte di classe in Francia tra il 1848 e il 1850.

[3] Ibidem.

[4] A. Soboul, La Rivoluzione francese.

[5] Ibidem.

[6] K. Marx, La guerra civile in Francia.

[7] A. Badiou, L’ipotesi comunista.

[8] K. Marx, L’ideologia tedesca.

[9] K. Marx, La guerra civile in Francia.

[10] Ibidem.

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