L’impunità per i potenti, anche se colpevoli di reati come la strage di Viareggio ed il crollo del ponte Morandi, a Genova. E l’immagine che offre oggi il Paese è, oggi ancora più di ieri, quella di “un ritorno brutale, rapido, in buona misura inconsapevole, ma devastante, alle logiche di una società di caste: universi sociali separati e gerarchicamente sovrapposti. Signori, e servi. Eletti, e paria. Uomini, e topi.
Persino il tanto decantato “ascensore sociale” è andato sotto zero, ovvero, studiare anche tantissimo, non modificherà, nemmeno di uno zerovirgola, la propria situazione in relazione alla provenienza sociale e famigliare. Anzi, per la prima volta le nuove e nuovissime generazioni stanno andando incontro ad una condizione molto peggiore dei propri genitori.
Abbiamo di fronte una, società rigidamente classista in cui le chances sono inscidibilmente legate allo status di origine e il Covid stesso ha allargato i divari esistenti rendendoli praticamente incolmabili e polverizzando quel po’ che restava in piedi di un mito che aveva, in realtà, pochissima sostanza ma che, tuttavia, rivestiva una funzione ideologica fondamentale nel mantenimento dello status quo: la “scala sociale”.
Alla punizione per gli ultimi (Rom, stranieri, «clandestini»), man mano che i movimenti per i diritti sociali quali reddito, casa e del lavoro, in qualche modo, guadagnano terreno, di recente, si stanno aggiungendo condanne esemplari e pene durissime contro gli attivisti ed i militanti che praticano la resistenza civile contro le grandi inutili opere come il TAV e contro quelli che lottano sul fronte dei bisogni proletari. Guai ai vinti ed agli ultimi.
E lo stesso folle ed anacronistico accanimento giudiziario nei confronti degli esuli politici degli anni settanta sottende una minaccia nei confronti delle nuove generazioni riguardo l’idea stessa che che si possa riprodurre, nelle pur difficili condizioni dell’oggi, un conflitto sociale in grado di rimettere in gioco nuovi rapporti di forza e di ristabilire diritti nel frattempo calpestati e cancellati da decenni di restaurazione in senso classista e razzista.
Ma chi sono i nuovi proletari? Sono gli abitanti delle vecchie e nuove periferie urbane; sono gli operai della logistica; sono i braccianti alla base della grande filiera agricola che rifornisce la grande distribuzione commerciale, ridotti in condizioni di schiavitù; sono i riders che sfrecciavano numerosi come fantasmi anche nei periodi di totale lockdown per pochi spicci l’ora e senza alcuna tutela.
Ecco, non a caso, si tratta, in gran parte, di immigrati di prima e seconda generazione che lavorano proprio nei settori ad altissimo tasso di sfruttamento.
L’articolo di Marco Revelli scritto del 2008, coglieva questa nuova faglia nella sua fase iniziale ed, in anticipo sui tempi, afferrava un dato generale allora non ancora chiaro nei suoi dettagli ma che mostrava già una nuova configurazione dei rapporti di classe e delle nuove gerarchie che si stavano sviluppando, a partire da alcune tendenze che avevano preso decisamente piede nei due decenni precedenti proprio a partire dalla discriminazione razziale e dalla colpevolizzazione dei poveri quali punte massime della nuova ideologia dominante.
Il rapporto con i flussi migratori; gli accordi disumani con i paesi di partenza, gli accordi Italo-libici; quelli tra Unione Europea e Turchia; la terribile condizione dei migranti di passaggio dai Balcani, in Grecia ed ai confini di Croazia ed Ungheria; la condizione carica di angoscia ed incertezza dei migranti residenti sempre in bilico tra espulsione, clandestinità e cittadinanza e permessi di lavoro a termine.
Sono le molteplici facce, ormai istituzionalizzate, che incorporano quelle retoriche del disumano che, fino ad un decennio fa, sembravano soltanto i cavalli di battaglia dei nuovi populismi reazionari e che oggi sono, invece, saldamente al centro delle politiche pubbliche degli stati europei e dell’Unione Europea stessa.
In Italia un quadro normativo condiviso da tutti i grandi partiti ha prodotto i CPT, CIE, CPR, ovvero, lo scandalo della detenzione amministrativa dei migranti. Centri di permanenza temporanea, Centri di identificazione ed espulsione, poi diventati Centri di permanenza per il rimpatrio con il decreto Minniti-Orlando approvato nel 2017, e che costituiscono le “misure per il contrasto all’immigrazione illegale” in cui si consumano infinite violazioni dei diritti umani fondamentali e nei quali i migranti irregolari sono detenuti come se fossero carcerati.
E intanto, in tutti questi anni, sul fronte dell’immigrazione legale non si è fatto nulla se non concedere qualche permesso per lavoro con il contagocce. Non servono lavoratori legali ma esseri umani che fuggono da guerre, fame e persecuzioni, da ridurre in schiavitù dietro il perpetuo ricatto del rimpatrio negli inferni di provenienza e/o l’internamento nei nuovi campi di concentramento.
Servono gli Untermensch (parola tedesca che sta per sub-umano), ovvero, i “popoli inferiori” da sottomettere, sfruttare e da, offrire, al momento opportuno, cone capri espiatori della condizione di impoverimento generale e della perdita di status e diritti che ha colpito, soprattutto durante la pandemia, vasti strati di popolazione.
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Dunque, le cose stanno così. C’è un piccolo numero di persone, quelle che stanno in alto, più in alto di tutti, dichiarate per legge al di sopra di ogni giudizio. Investite, in quanto tali, per ciò che sono e non per ciò che possono aver fatto, del privilegio dell’impunità.
E ce ne sono altre, più numerose, ma razzialmente delimitate, separate dai buoni cittadini da un confine etnico – quelle che stanno in basso, più in basso di tutti – considerate invece, per legge, in quanto tali, per ciò che sono, non per ciò che possono aver fatto, colpevoli. Almeno potenzialmente. Pre-giudicate.
Alle prime non si guarderà mai in tasca, anche se fossero colte, per un accesso di cleptomania, in furto flagrante; alle seconde si prendono fin da bambini le impronte digitali, le si fotografano, perquisiscono, spostano, schedano e controllano senza limiti, come appunto con i delinquenti abituali, o per natura. Questa è oggi, sotto il profilo giuridico e politico, l’Italia.
In un solo consiglio dei ministri i due estremi che definiscono i nuovi confini sociali e morali della costituzione materiale della «terza repubblica» sono stati mostrati a tutti, come in un’istantanea. In pochi mesi, in nome dell’ammodernamento e dell’innovazione nell’arte del governo, abbiamo abbattuto ad uno ad uno alcuni dei pilastri fondamentali della modernità, a cominciare dall’universalismo dei diritti. Dal principio dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Dal carattere personale della responsabilità giuridica.
L’immagine che offre oggi il Paese è quella di un ritorno brutale, rapido, in buona misura inconsapevole, ma devastante, alle logiche di una società di caste: universi sociali separati e gerarchicamente sovrapposti. Signori, e servi. Eletti, e paria. Uomini, e topi.
È un’immagine inguardabile. Dovrebbe produrre un moto istintivo di disgusto, repulsione, vergogna, in chiunque si sia formato nell’orizzonte di valori di una sia pur debole e moderata democrazia. Invece non è così. Inutile nascondercelo: lo scandalo è tale solo per pochi. Tace miseramente – miserabilmente – quell’ombra di opposizione che non rinuncia a credersi e a fingersi governo senza più esserlo.
Tacciono pressoché tutti gli opinion leaders (quelli che magari si commuovono per Obama, ma lasciano correre sulla schedatura del popolo rom). Con poche, nobili per questo, ma limitatissime eccezioni. Tace, e in qualche misura acconsente, anche quell’opinione pubblica fino a ieri considerabile «di sinistra», socialmente sensibile, «politicamente corretta»… Tace, magari soffre, ma tace. Per varie ragioni.
Perché questo ritorno in buona misura irrazionale al pre-moderno, all’imbarbarimento dello stato di natura, è argomentato con ragioni «pragmatiche», tecniche, efficientistiche, in qualche misura a loro volta «moderne»: perché «serve». Perché «funziona». Perché bisogna «fare».
Maroni non è Goebbels (non ne possiede né il fanatismo né la cultura): non tratta i rom come untermenschen – sottouomini – per ragioni «genetiche», ma per ragioni «pratiche». Non perché sono razzialmente «inferiori», ma perché razzialmente disturbano i suoi elettori.
La nuova segregazione razziale ha il volto dell’imprenditore brianzolo dai metodi spicci ma efficaci, non più quello dell’ideologo berlinese della razza ariana.
E d’altra parte in un universo sociale sempre più complesso e indecifrabile, pagano le semplificazioni estreme: la logica atroce del «capro espiatorio». Ma soprattutto la proposta indecente che viene dall’alto trova consenso nella società che sta in mezzo – nel grande ventre molle di quelli che cercano faticosamente di restare a galla nella crisi che cresce senza affondare sotto la soglia di povertà – perché in tempi di deprivazione le «retoriche del disumano» hanno un devastante potenziale di contagio.
Chiamo con questo nome le forme del discorso che negano un tratto comune di umanità a una parte dell’umanità. Che con espedienti retorici pongono un pezzo di umanità al di fuori dell’umanità. Che appunto, in forma diretta o indiretta, tracciano un confine tra uomini e non-uomini, producendo un dispositivo di esclusione e segregazione. Che separano le persone da trattare «come persone» e quelle da trattare «come cose».
E in alcune circostanze è drammaticamente gratificante, o comunque rassicurante – per chi è sempre più incerto sulla propria identità e sulla propria condizione sociale, per chi teme di «scendere» o di «cadere» -, essere riconosciuti «come persone» per differenza da chi tale non è. Godere del privilegio di appartenere alla categoria degli «uomini» per differenza da altri, da questa esclusa.
Si troverà sempre un imprenditore politico spregiudicato, pronto a quotare alla propria borsa questa risorsa velenosa, ma potente. Questo acido sociale, che scioglie il timore sul proprio futuro in rancore e in consenso. Questo accade oggi in Italia.
La deprivazione economica e sociale che colpisce una fascia crescente di popolazione, si converte in deprivazione morale, in un quadro sociale ed economico che vede diventare sempre più intoccabile chi sta in alto (sempre meno redistribuibili le grandi ricchezze), e sotto la spinta di una retorica politica non più contrastata.
Di un ordine patologico del discorso che non trova più anticorpi, perché le culture democratiche di fine novecento si sono consumate, nell’agire sconsiderato di un ceto politico a sua volta impegnato prevalentemente a salvare se stesso dal naufragio.
Per chi non ci sta, si apre un periodo di sofferenza e responsabilità. Di secessione culturale. Una condizione da esuli in patria. Da apolidi. Per questo la tentazione di mettersi in coda, davanti alle Prefetture, per pretendere che siano rilevate anche a noi le impronte digitali, è grande. Non tanto per solidarietà. Ma perché siamo noi più che loro – i quali in grande misura sono cittadini italiani a tutti gli effetti e risiedono stabilmente sul territorio da decenni – i veri nomadi.
*Marco Revelli, «Il Manifesto», 29 Giugno 2008, Titolo originale dell’articolo “Retoriche del disumano”
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