Nell’autunno del 2018 l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli ha promosso una serie di percorsi di ricerca con l’intento di valorizzare il patrimonio di periodici conservato nella sua Emeroteca. Le ricerche si sono concentrate in special modo sulle riviste “impegnate” dell’Ottocento e del Novecento in Italia e in Francia e sono state presentate in un ciclo di incontri pubblici nel corso dell’anno successivo.
Grazie all’iniziativa di Valerio Cacace e Massimiliano Biscuso, che hanno ideato e diretto il progetto, e alla passione e all’impegno dei giovani ricercatori che vi hanno partecipato, l’iniziativa è riuscita a fare dell’Emeroteca un laboratorio di idee e di dibattiti in cui un patrimonio archivistico per definizione “morto” – come “morto” è ogni documento del passato – è diventato materia di processi vivissimi di elaborazione e di presa di coscienza collettivi.
Successivamente, Giovanni Campailla e Antonio Del Vecchio hanno raccolto le relazioni degli incontri in un volume che, a mio parere, può essere un riferimento utile per tutti coloro che fanno dell’impegno politico e civile la prospettiva imprescindibile del proprio lavoro culturale.
Senza alcuna pretesa di fornire ai lettori una valutazione scientifica dei saggi raccolti, vorrei cimentarmi nel più modesto e tendenzioso intento di presentarne alcuni contenuti che ritengo di assoluta attualità, a partire dai quali potrebbe essere interessante aprire un dibattito sulle forme e sulle possibilità presenti di un lavoro culturale politicamente impegnato.
Raccogliendo saggi diversi sulle forme, i contesti e i modelli dell’impegno politico e culturale dell’intellettuale tra Otto e Novecento, che possono essere ancora oggi motivo di riflessione, il volume si concentra precipuamente sulla forma “rivista” come “mezzo” e “spazio di verità” attraverso cui gli intellettuali poterono, da un lato, esercitare e strutturare la critica della cultura e degli assetti sociali e politici dell’esistente, dall’altro, verificare in questa critica una peculiare congiunzione tra il pensiero e l’azione, tra il sapere e l’attualità: un «mezzo […] di intervento sulla contingenza e di costruzione in fieri di prospettive teoriche, programmi militanti e visioni del mondo a partire da ciò che accade», come scrivono i curatori[1].
Dai moti liberali e risorgimentali nel contesto partenopeo alle rivolte degli operai della seta di Lione negli anni Trenta dell’Ottocento, dalla stagione del marxismo critico degli anni Cinquanta a quella della Nuova Sinistra e del Sessantotto in Italia e in Francia, la funzione delle riviste fu quella di «rendere possibile alle soggettività organizzate, alle minoranze consapevoli, di prendere parola, di affermare sé stesse, di essere parte che si universalizza cercando consenso nella società, di comprendere e trasformare il proprio tempo», secondo le parole di Massimiliano Biscuso[2].
Ciò implicò l’affermarsi di caratteristiche peculiari del lavoro culturale: l’adozione di forme di scrittura divulgative (il saggio, la discussione, l’inchiesta, l’intervista, la cronaca), il riferimento del sapere alla realtà storica e sociale del proprio tempo, la dimensione collettiva e progettuale della produzione culturale, la costruzione di un rapporto epistemologico tra intellettuali e attori sociali.
Certamente tutto questo oggi è molto lontano. L’estensione di criteri di valutazione e di classificazione positivistici e meramente formali alle riviste delle aree cosiddette non bibliometriche, non solo esclude alla radice la possibilità di una tensione divulgativa, critica e pedagogica delle lettere e delle scienze umane, ma si rivela d’impedimento al loro stesso progresso.
Come ricorda ancora Biscuso nel suo contributo, le riviste definite “scientifiche” nelle aree delle scienze umane e sociali hanno cessato di espletare una funzione storicamente propulsiva in materia culturale e politica e sono diventate collettori di contributi che servono soprattutto ad accreditare accademicamente gli autori[3]. Non soltanto le riviste, ma il lavoro accademico stesso si codifica in maniera nefasta.
Basti pensare all’assurdo principio di “neutralità della scienza” che ha integrato il codice accademico agendo come una mistificazione ideologica funzionale alla depoliticizzazione del lavoro culturale e alla conservazione dello stato di cose presente – come già Vittorini sosteneva sulle pagine del «Politecnico» in editoriali che denunciavano con fervore resistenziale la complicità della scienza e della cultura super partes con la barbarie del nazifascismo –, poiché quella scienza che si pretende neutrale risulta semplicemente indifferente e inevitabilmente subordinata agli assetti di potere costituiti[4].
D’altro canto, la ricerca accademica si è ormai da tempo conformata a canoni di specializzazione settoriale e di produttività che alienano gli intellettuali gli uni dagli altri e dai problemi generali della società in cui vivono. In questo quadro la funzione critica dell’intellettuale è neutralizzata, la libera attività culturale trasformata in un agire sotto osservazione o “sotto tutela”.
Eppure, senza voler riproporre modelli storicamente superati d’impegno politico e civile degli uomini di cultura, nulla impedirebbe, ancora oggi, di articolare in modi nuovi una progettualità collettiva e militante che vada in controtendenza con quella che mi pare l’attuale frammentazione individuale – o in piccolissimi gruppi, redazioni, editori – del lavoro di storici, economisti, filosofi, sociologi che cercano di porsi in posizione critica rispetto ai paradigmi dominanti nelle università e di dire qualcosa di diverso dalle narrazioni ufficiali degli «apparati ideologici di Stato».
Nel mondo anglofono, agli inizi del XXI secolo, e per almeno un decennio, una funzione di critica culturale e politica analoga a quella delle riviste impegnate dei secoli XIX e XX, fu esercitata dai blog, come, peraltro, testimoniano gli scritti pubblicistici di Mark Fisher, il più noto tra i blogger impegnati di quel periodo. Pur riconoscendo la loro importanza storica, il rischio di questi blog era ed è troppo spesso quello di trasformarsi nelle crociane «botteghe da caffè», per l’«assenza di criteri fermi e di un organico sistema d’idee».
Seguendo la suggestione crociana che anima il programma della rivista «La Critica», oggi siamo forse ancora (o di nuovo) lontani dall’occupare quello spazio di pensiero critico-problematico che si interpone tra i periodici (e i blog) di attualità per il gran pubblico, perduti nella contingenza poiché privi di un «determinato ordine di idee», e i periodici specialistici che perdono di vista «i problemi generali e d’insieme» della società e del proprio tempo[5].
La discriminante dell’esercizio critico e politicamente impegnato della ragione, come si deduce dalla lettura dei saggi qui raccolti, non è soltanto il senso che si attribuisce alla – pur indispensabile – vocazione militante della “battaglie delle idee”, al di fuori di codici accademici e codificazioni formali, ma il rapporto effettivo che si instaura tra questa e i processi e i conflitti sociali e politici del proprio tempo, la fermezza dei principi che orientano la critica e la produzione ideologica, la dimensione collettiva dell’operare e del sapere, l’intenzionalità universalizzante quale costante riferirsi – più che a qualche partito – al movimento delle classi subalterne che abbatte lo stato di cose presente.
Ritorna d’attualità l’interrogativo che fonda l’esperienza delle «Révoltes logiques», di cui si occupa Giovanni Campailla nel suo contributo. Nell’editoriale del primo numero dell’inverno del 1975, Jean Borreil, Geneviève Fraisse e Jacques Rancière si chiedevano non ingenuamente: «Come si forma, nei suoi limiti e nelle sue contraddizioni, un pensiero di classe?»[6].
In polemica con la tendenza della sinistra del tempo alla sovradeterminazione ideologica dell’esistente, funzionale a nient’altro che alla giustificazione del proprio operato, il programma della rivista fu quello di affrontare le rivolte sociali nella loro singolarità storica, con l’intento di comprendere nell’esperienza concreta dei gruppi sociali – nell’esperienza vissuta e pensata dal basso o dall’interno della lotta – la dinamica storicamente determinata e mutevole del loro farsi “soggetto”, ovvero il processo reale attraverso cui «l’“intelligenza degli oppressi” in-forma un pensiero critico»[7]. Non era questa, d’altronde, la premessa epistemologica operante nel lavoro teorico dei «Quaderni rossi» e nella pratica della «conricerca»?
Una premessa, forse, da cui ripartire per affrontare senza mistificazioni ideologiche il problema del “soggetto”, la cui ricomposizione, dopo la fine della centralità operaia del secolo scorso, si presenta come il problema ancora irrisolto della sinistra rivoluzionaria, e d’altronde irrisolvibile fin quando sottoposto a tortuose giravolte filosofiche.
Un problema, questo, che ben potrebbe definire il punto d’inizio di un progetto collettivo intento a comprendere le trasformazioni intervenute, da un lato, nelle soggettività rivoluzionarie, dall’altro nei soggetti sociali, dagli anni Ottanta ad oggi; quindi nel rapporto tra capitale e lavoro, da un lato, e tra dimensione sociale e agency politica, dall’altro; che chiamerebbe in campo gli strumenti delle scienze economiche, sociali e giuridiche, oltre che della storia e della filosofia.
Più in generale, considerati il riflusso ormai pluriennale dell’universo anticapitalista e l’irrilevanza delle ipotesi comuniste sopravvissute alla fine del Novecento, l’organizzazione di un lavoro culturale di tipo critico che si muova fra l’immediata attualità, i problemi generali del proprio tempo e i problemi teorici di più ampio respiro si pone come momento possibile e necessario di resistenza all’egemonia neoliberale e di costruzione lenta e paziente di una contro-egemonia.
Un simile lavoro dovrebbe prendere avvio da una riflessione condivisa sulle premesse epistemologiche e metodologiche di una “scienza socialista”, per definire un comune sistema di idee e di principi che attingano dal marxismo quale primo e unico tentativo storico di fondazione di un “socialismo scientifico”, pur restando aperto all’innovazione e al dialogo tra discipline.
Condizione indispensabile, infine, di una scienza e di una cultura socialista critica è la critica delle condizioni della scienza e della cultura. E queste condizioni ci obbligano ad agire al di fuori degli spazi e dei codici accademici, per esercitare una autonomia di fatto sulle scelte, gli obiettivi e i modi del nostro lavoro e un dialogo costante con gli attori sociali che si mobilitano nel nostro tempo.
Mi piace concludere questo breve scritto ricordando una frase che definiva il lavoro del gruppo di «Ragionamenti» negli anni della Guerra Fredda: dicevano di lavorare «per il dopodomani», consapevoli che nell’immediato era impossibile ribaltare la situazione; e s’impegnarono in primo luogo a ripensare e praticare collettivamente la funzione e le forme d’impegno dell’intellettuale nella lotta politica per la trasformazione dell’esistente[8].
Ecco, forse una simile intenzionalità oggi manca, mentre il lavoro culturale rimane astratto dalle contraddizioni e dagli attori sociali.
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[1] La pratica teorico-politica della rivista tra Ottocento e Novecento, a cura di Giovanni Campailla e Antonio Del Vecchio, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press, 2021, p. 9. Il volume è scaricabile liberamente dal sito dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, www.iisf.it/index.php/pubblicazioni-iisf/edizioni-iisf-press
[2] Massimiliano Biscuso, Le forme della rivista, ivi, pp. 265-282, p. 266.
[3] Su questi problemi relaziona ampiamente Biscuso, che evidenzia l’assurdità di taluni criteri di “scientificità” elencati nel Regolamento dell’ANVUR del 2019: «non si comprende – scrive l’autore – in alcun modo cosa abbiano a che fare con la scientificità di una rivista molti dei criteri elencati (puntualità di uscita, abstract in inglese o uso dell’inglese in luogo dell’italiano, varia provenienza degli autori); per non parlare della connessa pretesa di valutare gli articoli e quindi le riviste che li ospitano sulla base del “fattore d’impatto”, cioè il numero di citazioni (e autocitazioni) nei due o cinque anni immediatamente successivi alla pubblicazione, un criterio che ha subito giustificate critiche» (ivi, p. 279). Come scrive ancora Biscuso, secondo i criteri dell’ANVUR riviste che hanno segnato la storia culturale dell’Italia, come «La Critica» di Benedetto Croce o i «Quaderni rossi», non avrebbero oggi titolo di scientificità.
[4] Sull’esperienza del «Politecnico» di Vittorini mi permetto di rimandare al mio contributo, Le “riviste militanti” della Nuova Sinistra: una genealogia, pp. 179-264, pp. 182-190.
[5] Ivi, p. 268.
[6] Citato in Giovanni Campailla, L’esperienza di farsi classe operaia: da l’«Echo de la fabrique» (1831-1834) a «Les Révoltes logiques» (1975-1981), ivi, pp. 101-129, p. 117.
[7] Ivi, p. 129.
[8] Cfr. ivi, pp. 190-205.
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