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La fraternità di Valerio Evangelisti

Non sappiamo se Bologna gli dedicherà mai una strada, una piazza, un giardino o una sala pubblica, ma Valerio Evangelisti, al di là di ogni retorica, è stato sicuramente uno dei suoi figli migliori.

Haidi Giuliani ha scritto: “Penso che Bologna, particolarmente, debba essere in lutto”.

E’ vero, è proprio così, la grande perdita di Valerio potrà essere alleviata solo se quelli e quelle della “sua parte”, tutte le realtà e tutte le persone per cui lui si è speso, faranno insieme qualcosa per ricordarlo degnamente.

La “città ufficiale” lo commemori (se lo farà) come meglio crede, ma gli spazi autogestiti, i collettivi, le organizzazioni politiche, gli archivi di movimento, i gruppi di base che Evangelisti ha frequentato e sostenuto debbono tenere vivi i suoi scritti e le sue idee, debbono continuare a far circolare i suoi libri, per il valore “universale” che rappresentano nella storia delle “classi oppresse”.

E al di fuori di ogni logica da “memoria condivisa”, che Valerio ha sempre contrastato.

Infatti, diverse volte, nel corso degli anni, Evangelisti se l’è presa con l’ondata di “revisionismo” che ha investito la storiografia. I periodi potevano essere diversi, e svariare dall’Inquisizione al Fascismo, ma lui ha sempre trovato assurdi e ridicoli gli scritti storici che tentavano una loro riabilitazione.

Li bollava come manifestazioni di barbarie e di oscurantismo che, in nome dell’anticomunismo, attaccavano tutti i momenti della storia in cui si era fatta strada l’idea di eguaglianza: dalla rivoluzione francese alla resistenza al nazifascismo, alle battaglie per la democrazia.

Era nato a Bologna nel 1952, emiliano per parte di padre, romagnolo per parte di madre, ed era sempre andato molto fiero del suo accento che “proteggeva” il suo linguaggio senza fronzoli, molto semplice e diretto anche quando parlava di cose complesse.

Il suo amore per la regione in cui era nato e che lui chiamava “la terra degli uomini con la capparella” lo dichiarò anche in un articolo del settembre 2004 su un quotidiano francese. Del resto, Evangelisti a studiare era rimasto a Bologna dove, nel 1976, si laureò in Scienze politiche, con indirizzo storico-politico. Dopo la laurea, trovò lavoro al ministero delle Finanze, alternando a questa professione la ricerca storiografica e la produzione dei suoi primi saggi.

La militanza politica

In città, nel 1969, aveva iniziato a militare nei collettivi studenteschi e nella sinistra extraparlamentare, infatti fu da un suo compagno di Lotta continua che uscì il sopranome di “So Long” che gli fu affibbiato per diversi anni.

Valerio di quel suo appellativo ne parlava così: «Il nomignolo derivava dalle sigarette che fumavo e dalla mia statura altissima. In quei tempi ci si chiamava essenzialmente per nome o soprannome. I cognomi riguardavano la polizia. Nessuno stava a chiederli».

Del movimento del ’77 Evangelisti scrisse molti anni dopo e con una grande lucidità: «In quel periodo io fui una delle parti in causa – “protagonista” non lo sono mai stato…».

Con uno suo contributo nell’Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia-Romagna volume 3° (a cura di Piero Pieri e Chiara Cretella, Ed Clueb, Bologna, 2007) cercò di trovare un comune denominatore sociale alla massa eterogenea dei ribelli del ’77.

Sapeva che era una cosa audace, ma decise di rischiare: «I protagonisti del ’77 erano (o parevano) principalmente studenti. Sì, ma quali studenti? Questa era la domanda che nessuno si poneva, e che nessuno si è posto in seguito, dopo che l’intero periodo storico è stato collocato in toto nella storia giudiziaria e lì cristallizzato (sia notato en passant: ben pochi ex “settantasettini” hanno raggiunto posizioni sociali di rilievo, a differenza dei loro presunti progenitori del ’68; salvo completa abiura, non così frequente).

Per chi visse il ’77 dall’interno, la risposta non è tanto difficile. L’Università di Bologna, polo d’attrazione per la sua fama, ha sempre visto una maggioranza di studenti fuorisede, provenienti in larga misura dal meridione.

Alla fine degli anni Settanta, si mantenevano agli studi con ogni sorta di lavoro precario, e anche la laurea non garantiva loro un automatico sbocco professionale di prestigio. Ciò del resto valeva per ogni universitario, sebbene l’accesso alle professioni fosse, per chi era nato e viveva a Bologna, meno lento e problematico.

Gli studenti finivano per alimentare il meccanismo del lavoro precario che l’assetto produttivo emiliano-romagnolo aveva quale naturale modus vivendi…

E poi c’erano i marginali, i freaks, i piccoli malviventi. Una quantità, in un movimento che accoglieva nelle proprie fila il “proletariato extralegale”.

Se il ’77 non ha prodotto una nuova classe dominante, lo si deve anche alla sua, negletta, composizione sociale… Che diede oggettivamente vita a un movimento operaio alternativo (l’altro movimento operaio, lo chiamò lo storico tedesco Karl Heinz Roth) che fondava le proprie rivendicazioni non sulla competenza professionale, bensì su bisogni dettati dalla vita in società, senza alcuna connessione tra questi e il lavoro erogato…

Si trattava di bisogni non primari del proletariato che esigevano soddisfazione immediata, e su di essi andava modellato l’antagonismo…

Di qui il diffondersi a Bologna, ben prima dell’11 marzo 1977, della pratica della “autoriduzione” oppure dell’esproprio… Essendo la cultura uno di questi bisogni, furono svuotati negozi di dischi, si assalirono librerie, si invasero sedi di concerti, si fece irruzione nei cinema senza pagare il biglietto (ne fece le spese, tra l’altro, il film “King Kong” di John Guillermin).

Quanto ai bisogni primari, si moltiplicarono le incursioni nei ristoranti, in cui, in cambio del pasto, si lasciava una cifra simbolica…

Oggi tutto ciò può apparire bizzarro (e lo era già allora, agli occhi di chi coltivava una visione meno eterodossa del pensiero antagonista), però credo evidenzi due cose. Il movimento del ’77 non agiva casualmente, ma rifletteva su se stesso e sui propri compiti persino di più di quanto avessero fatto i suoi progenitori del ’68. In secondo luogo, le idee che lo percorrevano avevano poco o nulla in comune con le teorizzazioni delle Brigate Rosse».

Tra il 1978 e il 1979 Valerio / So Long si trovò ad essere, “di malavoglia”, il gestore di via Avesella 5/B, quella che nei primi anni ’70 era stata prima la sede de il manifesto (che allora, oltre che un giornale, era un gruppo politico), poi di Lotta Continua.

Dopo lo scioglimento di L.C. nel 1976, per un breve periodo, ci fu la redazione bolognese del quotidiano Lotta Continua, poi, a partire dal 1978, ci fu una fase confusa in cui si insediarono diversi collettivi sopravvissuti all’estinzione del gruppo extraparlamentare, vicini all’area dell’autonomia, ma ancora non disposti a rinunciare del tutto alle vecchie simbologie.

Secondo Evangelisti: «L’attività del 5/B, a tre anni dal decesso di Lotta Continua, era ricchissima, le riunioni quotidiane. A parte i collettivi strettamente politici, vi si ritrovavano il comitato di base dei tranvieri (quattro in tutto, però promotori di uno sciopero selvaggio che aveva paralizzato la città); vi operava la mattina un ambulatorio autogestito per eroinomani, curati con somministrazioni di morfina (nacque un problema quando ci si accorse che i medici lasciavano le fiale di morfina in un cassetto di via Avesella: abbastanza per farci finire tutti dentro, alla prima perquisizione); si incontravano gruppi musicali di quartiere; si radunava talora l’Unione Studenti Africani; confluiva occasionalmente la redazione de Il fondo del barile, un giornaletto scritto in larga misura da operai della Ducati».

Sempre come So Long, agli inizi degli anni Ottanta, Evangelisti prese parte a due occupazioni di spazi sociali: il Crack 1, ma soprattutto il Crack 2.

Così le descrisse sul libro Gli Autonomi (Volume 1 – Derive Approdi, 2007): «Da quando avevo lasciato la sinistra extraparlamentare – prima Lotta Continua poi Avanguardia Operaia, e infine la complicata diaspora di L.C. – avevo simpatizzato per gli autonomi romani di via dei Volsci, più “bolscevichi” nel modo di fare.

Questi erano alleati all’Autonomia padovana nel Comitato Anti-Anti (Antinucleare Antimperialista). Però gli unici autonomi attivi a Bologna erano quelli dei Cpt (Comitati Politici Territoriali), legati ai padovani dissidenti e a un giornaletto chiamato “Passpartù”. Vi aderii, per quanto ancora idealmente vincolato ai Volsci.

Il primo Crack durò un mese appena. Sorgeva in via San Carlo, in uno di quei piccoli prefabbricati che i muratori costruiscono quando hanno in corso lavori, e a volte lasciano a lavori finiti. Bastò un concerto degli Irah perché il Comune mandasse le ruspe. Furono distrutti anche tutti gli strumenti musicali e gli effetti personali…

Ma dopo pochi mesi il Crack rinacque, questa volta in via Riva Reno. Si trattava anche in questo caso del capanno di un cantiere abbandonato, però molto più grande… Il Cpt si installò nel Crack 2 alla testa delle sue legioni di “operai sociali”.

Che cosa si faceva? Be’, anzitutto si viveva assieme. Eravamo tutte le sere a decine. Si beveva, si discuteva, si conversava, si metteva su musica… I punk erano sempre presenti, e grazie a loro si organizzavano dei concerti con band venute da tutto il mondo….».

Nel 1983, con l’operazione Urgent Fury, il presidente Ronald Reagan diede l’ordine alle forze armate americane di invadere l’isola di Grenada che, in seguito ai suoi rivolgimenti politici, avrebbe potuto portare lo staterello delle Antille nell’ambito dell’influenza sovietico/cubana.

Valerio promosse la costituzione di un comitato di sostegno ai grenadini. Negli stessi giorni Evangelisti stava leggendo un libro di Jean Ziegler, “Les Rebelles”, sulla rivoluzione sandinista in Nicaragua, sintesi tra socialismo e democrazia dal basso.

Quella lettura lo “trascinò” in un altro continente: «Mi convinsi che non ci sarebbe stata una rivoluzione in Italia, e che bisognava sostenere quelle in corso altrove. Assieme ad altri diedi così vita a un gruppo internazionalista, il Circolo Carlos Fonseca. L’interesse per situazioni straniere, e in particolare per l’America Latina, forse ci salvò dalla repressione durissima che si abbatté sul movimento».

In un’altra intervista Valerio raccontò: «In quegli anni io mi proiettai molto di più fuori dall’Italia; quella che poi sarebbe stata mia moglie si trasferì addirittura là, e io la raggiungevo ogni volta che potevo. Dalle cose italiane cominciai a tenermi un po’ alla larga…

Il circolo Carlos Fonseca è esistito fino alla fine dell’86, inizi dell’87, e si era allargato molto, ma poi iniziò a restringersi, anche perché nel Nicaragua la situazione cominciava a non essere più così “sexy” e attraente come era prima; ci furono inoltre dei dissidi interni, anche abbastanza forti e finimmo per scioglierci…

Allora quale fu il mio destino in tutto questo viaggio? Esisteva in quel periodo a Bologna un circolo (di cui mai avevo fatto parte né mai mi ero avvicinato) che si chiamava Kamo, il quale raccoglieva gente proveniente dal Cpt e compagni arrestati all’inizio degli anni Ottanta che cominciavano ad uscire dalla prigione….

Il Kamo era separato dall’autonomia tradizionale, che si riuniva in via Avesella: alcune componenti dialogavano, altre avevano scarsi rapporti. Comunque il circolo Kamo diventò un punto di riferimento per varie cose. Io cominciai a frequentarlo… Tutto questo nell’87.

Poi un’altra cosa che facemmo fu di rimettere in piedi la vecchia radio Under Dog, la quale non aveva mai chiuso ma trasmetteva solo musica: tentammo di farci dei programmi e una serie di attività culturali…».

Alle soglie degli anni Novanta, Evangelisti diede vita a una rivista di storia dell’antagonismo sociale, intitolata Progetto Memoria. Da quella esperienza, in seguito, nacque Carmilla, una pubblicazione prima cartacea e poi on line. Era stata una sua felice intuizione ed era dedicata alla narrativa fantastica e alla critica politica. Lo scopo della rivista, secondo il suo direttore editoriale, era di fare emergere le potenzialità critiche e antagoniste della letteratura “popolare”, cioè di genere.

Valerio trovò il tempo pure per collaborare all’edizione francese di “Le Monde Diplomatique” e di far parte del nucleo dei fondatori dell’Archivio storico della nuova sinistra “Marco Pezzi” di cui divenne “formalmente” il presidente.

Delle sue turbinose esperienze politiche ha più volte dichiarato: «Delle idee del passato, non ho mai rinnegato nulla, a parte aspetti molto marginali. Al contrario, quelle idee mi sembrano più attuali che mai…

E’ alla sinistra “scomoda”, e non a quella imbolsita e oggi transitata a destra, che si devono la vittoria contro il nucleare, le più decise azioni antirazziste, il permanere di un antifascismo militante, il sopravvivere di un internazionalismo autentico, l’ancora larga diffusione di culture non ufficiali che passano di generazione in generazione, l’antimilitarismo, la critica dei sindacati accondiscendenti, la scoperta e l’uso di mezzi di comunicazione alternativi, la genesi di nuovi generi musicali, letterari e pittorici (i graffiti tanto odiati dal potere), la prima affermazione di massa del femminismo, l’antiproibizionismo…».

In anni più recenti, nella prefazione al libro “Berretta Rossa – storia di Bologna attraverso i centri sociali” (ed. Pendragon 2011) Evangelisti ha parlato del valore del concetto di fraternità: «La Rivoluzione francese, che tanta influenza esercitò sulle insurrezioni dei due secoli successivi, aveva un motto notorio: “Libertà, uguaglianza e fraternità”.

La terza parola, la più trascurata, è quella che meglio definisce l’esperienza dei centri sociali. Laboratori di politica e cultura, certo, fucine di lotte e di forme alternative di svago, ma anche, in primo luogo, aggregazioni di individui che hanno deciso di aderire a un comune assieme di valori.

Ciò appartiene in fondo alla storia del movimento antagonista, sia antica che recente. Funzionavano grosso modo così le Case del Popolo, risalenti ai primi del ‘900 e, in qualche caso, all’ultimo decennio dell’ ‘800. Pensato alla stessa maniera era il circuito Arci. Più vicini a noi, nel tempo e nello spirito, i Circoli del Proletariato Giovanile degli anni ’70, o le Mense proletarie di Napoli e di altre località…

A ben vedere, la sinistra antagonista si è sempre differenziata da quella istituzionale non tanto per questioni ideologiche (riforme o rivoluzione, elezioni o astensionismo, sindacato o organizzazione autonoma dal basso, e così via), quanto per la valorizzazione del momento esistenziale quale supporto a tutto il resto. E continua a farlo, più debole che in passato e tuttavia tenace. Non sedimentò nulla, si dirà. Non è affatto vero…

Malgrado fratture a getto continuo, una compattezza rimane. Siamo il partito della fraternité. E’ giusto, urgente e necessario rintracciarne le origini. Una ricostruzione delle storie individuali può aiutare moltissimo a ricomporre la storia complessiva. Vale per Bologna, vale per tutta Italia».

Nel 2013, nella sua introduzione al libro di Fulvio Massarelli “La forza di piazza Syntagma” (ed. Agenzia X), ha scritto: «Abbiamo visto, dopo decenni, movimenti anticapitalistici di massa: “indignados”, “occupy”, presenti in vari continenti. Abbiamo visto riemergere dal nulla una sinistra che si credeva perduta, articolata in mille esperienze di base.

Basta tutto ciò? No, per niente. I rapporti di forza permangono intatti. Poco importa che ad assediare i palazzi del potere siano decine di migliaia di persone. Non cambia nulla, le decisioni utili all’atto pratico sono prese nelle sedi deputate. Nazionali e sovranazionali. E’ bello e liberatore fare casino in piazza. Seguiranno l’inevitabile stanchezza, le divisioni, la rassegnazione. L’insorgenza tardo-giacobina ai tempi del Direttorio. Ne nacque il socialismo, ma con una gestazione lentissima».

Lo straordinario scrittore

Dopo i testi di natura storiografica, nel 1990, Evangelisti cominciò a dedicarsi alla narrativa.

Nel 1994 esordì con il suo primo romanzo, “Nicolas Eymerich, inquisitore”, vincendo il Premio Urania. Da quel momento, ridusse progressivamente il lavoro di funzionario statale, per diventare scrittore a tempo pieno.

Alla fine del 1997, dato il successo dei suoi romanzi, soprattutto quelli del ciclo di Eymerich (un inquisitore che indagava sui fenomeni misteriosi nell’Europa medievale), e i discreti guadagni che iniziava a trarne, si licenziò dall’impiego al ministero delle Finanze, durato quasi vent’anni. Era una scommessa non facile, ma Valerio la superò. Da allora riuscì a vivere solo di ciò che scriveva, senza introiti a margine.

Nel 1998, in concomitanza con il romanzo “Picatrix: la scala per l’inferno”, uscì con un altro lavoro: “Metallo Urlante”, un crocevia di storie, personaggi, linguaggi e scenari di genere fantasy dedicato alla musica heavy metal.

I suoi romanzi gli valsero il “Grand Prix de l’Imaginaire” nel 1998 e il “Prix Tour Eiffel” nel 1999, mentre nel 2000 vinse il “Prix Italia” per la fiction radiofonica. Nel 2001 fece parte della delegazione ufficiale degli scrittori italiani al Salon du Livre di Parigi.

Nel 1999 concepì in tre differenti volumi “Magus, il romanzo di Nostradamus”.

Nel 2000, con la casa editrice l’Ancora del Mediterraneo, pubblicò la raccolta di saggi “Alla periferia di Alphaville. Interventi sulla paraletteratura”, a cui seguì nel 2004 “Sotto gli occhi di tutti. Ritorno ad Alphaville”.

Metallo urlante” aveva fatto da apripista alla serie “Pantera”, il secondo capitolo si aprì con il libro “Blak Flag”, un fantawestern del 2002, a cui seguì nell’anno successivo “Antracite” che, con lo stesso genere letterario, raccontò la storia delle lotte della seconda metà dell’Ottocento tra i minatori irlandesi e i proprietari delle miniere del bacino della Pensylvania.

Da “Antracite”, incentrato sul misterioso pistolero/stregone messicano Pantera, prese il via un intreccio nella cosiddetta “Trilogia Americana” con “One Big Union” (2011) dove un giovane meccanico di origini irlandesi, religioso e affezionato alla famiglia, si ritrovò a coltivare pregiudizi razziali e forme di patriottismo che sconfinavano nel nazionalismo.

Questa sua indole lo indusse a diventare, per conto di agenzie specializzate, un infiltrato nei sindacati e nel movimento operaio americano, con il fine di spezzare gli scioperi e di ricondurre i lavoratori alla disciplina.

Attraverso i suoi occhi Evangelisti ha descritto il percorso spesso tragico del sindacalismo americano lungo l’arco di un cinquantennio, con i suoi episodi grandiosi e terribili. Dai grandi scioperi dei ferrovieri di fine Ottocento fino all’epopea degli Wobblies, gli Industrial Workers of the World, nei primi vent’anni del Novecento.

Per raccontare le origini degli Stati Uniti, tra la fine della Guerra civile e il Novecento, Evangelisti scelse tre personaggi protagonisti dei suoi tre romanzi. Dei primi due abbiamo già parlato, il terzo, il gangster italo-americano Eddie Florio (realmente esistito) fu il soggetto più sinistro mai creato dalla sua penna, per raccontare in “Noi saremo tutto” (2004) il controllo dei porti statunitensi da parte della malavita e dall’Anonima Assassini, un’organizzazione di killer al servizio di Cosa Nostra.

Sullo sfondo, trent’anni di movimento sindacale negli Usa e la lotta tra comunisti e malavitosi per l’egemonia sui lavoratori portuali.

Questi libri del “ciclo americano” furono intrinsecamente connessi ai suoi due romanzi storici sulla rivoluzione messicana: “Il collare di fuoco” (2005) e “Il collare spezzato” (2006).

Un fatto curioso fu la ristampa nel 2005 (per Derive Approdi) de “Gli sbirri alla lanterna” un saggio sulla “plebe giacobina bolognese negli anni dal 1792 al 1797” che fece parte, agli inizi delle sue produzioni editoriali, di una ricerca su “Bologna dell’Ottocento”.

In città vigeva un sistema economico chiuso, che costringeva la popolazione a condizioni di vita intollerabili. In quel contesto, attraverso congiure, complotti e rivolte, si fece spazio una sorta di “giacobinismo plebeo”, rudimentale e violento, che ebbe il merito di strappare la politica al Palazzo e di radicarla nella quotidianità popolare.

Il fatto curioso è che Evangelisti decise di rimettere in circolazione questo suo lavoro perché la situazione che si stava vivendo a Bologna nel 2005, col governo del “sindaco sceriffo” Cofferati, con le sue campagne moraliste contro i comportamenti disdicevoli della gioventù petroniana, contro i rom e i lavavetri, facevano venire in mente i tempi del Cardinal Legato e delle Assunterie.

Naturalmente, dietro a tutto questo, c’era l’auspicio che i “malintenzionati del terzo millennio” seguissero le gesta delle antiche “plebi giacobine”.

La produzione letteraria di Evangelisti, pur avendo tutte le caratteristiche della “genialità artigiana” nell’uso e nell’assemblaggio delle parole, ha sempre avuto dei ritmi che avrebbero fatto invidia alla catena di montaggio fordista: infatti, dal 2008 al 2012, uscì la “Trilogia dei Pirati” con “Tortuga”, “Veracruz” e “Cartagena”, in cui Valerio raccontava, in una ambientazione negli ultimi decenni del Seicento, l’avidità predatoria dei fratelli della costa e l’epopea degli arrembaggi e dei rapimenti dei filibustieri di stanza nel mare dei Caraibi.

Dal 2013 al 2016 fu la volta della “Trilogia del sol dell’avvenire” che, in tre corposi volumi, narrava la storia di due famiglie di braccianti romagnole, le vicende del movimento operaio e bracciantile dal 1875 al 1945, l’avvento del fascismo foraggiato dagli agrari e la divisione dei nuclei famigliari: tra chi divenne squadrista, tra chi suo malgrado fu assorbito dal mondo della clandestinità e degli esuli antifascisti, e invece chi decise di partecipare alla guerra di liberazione nella più anticonformista e “romagnola” formazione partigiana.

Di questa grande saga proletaria in cui ciò che era saggistica diventa narrazione, un lavoro unico nel panorama letterario italiano, Evangelisti ne ha parlato così: «Ho scritto di contadini e di braccianti, di povera gente che ha dato alla Romagna e all’Emilia la propria impronta. Senza curarsi troppo di chi, a livello politico, pretendeva di averne la guida. L’unico linguaggio per me adeguato era quello brusco, essenziale, a volte sarcastico o umoristico delle campagne».

In effetti, in quelle straordinarie migliaia di pagine la scrittura è pulita, senza ruffianerie, non ci sono trucchi per abbellire la storia e renderla più stuzzicante. E’ il racconto sincero e brutale che coinvolge, tracciando le scene di una condizione di vita da cui furono travolti tanti oppressi e sfruttati, tante piccole oscure persone che il sole dell’avvenire che avevano auspicato non videro mai sorgere.

La controstoria popolare di Valerio è proseguita fino a pochi mesi fa con due romanzi storici sull’esperienza della Repubblica romana. Con “1849. I guerrieri della libertà” del 2019 il nostro inarrestabile scrittore ha raccontato di quando, in ogni parte d’Italia, nell’autunno del 1848, tantissimi giovani lasciarono lavoro e famiglie e si misero in marcia, per difendere l’insurrezione popolare che da lì a pochi mesi avrebbe visto nascere la Repubblica Romana.

In una cornice di attenta ricostruzione del contesto, tra fiumi di vino, fumi di sigaro e litri di sangue, Evangelisti, ancora una volta ha fatto recuperare al popolo la centralità che avrebbe dovuto avere.

Con “Gli anni del coltello” (2021) il racconto inizia a Roma, il 2 luglio 1849, subito dopo la caduta della Repubblica Romana, quando le truppe del Papa, aiutate dai soldati francesi, cominciarono a cannoneggiare i quartieri degli insorti, per poi dare il via a una spietata caccia all’uomo.

Tra quanti avevano combattuto fino all’ultimo minuto a difesa della Repubblica c’è un personaggio un po’ borderline, Giovanni Marioni, detto “Gabariol”, proveniente da Faenza, un grande idealista sempre fedele a se stesso che non accetta compromessi, seguendo i dettami dell’unico maestro che riconosce, Giuseppe Mazzini. Dal libro emerge una figura dell’ “eroe risorgimentale” ben diversa dalla storiografia che va per la maggiore: un visionario incapace di organizzare il suo movimento e che manda i suoi seguaci allo sbaraglio.

La narrazione di Valerio Evangelisti è sempre stata sostenuta da un poderoso impianto di fonti documentarie. Lui, anche nell’ambito delle storie fantastiche, ha inteso fornire al lettore dettagli solidi e circostanziati, ha voluto rendere i suoi racconti molto realistici. Ma incessantemente ha rifuggito dai predicozzi e rifiutato gli stereotipi dell’epica a sfondo sociale. Una cosa l’ha sempre sostenuta con chiarezza: «Un autore che abbia intenti pedagogici non può che produrre pessima narrativa».

Non si fa nessuna forzatura e non si rischia la piaggeria nel dire che Valerio ha messo al servizio della ricerca storica il suo talento narrativo e letterario. Il suo è stato sicuramente un tentativo riuscito di riportare la plebe sul palcoscenico della storia.

Lui, del resto, è sempre stato convinto che le aspirazioni di chi lotta non siano irrealizzabili se si possiedono gli strumenti materiali e intellettuali adeguati. Quante volte gli abbiamo sentito dire ironicamente: «Nei miei romanzi posso dare l’impressione di vedere tutto nero… forse è per via di quella frase che Gramsci rese celebre: “Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”».

Valerio Evangelisti ha costantemente parlato degli altri, soprattutto dei più deboli, il suo è stato un continuo peregrinare tra povertà e disgrazie, angherie e sfruttamenti, scintille sociali e repressioni, solo una volta in vita sua, in suo testo, ha parlato di se stesso. Lo ha fatto nel 2013, con il libro “Day Hospital”.

Lo presentò in questo modo: «Non credo che l’esperienza del cancro vada nascosta. Non penso nemmeno che si presti a diventare un sottogenere letterario. (…) Non si troveranno, dunque, riflessioni particolarmente profonde, né consigli per chi dovesse affrontare la stessa esperienza. Dipende dal carattere di ciascuno».

In quel testo, tanto diverso da tutti gli altri suoi lavori, raccontò quando, nel maggio 2009, iniziò un calvario di esami e, dopo i risultati, di sedute di chemioterapia. Poi, con la dovizia di particolari di chi alla narrazione era abituato, descrisse le giornate e le persone del reparto di oncologia dell’ospedale, gli effetti dei farmaci, le ricerche su internet, la “birroterapia”, gli amici veri e quelli troppo invadenti o troppo assenti e soprattutto la funzione terapeutica della scrittura notturna. Era il racconto di un’esperienza di vita, il semplice racconto di una storia non semplice.

La sobrietà, la gentilezza e la generosità

Pur se ha avuto un meritato successo, non si è mai montato la testa e non se l’è tirata mai. Il suo stile di vita è rimasto all’insegna della sobrietà: «E’ bene precisare che conduco una vita molto semplice e ritirata, senza spese eccessive. La macchina l’ho venduta anni fa, sono proprietario del mio appartamento. Spendo in birra, fumo di tabacco, libri e dvd».

Poi c’era la sua gentilezza, quasi timorosa, nel rapportarsi con gli altri. Straordinaria è sempre stata anche la sua disponibilità all’ascolto delle persone.

Ma di Valerio Evangelisti bisogna dire ancora qualcosa di più: è stato sempre un compagno di grande generosità, che non si è mai sottratto ad aiutare gli altri, dai singoli alle realtà collettive più deboli. Ha firmato appelli a favore di militanti e attivisti colpiti dalla repressione, si è battuto “con le sue armi” contro i tanti sgomberi che hanno caratterizzato le amministrazioni comunali che si sono succedute al governo della città.

Ha sostenuto organizzazioni politiche e sociali considerate marginali dalla “narrazione ufficiale”. Ha aiutato progetti culturali ed editoriali poveri di risorse economiche ma ricchi di contenuti. Ha promosso festival e rassegne di case editrici e riviste indipendenti, prima fra tutte “Una montagna di libri contro il Tav”.

Presentò l’edizione che si tenne a Bologna nel 2015 a Vag 61 con queste parole: «La resistenza della Valle di Susa va piegata costi quel che costi, perché potrebbe rappresentare un pessimo esempio e incrinare la tenuta del sistema. Ed ecco una repressione feroce, con pene smisurate per punire reati di portata modesta, ammesso che siano tali.

Ciò in un paese in cui i crimini commessi da chi appartiene alle cerchie del potere restano il più delle volte impuniti, o sanzionati in maniera ridicola, o lasciati prescrivere con mille pretesti. Con gli autori dei delitti spesso onorati con cariche elargite da governi che nessuno ha eletto. Il delitto più grave – cementificare, distruggere, trasformare il bello in brutto – non va nemmeno nominato. I colpevoli hanno ragione per definizione, gli oppositori vanno trattati da criminali incalliti…

Sarebbe ora il caso di parlare dei complici di questo stato di cose. Mi limiterò a raccontare un aneddoto, riferito al 1884. A Ravenna nascevano le cooperative che sono alle origini di quella Coop impegnata a violentare le terre altrui. Il municipio ravennate indisse un appalto per l’abbattimento di una pineta che circondava la città.

Era un’occasione ghiotta per l’Associazione Operai Braccianti, che radunava i lavoratori più poveri di tutti, miserabili, disoccupati. Fu indetta un’assemblea con migliaia di partecipanti. Ebbene, i braccianti decisero compatti di rifiutare quell’appalto. Meglio la fame che rendersi complici dello sconcio del territorio.

Quella era dignità, quella era nobiltà. Dove stanno ora? Non nelle stesse mani, purtroppo. Stanno in quelle dei valsusini che contrastano la più ignobile delle prepotenze. Ed è una lotta che ci riguarda tutti. Se vincono loro, perde l’oligarchia. Se fossero sconfitti, sarebbe il crollo di un bastione contro l’autoritarismo. Difendiamolo, quel bastione. Sono in gioco la libertà, l’onore, la civiltà».

Valerio è stato un compagno dal grande cuore e uno scrittore che ci ha regalato sogni e riflessioni, con la sua produzione sempre pronta a vagare tra le storie dei movimenti sociali del passato e i legami con i movimenti del presente, con la voglia di mantenere vive relazioni con intellettuali e studiosi contemporanei, e soprattutto militanti e attiviste che non hanno ripiegato le bandiere della rivoluzione e della necessità del cambiamento.

Sosteneva che molti dei personaggi dei suoi romanzi appartenevano a una tipologia “schizoide” caratterizzata dall’asocialità più radicale: «Non è un caso: vi appartenevo anch’io, e scrivere è stata una specie di autoterapia per uscirne».

Ma da quella che poteva sembrare una scelta di autoisolamento, così come lo era stata per gran parte della sua vita quella del grande poeta e intellettuale Roberto Roversi, Valerio Evangelisti, con la sua immaginifica produzione editoriale, ha dimostrato di essere dentro e “parte in causa” nei conflitti sociali contemporanei.

La sua figura di “scrittore compagno” è stata un incomparabile punto di incontro tra generazioni diverse di lettori e lettrici, di attiviste e militanti. La sua sensibilità, la sua ricerca, la sua creatività, la sua immaginazione non sottomessa, il suo uso del linguaggio sono stati aria pura per chi, come si scriveva un tempo sui muri, “cospirare vuol dire respirare assieme”.

Diceva un vecchio volantino del ’77: “Chi in questo paese non ha desiderato l’insurrezione, è un’anima morta che nulla ha vissuto delle passioni della storia”. Non sappiamo se il compagno So Long in quel volantino ci mise le mani, ma siamo certi che Valerio Evangelisti di quel volantino si sentiva complice.

* da Zero  in Condotta

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