Il prossimo 12 marzo, per le edizioni Efeso, uscirà il libro di Luigi Rosati e Luciano Vasapollo “Centocellaros. I cento fiori e la Rosa di Gerico. Storia di una Rivoluzione necessaria e possibile”.
Anticipiamo qui la prefazione del libro curata dai due autori.
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42 anni dopo la conclusione degli avvenimenti del terz’ultimo decennio del Novecento, abbiamo deciso di rivisitare i fatti di cui siamo stati tra i protagonisti, metterli nell’ordine dovuto e soprattutto, prenderci la libertà di parola indispensabile alla loro esposizione, senza auto-censure. Dato che consideriamo acquisita la condizione necessaria della prescrizione ormai data dei « reati »- affinché il ricatto del penale scompaia e ceda il passo al lavoro di ricostruzione storica.
Ma ben altre ragioni ci hanno spinto a scrivere.
Una, forse non la principale, comunque importante, è la continuità di un percorso umano e politico dei due autori di questo testo. Un vissuto che è indissociabile dalla redazione di queste pagine.
Il non aver mai smesso con l’impegno militante, diversamente orientato tra l’Italia e differenti teatri del Sud (Africa, Caraibi, America Latina), ha sicuramente alimentato la voglia di guardare indietro nel tempo a bordo della famosa piroga che risale il corso del fiume della memoria… Poi, quello che abbiamo scritto è senza alcun dubbio indissociabile da quello che abbiamo continuato e continuiamo a vivere.
Chiaro è anche che, per due compagni che avevano condiviso, nella stessa traiettoria d’organizzazione, il viaggio,la traversata così significativa e coinvolgente degli anni ’70 nel nostro paese, ivi compreso il passaggio nelle carceri speciali, le nuove esperienze non potevano che cementare una complicità già solida e arricchita dalla convinzione di essere stati nel giusto.
Altrimenti, è probabile, ci saremmo dedicati ad altro, invece di collaborare, chi con il governo democratico, socialista e progressista, di Chavez in Venezuela, ma più particolarmente con i dirigenti del Partito Comunista e della Rivoluzione a Cuba e con altri leaders rivoluzionari latino-americani; e chi tra le colline vulcaniche dell’Est della Repubblica Democratica del Congo, a sostegno di un’altra ribellione dei « giusti », quella del generale Laurent Nkunda contro un un regime predatore e massacratore.
Attività parallele, a cui va aggiunta quella in seno alla dirigenza della Rete dei Comunisti in Italia, e dal confronto delle quali si è delineata tra noi l’urgenza di una nuova avventura: la Tricontinentale (Africa, Asia e America latina) del terzo millennio, per rinnovare i fasti della prima, all’epoca delle lotte di liberazione, e riaffermare l’unità dei popoli del Sud di fronte alle recenti e più insidiose forme della governance mondiale.
Per tornare al nostro lavoro di ricostruzione storica, di cui questo libro è materia, ci siamo resi in effetti conto che in realtà, questa ricerca, almeno nel come noi l’abbiamo affrontata, non è mai stata, da nessuno, finora nemmeno abbozzata e, laddove qualche sporadico tentativo è stato fatto, esso è stato sistematicamente offuscato dalle versioni ufficiali imposte col diritto della forza dai detentori del potere. Oppure è stato edulcorato o depotenziato da prese di distanza « doverose ».
Per dovere di memoria dunque, era tempo d’intervenire e l’abbiamo fatto. Ma senza osare la sintesi globale, progetto troppo ambizioso, secondo noi. Perché, e questo fa parte del nostro approccio sotto il profilo del metodo, l’esperienza degli anni ’70 va declinata al plurale.
Così, invece di voler far la Storia, abbiamo deciso di parlare della nostra, di storia, di cui Roma fu il teatro principale. Nella fattispecie quella del quartiere di Centocelle, situato nella periferia sud-est, e dei suoi ragazzi di lotta, i Centocellaros, riuniti prima nella cellula territoriale di Potere Operaio, poi, dopo la dissoluzione di questa organizzazione, nel Comitato Comunista di Centocelle, il CO.CO.CE.
Vicenda strettamente intrecciata, come si vede, con quella del gruppo della sinistra extra-parlamentare Potere Operaio, di cui noi abbiamo fatto parte, poi dell’organizzazione politico-militare Formazioni Comuniste Armate – a cui abbiamo ugualmente partecipato – la seconda essendo in gran parte una filiazione del primo- e che, fino al 1976, si era espressa attraverso una varietà di sigle, di cui mette conto citare le due principali: Lotta armata per il Potere Proletario e Guerra di Classe per il Comunismo.
Insieme, abbiamo attraversato l’arco intero degli anni ’70 perché, tra il 1979 e l’inizio dell’’81, prese corpo, come capitolo finale della stessa esperienza, il Movimento Comunista Rivoluzionario, che agì principalmente in funzione delle lotte per la casa a Roma.
Per precisare natura ed ispirazione del nostro lavoro, ribadiamo quindi di aver stabilito di non avventurarci in un sistema di sintesi storica. Sarebbe anche stato un errore di fronte all’enorme complessità dei fatti.
Ma nello stesso tempo, non potevamo esentarci dal lavoro di contestualizzazione degli avvenimenti, per meglio capirne motivazioni e radici, impresa forse più facile a distanza di 42 anni. Anche perché, diciamocelo, proprio all’inizio di questa anamnesi appassionata, ci siamo resi conto che i tanto tormentati (tormentati soprattutto dalle versioni ufficiali portate a sfigurarli) Anni ’70, non sono spuntati all’improvviso con l’apparizione del movimento studentesco o col frastuono operaio dell’«autunno caldo».
Questo è il primo punto da evidenziare: non è dato capire quello che è successo dal ’67-’68 in poi senza ripercorrere i 30 anni che li precedono, a partire dalla Resistenza -la rivoluzione mancata che lascio’ in eredità un’ansia mal e mai sopita di cambiamento radicale – e passando per il 1960-’62, l’esplosione delle «magliette a strisce» che fecero suonare la campana a morto del «boom economico» e portarono nelle strade e nelle piazze del Nord e del Centro la rivolta dei figli del Sud. E questo è il secondo punto : il ruolo dell’immigrazione dal Meridione nella genesi dell’antagonismo degli Anni ’70.
Il terzo punto, corrispondente alla terza lacuna delle storiografie ufficiale ed ufficiosa, emerge una volta diradata l’incomprensione, o le letture parziali – deficit che fu anche il nostro -, della risposta che lo Stato diede immediatamente al sorgere delle forme di sovversione sociale che ne minavano l’autorità e le basi.
Risposta visibile nel suo impatto e nella sua articolazione in due fasi: strategia della tensione, con le stragi indiscriminate di civili, prima; contro–guerriglia più puntuale, delegata al PCI, dopo, si configurava già allora come una manovra tipica di contro-insurrezione. E il cui arsenale, sul piano legislativo e militare, sussiste ancor oggi come tecnica di prevenzione delle lotte. Punto quest’ultimo, che meriterebbe un approfondimento, una riflessione ulteriore, e dispiace che non sia materia di queste note.
Comunque, per noi, conta già l’aver sottolineato questi aspetti. Perché sono stati dimenticati, occultati. Da tutti, o quasi.
A fronte di ciò, c’è il dato fondamentale, che rivendichiamo in opposizione ai tenori delle narrazioni di regime : negli anni ’70, non c’è stato alcun fenomeno terrorista al di fuori del terrore di Stato esercitato da episodi come quelli, tra i tantissimi, di Piazza Fontana a Milano, degli omicidi di Giuseppe Pinelli, Fabrizio Ceruso e Giorgiana Masi, della strage di via Fracchia a Genova, o quelli relativi all’uso della tortura sistematica contro i prigionieri politici della sinistra rivoluzionaria.
C’è stata una guerra civile strisciante, di bassa intensità, asimmetrica, che ha opposto le forze del potere organizzate in una strategia di contro-rivoluzione a un movimento di massa dalle dimensioni molteplici e con obiettivi non compatibili con l’ordine vigente.
Questo movimento di massa – di operai, di studenti, di tecnici, di donne, di braccianti, di contadini, di prigionieri, di sottoproletari, di dannati della terra – si auto-organizzava dall’interno e dall’interno cercava di darsi gli strumenti necessari a rispondere con la forza alla violenza della risposta statale.
Da cui la genesi della lotta armata. In gestazione e poi in atto a partire da questo inestricabile legame tra sovversione sociale e organizzazione della violenza, creatosi sul finire degli anni ’60, anche nello sviluppo di avvenimenti e di esperienze dei decenni post-guerra.
Le formazioni politico-militari non hanno fatto altro – almeno all’inizio – che registrare il fenomeno che veniva dalla società e si esprimeva attraverso le lotte delle fabbriche, delle scuole, delle Università e del Mezzogiorno. Quando Potere Operaio diceva: «la violenza non è né buona né cattiva, la violenza è», Potere Operaio aveva ragione. Se piove, per uscire si prende l’ombrello, oppure si può decidere di non uscire.
Noi evidentemente, decidemmo d’uscire…
Oggi, dopo 42 anni, non lo rimpiangiamo. Perché per 12-13 anni, milioni di uomini e di donne hanno vissuto da noi in Italia un periodo, unico nella storia dei paesi a capitalismo avanzato, di partecipazione e di protagonismo, di libertà intensa dallo sfruttamento e dall’alienazione, e che ancor oggi lascia il segno positivo nel risveglio delle lotte e lo sbocciare di altri «cento fiori».
E quel periodo non era un sogno, ma la realtà. Poi, le realtà cambiano col mutare della condizioni sociali, che son sempre dettate da una quadro ben più ampio di quello in cui noi ci troviamo ad agire.
Ora, dopo tutto questo assalto al cielo, mettere il suggello della «sconfitta» su questa svolta storica ci riesce difficile.
Se non altro, perché non riusciamo a trovare i presunti «vincitori», la DC e il PCI per esempio, artigiani eccellenti della contro-rivoluzione. Spariti, inghiottiti, una decina d’anni dopo la fine degli avvenimenti, da un’epocale crisi delle istituzioni e del sistema dei partiti nella sua tardiva forma consociativa.
Crisi che non poteva che essere il riflesso dell’impotenza e della cecità politica: l’aver voluto affrontare che con la forza un movimento che portava in sé i germi di un cambiamento profondo. Errore che fu fatale a tutti.
Anche per questo non ci siamo sentiti sconfitti, perché è sconfitto colui che vuole vedersi tale…
Nel frattempo, le condizioni di vita delle genti in giro per il mondo son peggiorate, il dominio si è fatto più cinico, feroce e dissimulato, all’ombra delle nuove forme imperiali della governance mondiale uscite dalla fine della Guerra Fredda.
Ed abbiamo continuato a lavorare in stretta relazione politica e umana, come due sempre « giovani Centocellaros», coi mezzi che una situazione diversa ci metteva a disposizione, in Italia e nei paesi del Sud.
Oggi, volgendo lo sguardo su un passato che è storia, quindi suscettibile di riaprirsi, abbiamo voluto ricordare il senso di un’esperienza, la nostra, che ha avuto l’ambizione di volersi situare nell’epicentro del problema che si poneva allora : quello della dialettica dirompente tra l’espressione della ribellione radicale e le sue forme violente. E facendo di tutto per non distaccarsene, per restare coi piedi ben poggiati sul territorio in cui l’insubordinazione sociale si estendeva e si rafforzava nella critica delle armi.
Nel cuore battente di questa storia, le vicende del CO.CO.CE. lampeggiano, come la fiamma che sopravvive alle incertezze e attraversa le tempeste, nelle sue forme più fluide e indefinite, passando per la rivolta di San Basilio, e l ’insurrezione del proletariato giovanile nel 1977; la cacciata dalla Sapienza della nuova polizia sindacale di Lama, il 17 febbraio, e la «terribile bellezza» del 12 marzo per le vie di Roma.
Questa è la storia che vi raccontiamo. Quella dei Centocellaros, delle Formazioni Comuniste Armate, con tutti i suoi antecedenti, e prim’ancora, di Potere Operaio. Storia che, non a caso, è finita quando, malgrado tutto, questo distacco di cui parlavamo e che non volevamo, si è consumato nella rottura del legame tra conflittualità sociale radicale e lotta armata.
Ora, l’originalità che noi, sempre Centocellaros… rivendichiamo – il voler caparbiamente costruire gli elementi della forza, anche armata, nel vivo delle lotte di massa, cioé del contropotere – non ci esime dal sentirci almeno corresponsabili con chi, all’interno della sinistra rivoluzionaria e dei gruppi combattenti, decise di partire per la tangente prevalentemente militarista con una scelta tutta «verticale» d’«attacco al cuore dello Stato».
E questo, proprio quando il Movimento aveva al contrario affermato il suo essere inarrestabile in una progressione tutta orizzontale delle lotte sociali, anche violente e armate. Senza fughe in avanti. E nelle sedi in cui lo scontro entrava nel vivo : fabbriche, scuole, carceri e quartieri: «La nostra lotta è (per noi era e resta oggi), per il potere proletario», come si gridava nei cortei.
Qui, non possiamo non mettere in evidenza l’altro errore, all’interno della sinistra rivoluzionaria : errore che prevedeva l’avanzare del Movimento in una successione esponenziale e sempre più cruenta di scontri di piazza. Visione tipica di alcuni settori dell’Autonomia Operaia, con modalità differenti nelle sue diverse sedi e strutture organizzate, a Roma, Milano e, in parte, nel Veneto, in una fase in cui si sarebbe dovuto valorizzare nelle zone proletarie il potenziale che esplodeva negli scontri di piazza.
Pur non avendo avuto nulla o ben poco a che vedere con queste due visioni, come si potrà apprezzare nella lettura del nostro testo, ci rimproveriamo, oggi più di ieri, per non essere stati in grado di condurre e vincere la battaglia politica necessaria contro tali posizioni, che invece si sono imposte concorrendo alla curva discendente del Movimento, poi al suo esito.
Ma siccome piangere sul latte versato serve a poco o a niente, resta che abbiamo voluto dare – e chi legge dirà se ci siamo riusciti o meno – il nostro contributo alla ricostruzione degli anni ’70 nel loro divenire storico – prima, durante e nel suo lascito odierno –, riappropriandoci prima di tutto della nostra esperienza. Che rendiamo a chi lo vuole, come una delle tessere di un puzzle più ampio.
Peraltro, questo nostro lavoro e le sue intenzioni si situano nel luogo privilegiato dello scontro in atto tra i popoli oppressi e la nuova governance mondiale (Nazioni Unite, imperialismi USA e UE e le connesse istituzioni del potere economico e militare) : quello del controllo della storia, dell’informazione e della comunicazione.
Vero è che questa battaglia si svolge ad armi impari, i loro mezzi essendo sproporzionati rispetto ai nostri. Ma sappiamo di avere un piccolo vantaggio: la loro estrema suscettibilità di fronte al circolare – siamo nell’era dei résaeux sociali- delle verità non prestabilite, segnate dal crisma dell’ufficialità.
Il controllo delle popolazioni passa per l’esproprio sistematico della loro storia, compresa quella quotidiana. Ristabilire quella di ieri può servire a ridivenire soggetti di quella di oggi.
Perché, non si sa mai, come si dice, «a volte ritornano»… e più incazzati , più consapevoli, più esperti di prima!
Sempre avanti!!!
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Eliana
Contropiano avrà mai la chiarezza di scrivere che la lotta armata è stata un obbrobrio storico, che ha portato danni infiniti al movimento operaio, che ha provocato morti inutili? Molti degli stessi militanti della lotta armata hanno riconosciuto che è stato un errore e che quella fase andava definitivamente chiusa. Bisogna fare chiarezza, invece che utilizzare un libro su lotte marginali di un quartiere romano, ai più sconosciute, per rivalutare scelte sbagliate e assurde.
edoardo todaro
Se può essere utile, perchè non fare una presentazione a Firenze, al CPA?
Alida Vilardi
bene invece che i protagonisti e i testimoni di quel periodo comincino a fare una ricostruzione storica ma con metodo storico onesta’e responsabilita’intellettuale per restituire dignita’e consapevolezza