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“Prima delle rose vogliamo il pane!”

Giornata di lotta, venerdì 30, per i lavoratori della cultura e dello spettacolo, presenti in molte piazze di Italia.

Da Milano a Roma, da Torino a Bologna, da Pescara a Palermo, da Catania a Napoli, la voce del teatro, del cinema, della danza, del circo, dello spettacolo dal vivo tutto, si è levata alta ancora una volta, da Marzo scorso, per protestare contro l’incongrua e nuova chiusura degli spazi dell’arte, a fronte della persistente insufficienza di contributi e risorse da destinare al settore.

Un comparto che, già in crisi strutturale prima della pandemia, a causa dei costanti tagli al Fus (Fondo Unico per lo Spettacolo) e alla spesa prevista per le attività culturali – tagli determinati, anch’essi, dallo scellerato Patto di Stabilità e dalle politiche di austerità imposte dalla Unione Europea – ha finito per essere colpito quasi mortalmente dal diffondersi, nella primavera scorsa, della Sars Cov-2.

Bersaglio principale delle contestazioni e delle sacrosante rivendicazioni è, logicamente, insieme al Governo, il Ministro Dem Dario Franceschini. Titolare del Mibact e autore di una sciagurata riforma, che aveva già inferto, con le sue logiche aziendalistiche e produttivistiche, un colpo di grazia alle piccole imprese teatrali, alle produzioni cinematografiche indipendenti e, conseguentemente, a tutte quelle lavoratrici e a quei lavoratori che, ad esse, legano la loro sopravvivenza, artistica ed esistenziale.

Favorendo, di contro, teatri stabili, grandi compagnie, circuiti che hanno finito per detenere il monopolio della distribuzione, ricche case di produzione e nomi di prestigio, che ben si prestano ad una concezione mercantile della cultura e dell’arte.

Nomi e aziende che, d’altronde, poco o niente si sono viste in piazza!

D’altra parte, tanto il Premier Giuseppe Conte quanto il Ministro della Cultura, nulla fanno per farsi amare da una categoria che, in troppi casi, annovera lavoratori le cui condizioni economiche sono, frequentemente, sotto la soglia di povertà.

I quali però, sarebbero anche disposti – spesso commettendo un’ingenuità imperdonabile e rovinosa per sé stessi – a rinunciare a più giusti guadagni pur di tenere vivo il sacro fuoco della loro arte. E se solo fossero tenuti nella considerazione che si deve a chi, con il proprio lavoro, si suppone dovrebbe accrescere l’interesse e la vivacità culturale di un popolo.

Invece Conte, in primavera, durante una delle sue conferenze stampa, legate alla promulgazione dei tanti e arzigogolati Dpcm, ebbe a definire artisti e intellettuali alla stregua di divertenti intrattenitori.

Mentre il ministro Franceschini, qualche giorno fa, ha addirittura liquidato le proteste dei lavoratori della cultura, come stucchevoli e prive di comprensione per il delicato momento che il paese si trova ad affrontare.

Sancendo così, ad horas, la chiusura di Teatri, Cinema, Sale d’opera, Circhi. Nonché la sospensione, a tempo indeterminato, dei concerti dal vivo.

Spazi d’arte, insomma, di cui il Ministro e il Governo non sembrano comprendere la vera ragione economica.

Questi, infatti, al netto della loro valenza culturale, altro non sono se non luoghi di lavoro – atipico e intermittente, ancorché creativo, e spesso sottopagato – per tante lavoratrici e lavoratori che, con la loro dedizione, forniscono o dovrebbero fornire, ai cittadini della Polis, quel nutrimento per l’intelligenza che consentisse, nella migliore delle ipotesi, la formazione di una coscienza e di un pensiero critico.

Male che vada, ci si potrebbe accontentare comunque di un meno triviale senso estetico e del gusto. Un fattore che in un universo comunicativo dominato dai social, dalle D’Urso, dalla coppia Ferragni-Fedez, da giornalistucoli-conduttori o da maître à penser sedicenti liberal (da Lucia Annunziata in giù), non sarebbe certo da trascurare.

E invece, il primo comparto a chiudere, ancora una volta, dopo una falsa ripartenza – per di più nella stagione estiva che, di solito, corrisponde a quella di chiusura di cinema e teatri – è stato proprio quello dello spettacolo.

Falsa ripartenza, che aveva altresì illuso le categorie, impegnate lavorativamente nel settore, su una possibile ripresa economica. Che, a questo punto, ci sembra quantomai improbabile.

Ciò, nonostante un rapporto dell’Agis abbia documentato che, da Luglio -momento della ripresa degli spettacoli dopo il lockdown – ad oggi, si sia verificato un solo contagio tra sale cinematografiche e teatrali.

Che avevano, a loro spese e con enormi sacrifici economici, adottato tutte le misure imposte dai regolamenti in materia. Sacrifici, di fatto, resi vani dalle nuove disposizioni e dalla ripresa della diffusione dei contagi.

Ma c’è di più. La summenzionata chiusura sta avvenendo a fronte di insufficienti misure di sostegno, di scarse risorse di emergenza e di ammortizzatori assolutamente inadeguati, predisposti da un Governo la cui unica preoccupazione è, ancora una volta, tutelare esclusivamente il profitto e gli interessi dell’oligarchia confindustriale.

Dalla cui orbita sono esclusi, chiaramente, quei settori la cui catena del valore è agganciata all’economia della conoscenza e dell’immateriale.

Con un danno, specie su piccole aziende e lavoratori non baciati dalle calde luci della fama, che rischia di annichilire per sempre il mondo della cultura e dello spettacolo.

Sembra quasi superfluo, su questo giornale, dalle pagine del quale portiamo avanti, da tempo, una battaglia per le idee e la formazione di un pensiero critico e di una controcultura, che sappia opporsi all’ideologia del neoliberismo dominante – anche e soprattutto con le sue dinamiche di colonizzazione dell’immaginario – ricordare che un simile annichilimento porterebbe a compimento una strage sul terreno della coscienza civile e critica del Paese.

Ma necessita ricordarlo. Anzi, gridarlo. Come un urlo disperato su un precipizio. Perché l’Italia – e con essa l’intero occidente – vive un passaggio delicato della sua Storia. E, infondo al tunnel, la luce che di intravede sembra più quella di una fiaccola a Norimberga che quella di un Sol dell’avvenire.

Per questo, dobbiamo tutelare il nostro patrimonio culturale. Anche se già depauperato da quarant’anni di dittatura del Mercato.

Per questo dobbiamo lottare affianco dei lavoratori del settore. Per questo si devono unire le lotte. E operai, studenti, mondo della cultura, partite iva, nuovi ceti proletarizzati, devono tornare a riempire le piazze insieme. Senza distinguo e senza paura.

Com’è successo Venerdì e come, si spera, tornerà a succedere ancora.

A Napoli, per esempio, in Piazza del Gesù, si sono ritrovati, insieme, lavoratori della cultura e operai della Whirlpool.

E, pur con le loro insanabili differenze, Cobas, Federazione del Sociale Usb, e Confederali. La Cgil, pur nella sua inconsistenza pluri-trentennale, ha voluto battere un timido colpo.

Ma le rivendicazioni importanti sono quelle che, in questi mesi, hanno elaborato piattaforme e associazioni, costituitesi sui social e online, autonomamente e fuori dai circuiti sindacali, e che hanno visto l’ adesione di tante lavoratrici e lavoratori.

Quelle rivendicazioni hanno rappresentato la piattaforma di partenza per la giornata di lotta di Venerdì:

Reddito di emergenza; risorse certe per la ripartenza; registro di categoria; riconoscimento giuridico delle diverse figure professionali; creazione dell’Intermittenza come in Francia, in modo da tutelare la fisiologica discontinuità di una forma di lavoro che, per sua stessa specificità, risulta essere atipico; tavolo permanente tra parti sociali e ministeri; stabilizzazione dei lavoratori precari delle fondazioni lirico sinfoniche; reddito per tutti; sospensione degli affitti e delle utenze.

Sono queste, dunque, alcune delle istanze che la voce dei lavoratori ha fatto riecheggiare nelle piazze.

Intanto, la lotta continua. Per la tutela dei diritti. Per un’esistenza che non sia invisibile agli occhi della società. Per la sussistenza. Per la resistenza culturale. Per il diritto al dissenso e al pensiero critico.

Ma come recitava uno striscione in piazza: Prima delle rose vogliamo il pane!

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