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“La fine del sogno occidentale”, di Serge Latouche

Eleuthera (ri)pubblica (2021, euro 17) dopo vent’anni un libro importante di Serge Latouche.

Se uno non sapesse che il libro è stato scritto alla fine del secolo scorso non troverebbe una riga che non sia di attualità, purtroppo. Il mondo non cambia, e se (non) cambia peggiora.

Il libro è organizzato in cinque capitoli, nei quali si analizza lo stato del mondo, 20 anni fa.

Tra i tanti temi toccati, alcuni colpiscono con evidenza, per esempio il passaggio dal colonialismo al neocolonialismo è stato un cambiamento di forma, in molti casi, ma i rapporti economici fra stati ex-coloniali e stati ex-colonizzati non sono cambiati troppo.

Si parla della mercificazione totale del mondo, tutto si compra e si vende, e “i prodotti culturali vengono trattati come merci uguali alle altre e le riserve culturali come un banale e nocivo protezionismo”.

A proposito dell’Africa Latouche scrive che “il gruppo invaso non può più cogliere se stesso se non attraverso le categorie dell’altro, cioè quelle degli europei” (p.35). E subito dopo si introduce un elemento chiave: ”Nei rapporti con le società del Sud è più grazie al dono, e non alla spoliazione, che il centro si trova investito di uno straordinario potere.

A pag.46-47 si legge che “il sistema tecnoeconomico mondializzato è responsabile della scomparsa di migliaia di culture” e “In Occidente l’economia non solo non è complementare alla cultura ma tende a rimpiazzarla assorbendo in sé tutte le dimensioni culturali…La diversità che resiste, o che si ricicla, rimane sempre in una situazione fragile e provvisoria di fronte al rullo compressore dell’uniformazione”.

Questo effetto dell’occidentalizzazione non è il risultato di un meccanismo economico in quanto tale, ma di un processo più complesso di distruzione culturale chiamato deculturazione. Questa deculturazione si riproduce a sua volta e si aggrava con la terapia messa in opera per porvi rimedio: la politica di sviluppo e la modernizzazione”.

Gli ultimi superstiti delle culture non occidentali testimoniano una grande indifferenza per molte nostre merci, e soprattutto un’allergia ancora maggiore verso la logica della loro produzione”.

Se venti anni fa Latouche li vedeva con chiarezza adesso questi fatti sono sempre più evidenti e chiari, niente è stato fatto, in realtà, per cambiare qualcosa.

A proposito del dono, prestiti agli stati di enti sovranazionali (FMI e Banca Mondiale, per esempio), cavallo di Troia per rinnovate e più profonde dipendenze, segnalo che nel 2004 fu pubblicato “Confessioni di un sicario dell’economia”, di John Perkins, libro nel quale l’autore spiega in dettaglio, in prima persona, le cose che racconta(va) Latouche (qui un documentario tratto dal libro di Perkins).

Mi è capitato da pochissimo di leggere sul n.1414 di Internazionale un articolo di un giornalista tedesco, Bernd Dörries, sul Somaliland, uno stato africano dichiaratosi indipendente dal 1991, riconosciuto quasi da nessuno, e per questo, per fortuna, non ha debiti (per ora) perché nessuno gli ha fatto prestiti/dono/capestro, caso più unico che raro.

Dice Karl Marx che “I filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo”.

Serge Latouche dice tutto, è il filosofo perfetto, fa la parte necessaria, per Marx, quella di interpretare il mondo, purtroppo cambiarlo sembra impossibile. In quarta pagina c’è una frase che dice, con amarezza, moltissimo: “Abbiamo l’incredibile privilegio di assistere in diretta al crollo della nostra civiltà”.

* da La Bottega del Barbieri

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Il pessimismo di Latouche, che sollecita la sensazione di impotenza e la resa al declino, si iscrive ella parabola della cultura occidentale che lui stesso descrive.

Si potrebbero trovare delle similitudini con l’hegeliana “nottola di Minerva” – la consapevolezza piena di un fenomeno storico – che vola solo al tramonto, ossia quando tutto è compiuto.

Ma è più interessante vedere questi molteplici segno del declino opposti alla retorica della “competitività” che tracima da ogni discorso dell’establishment occidentale.

Se si dovessero prendere sul serio tutti gli indicatori della competitività sciorinati dai “manager”, infatti, si vedrebbe che l’Occidente è da un paio di decenni – proprio quelli trascorsi dalla prima pubblicazione del libro di Latouche – irrimediabilmente superato in tromba dallo sviluppo della Cina.

E dunque si può avere una visione più ampia del solo rimpianto della fine di una civiltà – quella occidentale-liberista, ormai negata soltanto dal potere – e scoprire l’evoluzione del mondo futuro in altre direzioni.

L’intreccio contemporaneo di tre grandi crisi sistemiche – quella economica, che perdura dal 2008, quella ambientale e quella sanitaria – obbligano a pensare l’evoluzione in termini tendenzialmente cooperativi e non di “competizione” globale.

E dunque a scoprire le virtù salvifiche di pianificazione e programmazione. Ma su tutt’altra scala e con tutt’altra creatività rispetto al tardo “socialismo reale” brezneviano.

Lo “spirito del mondo” – per usare un’altra formula hegeliana – non sta rincattucciato in un anfratto in attesa di tempi migliori, ma avanza superando l’esistente e dando forma al futuro. Non può essere “inventato”, va riconosciuto. E chi sta all’interno della civiltà in declino, ha meno possibilità di capirlo.

Redazione Contropiano

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