Il contesto e la dinamica della battaglia determinatasi l’8 settembre 1974 a San Basilio non sono facili da spiegare. Alcuni testimoni di quegli eventi sono morti negli anni successivi, ad esempio il mio amico Roberto di cui parlerò qui; altri ricordano soprattutto la nebbia dei lacrimogeni o mettono in connessione lineare, se non addirittura mitologica, il passato col presente; certi sono diventati “pentiti” negli anni Ottanta e altri ancora hanno messo nel dimenticatoio il proprio passato di militanza politica.
Pochi fra i testimoni rimasti in vita ricordano bene gli avvenimenti dell’8 settembre 1974 a San Basilio e i motivi che ne furono alla base. Esistono però alcuni fatti che, da soli, risultano sufficienti ad aprire o a riaprire le porte di una corretta ricostruzione storica.
Il 20 febbraio 1973 l’Istituto Autonomo Case Popolari (Iacp) indisse il concorso per l’assegnazione di alloggi a San Basilio, Pietralata e Tiburtino III, tre borgate della periferia sud orientale di Roma, per un totale di 600 appartamenti, ma fra l’estate e l’autunno di quell’anno si capì meglio che le migliaia di famiglie bisognose di un alloggio non potevano farsi molte illusioni.
Come ha correttamente ricordato Massimo Sestili in “Sotto un cielo di piombo. La lotta per la casa in una borgata romana. San Basilio settembre 1974″ (saggio pubblicato in Historia magistra, Rivista di storia critica, anno I, n. 1, Franco Angeli editore, 2009) la graduatoria stilata per quel bando pubblico subì una modifica rispetto alla normale prassi seguita in precedenza.
A Villa Gordiani e a Tiburtino III dovevano essere demoliti alcuni alloggi dello Iacp e agli abitanti interessati furono assegnati fuori graduatoria più della metà degli appartamenti disponibili. Per concorso furono assegnati “200 alloggi su un totale di 600″.
Il fatto che a Gordiani e a Tiburtino III alcuni alloggi dello Iacp fossero in procinto di demolizione avrebbe dovuto comportare un impegno politico preciso, da parte dello stesso Iacp e del Comune di Roma, per trovare un’alternativa abitativa agli interessati.
Il concorso per l’assegnazione di alloggi avrebbe dovuto riguardare solo chi non aveva ancora acquisito il diritto alla casa. Fu invece una truffa di Stato per ottenere il consenso clientelare di 400 famiglie e, nel medesimo tempo, evitare costi aggiuntivi alle casse dello Iacp e del Comune di Roma.
Si trattò di una scelta discrezionale in punto di diritto e scellerata in termini politici perché, in pari tempo, costituì una turbativa d’asta e dell’ordine pubblico.
In tale scenario, aggravato da un bisogno di case che non riguardava più solo i baraccati come accadeva negli anni Sessanta ma, in modo crescente, anche le famiglie proletarie in coabitazione, 136 abitazioni dello Iacp site a San Basilio in via Montecarotto (in parte nella contigua via Sarnaro) furono occupate nell’estate del 1973. Allora e lì, nonostante l’immediato sgombero e al di là di quel che affermano alcune recenti ricostruzioni, ebbe inizio la lotta per il diritto alla casa a San Basilio.
Quelle stesse case furono poi occupate di nuovo il 5 novembre 1973, sgomberate la mattina di un paio di giorni dopo e, nonostante lo sbarramento di polizia e l’arresto di due persone, rioccupate dalle famiglie nell’immediato pomeriggio. “Le donne, che hanno portato avanti l’occupazione in prima persona, non si sono però allontanate dalle case, ma restando sul posto, hanno formato un loro comitato, che ha presto ottenuto un incontro con un dirigente dell’Iacp. L’incontro è avvenuto il giorno stesso.
Dei 136 appartamenti, ha spiegato il funzionario, 29 erano stati assegnati agli abitanti di Tiburtino III, 21 dei quali le hanno rifiutate perché vogliono andare in quelle costruite, sempre dallo Iacp, ai Monti del Pecoraro. Altre case sono state assegnate ai baraccati di Villa Gordiani. Le rimanenti dovrebbero essere assegnate, in base alla graduatoria e ai «punti», ad altre famiglie bisognose.
È stato insomma il dirigente dello Iacp a confutare, con i dati, la voce secondo la quale gli occupanti avrebbero preso la casa ad altri lavoratori, cui sarebbero state in precedenza assegnate. Dopo l’incontro c’è stata una breve assemblea, in cui gli occupanti hanno fatto le loro proposte: su 136 appartamenti, 60 devono essere assegnati a famiglie bisognose di San Basilio stessa. È la seconda volta, nel giro di pochi mesi, che queste case vengono occupate, ma questa volta i proletari sono stati più decisi ed organizzati” (da pag. 4 del quotidiano Lotta Continua, 9 novembre 1973).
Diverse forze politiche e sindacali istituzionali, lungi dal mettere in discussione la logica clientelare dello Iacp e le ipocrisie del Comune di Roma, allora feudi della Democrazia Cristiana, “intervennero per scongiurare un’altra azione della polizia” (pag. 118 di “Ai margini di Roma capitale. Lo sviluppo storico delle periferie. San Basilio come caso di studio”, di Gian-Giacomo Fusco, Edizioni Nuova Cultura, 2013) e proposero “di censire le famiglie occupanti al fine di trovare loro un alloggio diverso” (ibidem, pag. 118).
Il Comitato di lotta per la casa, a quel punto, dopo aver precisato di voler escludere dall’iniziativa coloro che avevano già usufruito di una casa popolare, presentò di nuovo allo Iacp una richiesta per l’assegnazione straordinaria di alloggi a tutte le famiglie bisognose di San Basilio.
Denunciò le manovre di divisione portate avanti dalla locale sezione del Pci che aveva operato in nome di una “legalità” basata sulla presentazione della domanda al concorso pubblico per l’assegnazione delle case popolari. Infine portò i dati del censimento delle famiglie occupanti dai quali risultava il grado di affollamento da cui esse provenivano: 3,2 persone per vano (vedasi pag. 4 del quotidiano Lotta Continua, 21 novembre 1973).
Qualche tempo dopo il Comitato di lotta organizzò anche l’occupazione di 12 appartamenti dello Iacp a via Fabriano che inizialmente sarebbero dovuti essere utilizzati per insediare a San Basilio un Commissariato di polizia.
Da 136 si passò a 148 appartamenti occupati da altrettante famiglie. A quel punto “la situazione cominciò a sedimentarsi; le famiglie ottenevano servizi – allacci sull’acqua, luce, gas e telefono – e si diffuse così l’idea che ormai quelle case erano degli occupanti” (ivi, pag 118 di “Ai margini di Roma capitale. Lo sviluppo storico delle periferie. San Basilio come caso di studio”).
La storia successiva vide il 1974 come l’anno di una grande e diffusa lotta per il diritto alla casa e di una gigantesca repressione poliziesca rispetto a quel bisogno sociale. Ci furono numerosi sgomberi di case occupate – per lo più di proprietà dei pescecani dell’edilizia – tanto che nell’estate di quel medesimo anno a Roma rimasero in piedi solo due occupazioni, quella organizzata alla Magliana dal novembre 1973 e quella gestita dal Comitato di lotta di San Basilio.
I governanti volevano portare un attacco decisivo agli ultimi baluardi della lotta per la casa. I fatti dal 5 all’8 settembre 1974 nacquero in tale contesto.
Giovedì 5 settembre 1974, dopo 10 mesi di occupazione, a San Basilio ci fu uno sgombero, ma di sera gli appartamenti furono rioccupati. Venerdì 6 settembre, anche se il Comitato di lotta aveva organizzato una resistenza migliore, si ebbe un altro sgombero. Nella serata, però, le case furono rioccupate dopo una trattativa.
Il Comune e l’Istituto Autonomo Case Popolari avrebbero dovuto decidere dove mandare le famiglie occupanti. Sabato 7 settembre sembrava essersi determinata una sorta di tregua, ma nella mattinata di domenica 8 settembre, come seppi con parecchie ore di ritardo, la situazione precipitò.
Fra le 16 e le 17 di quel giorno festivo cercai vanamente la compagneria del collettivo politico nelle strade, nei muretti e nei locali pubblici del mio quartiere. Decisi allora di fare una passeggiata da solo. Andai verso uno spazio verde tagliato da una marana, una striscia d’acqua inquinata dagli scarti della Pirelli di via di Torre Spaccata. Percorsi un viottolo fino a giungere all’ombra di un fico che dava frutti anche a settembre. Volevo assaggiarne alcuni, ma un imprevisto mi bloccò.
“Ehi! Ehi!”, strillò Roberto dal bordo del prato mentre agitava la mano verso la sua faccia per farmi intendere che avrei dovuto raggiungerlo in fretta e furia. Corsi preoccupato.
“Dobbiamo andare a San Basilio”, disse Roberto che ormai avevo di fronte a me.
“Cos’è successo?”, gli chiesi.
“In mattinata c’è stato un altro sgombero delle case occupate. Poi, fino alle 14, gli scontri hanno fatto il resto”, mi rispose.
“La situazione è cambiata per l’ennesima volta”, commentai.
“Sì – riprese la parola il mio amico – e proprio per questo motivo dobbiamo partire subito con la macchina che sta qui vicino. Alle 18 c’è un appuntamento nella piazza centrale. I compagni e le compagne del nostro collettivo politico sono già lì”.
Dopo venti minuti lasciammo l’autoveicolo nei pressi di via Tiburtina. I pali della luce abbattuti non permettevano l’ingresso stradale nella borgata. Vi entrammo a piedi attraversando un prato. Alle 18 molti giovani, in parte provenienti da altre zone periferiche della città, si erano concentrati alle spalle di una chiesa, nella piazza principale della borgata.
Nella parte opposta, soprattutto sulle parallele vie Corridonia e Fiuminata e più precisamente nei punti di accesso a via Montecarotto, mille fra carabinieri e poliziotti erano in assetto da guerra, ma la battaglia scoppiò dopo circa un’ora, fra le 19 e le 19,30.
Ad un certo punto, un plotone avanzò da via Montecarotto su via Corridonia lanciando decine di lacrimogeni ad altezza d’uomo in direzione della piazza affollata; poi, quando si accorse di non avere più altri “fiori bianchi” da regalare, si ritirò in modo caotico.
Alcuni poliziotti ad esempio, invece di tornare indietro, percorsero via Fabriano nel tratto adiacente l’ingresso della chiesa, l’oltrepassarono fino a fare capolino su via Fiuminata e lì ebbero un contatto con due o tre manifestanti che, privi di armi da fuoco, rischiavano di essere arrestati dai tutori dell’ordine.
Vedendo quella scena un gruppo di giovani partì di corsa dalla piazza, imboccò via Fiuminata, giunse nei pressi della via adiacente la chiesa e divenne il bersaglio di alcuni colpi di pistola partiti da un altro plotone di poliziotti e carabinieri, distante 25-30 metri, che già operava nella stessa via Fiuminata.
I proiettili, su quella medesima strada, raggiunsero il muro di cinta della chiesa, un palo della luce, un albero e Fabrizio Ceruso. Quest’ultimo, diciannovenne del Comitato Proletario di Tivoli, un organismo dei Comitati Autonomi Operai, fu colpito al petto.
Tre giovani lo presero da sotto le ascelle e dai piedi. Da via Fiuminata giunsero nella piazza e da lì ancora più lontano fino a via Corinaldo, dove c’era un piccolo pronto soccorso. In seguito, accertata la gravità delle condizioni fisiche di Ceruso, bloccarono un taxi e vi entrarono portando con sé il ferito.
“Al Policlinico! Al Policlinico!”, urlò uno di loro al tassista.
“Corri! Corri!”, disse un secondo passeggero.
“Hanno ammazzato mio fratello!”, esclamò un altro durante il tragitto verso l’ospedale.
I tre giovani non erano parenti, ma compagni di lotta di Ceruso. Così lo sentivano mentre lui non dava più segni di vita. Temevano di essere ficcati nei guai dalla polizia e perciò fuggirono appena il taxi giunse al Policlinico.
La notizia della morte di Ceruso si diffuse rapidamente. Venne trasmessa anche dalla televisione e dalla radio. Giunse a noi che restammo a san Basilio anche dopo il tramonto fra barricate, lacrimogeni e sparatorie.
Il giorno successivo, il 9 settembre 1974, il Consiglio della Regione Lazio varò una legge: le famiglie che avevano occupato una casa nel territorio laziale, per autentico bisogno e prima dell’8 settembre di quell’anno, avevano diritto all’assegnazione di un appartamento.
Quando poi – giovedì 12 settembre – arrivò la data del funerale, il feretro partì dall’obitorio del Policlinico e fu seguito da un corteo di automobili. Doveva giungere a Tivoli, la cittadina di residenza dei parenti del giovane, ma prima passò a San Basilio. Lì, ad attenderlo, molte persone stavano sui marciapiedi delle principali vie.
Non aveva più il casco rosso che portava in testa quando lo vidi cadere. Non era più a pochi passi da via Fabriano e a dieci metri da me e Roberto che correvamo dietro di lui su via Fiuminata. Eravamo davvero matti a sfidare, in quel momento solo con qualche sasso, i lacrimogeni e le pallottole delle forze dell’ordine.
Ma forse erano più matti coloro che componevano il quinto governo Rumor (14 marzo 1974 – 23 novembre 1974), cioè i massimi responsabili politici della morte di Fabrizio Ceruso.
Gettiamo invece un velo pietoso sui dirigenti del Pci e del Sunia (il sindacato inquilini e assegnatari vicino al Pci) che allora intervennero solo a livello di mediazione istituzionale ed esclusivamente a favore della presunta legalità di una miserabile truffa di stato.
E che dire della magistratura? Il pubblico ministero Gugliemo Cavallari, pur avendo iniziato immediatamente le indagini, depositò la requisitoria venticinque mesi dopo: l’8 di ottobre del 1976 (vedasi: “Fatti di San Basilio: sotto accusa i metodi usati dalla polizia”, Franco Scottoni, L’Unità, sabato 9 ottobre 1976).
Con essa, “in ordine all’omicidio di Ceruso, al ferimento di 47 militari di Ps e alle violenze a pubblico ufficiale”, si chiese che il giudice istruttore dichiarasse “con sentenza di non doversi procedere per essere ignoti gli autori del reato”.
Sul piano giuridico i fatti di San Basilio furono poi archiviati dal giudice istruttore, il dottor Capri, ma la requisitoria del pm Cavallari costituì soprattutto un’accusa politica verso i metodi usati dalla polizia e una critica incontrovertibile alla tesi della questura di Roma, secondo cui le forze dell’ordine sarebbero state innocenti rispetto all’omicidio di Fabrizio Ceruso.
Il pm affermò che “furono concentrate presso la Direzione di Artiglieria di Roma le pistole appartenenti alla forza pubblica; fu controllato se le armi in dotazione fossero quelle effettivamente consegnate; furono controllati gli elenchi di servizio e i libretti personali degli agenti” (ibidem,L’Unità, sabato 9 ottobre 1976).
“Da tali verifiche – scrisse il pm – è emerso che la tenuta di alcuni documenti non era regolare: in particolare il registro della scuola di Ps di Caserta presentava pagine tagliate e re iscrizioni a penna su precedenti scritture a matita fatte con grafie diverse. Inoltre l’elenco del I battaglione Celere è risultato redatto dopo il rientro in caserma, sulla base di annotazioni provvisorie”.
Il pm Cavallari precisò che Ceruso fu “raggiunto da un proiettile calibro 7,65 che aveva camiciatura nichelata e tracce di laccatura viola sulla godronatura, caratteristiche comuni a gran parte delle cartucce in dotazione agli agenti operanti a S. Basilio, in via Fiuminata, dove avvenne l’omicidio”.
Quel proiettile, sempre secondo la requisitoria del pm, risultò “appartenere ad una fornitura di cartucce di produzione piuttosto remota (non posteriore all’anno 1965) della quale gli agenti avevano un notevolissimo quantitativo in dotazione”.
Dal 1960 del governo Tambroni in poi, almeno fino al quinto governo Rumor, la polizia ebbe il monopolio nel possesso di cartucce di quel tipo perché queste ultime erano state “vendute dalla Fiocchi anche a privati ma solo fino al 1960″. I governi erano davvero coi Fiocchi.
C’è qualcuno che oggi ricorda bene queste cose? La memoria di ognuno rischia di essere fallace, altalenante com’è fra un dubbio e l’altro inculcato dai professionisti delle dietrologie e delle menzogne storiche mass-mediate. Serve perciò una memoria collettiva e critica. Fatta pure di singoli e personali ricordi o racconti, ma tutti documentati o documentabili con precisione e senza inutili mitologie.
Nel 1974 la borgata di San Basilio stava diventando un quartiere. La maggioranza degli occupati in qualche lavoro era composta da lavoratori salariati ed era solidale verso il Comitato di lotta per la casa.
L’8 settembre 1974 non ci fu nessuna “guerra fra poveri” a San Basilio. Ci fu una “linea della fermezza” da parte del governo Rumor V – e già sperimentata il 9 maggio 1974 con la strage compiuta nel carcere di Alessandria dalla forza pubblica diretta dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa – che da un lato provocò l’omicidio di Fabrizio Ceruso e dall’altro il ferimento di 47 agenti delle forze dell’ordine.
Se i governanti fossero stati a San Basilio dopo le ore 19 e 30 dell’8 settembre 1974 avrebbero potuto vedere coi propri occhi una rivolta armata di massa.
Decine di abitanti facevano sporgere dalle finestre i fucili da caccia o a canne mozze e le pistole. Molti nelle strade avevano con sé biglie, fionde, sassi, bulloni e bottiglie molotov. Un ragazzo si proteggeva la testa con un casco rosso. Somigliava a Fabrizio ma era soltanto un suo fratello di lotta.
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