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Dire dove la storia andrà. Tra Dante e Marx

Un certo “ministro della cultura”, in questi giorni, ha provato a iscrivere Dante Alighieri alla “destra storica”, addirittura nel ruolo di fondatore. Si capisce che, mancando pensatori di un certo livello, in quell’area, si debba procedere a ritroso nella storia, fino a trovare qualche nome “indiscutibile” di cui tutti abbiano inteso parlare ma ben pochi ricordino cosa ha scritto (Commedia a parte, ovviamente).

Proviamo a risollevare sui binari della “normale” discussione culturale il ruolo di Dante come pensatore politico con questa nota di Roberto Fineschi, apparsa – per coincidenza dovuta agli anniversari – sui Marx Dialectical Studies.

Proprio sfortunato, quel ministro… Si vede da lontano come avesse “orecchiato” l’occasione per aprire bocca e non abbia resistito alla tentazione di profferire sciocchezze da giornalista senza cultura.

*****

1. In occasione del centenario dantesco vorrei sviluppare qualche noterella sulle sue riflessioni di teoria politica. Che, tra le istituzioni universali, il primato spetti all’imperatore piuttosto che al papa, che la loro conflittualità, lo scarso interesse del primo alle questioni “italiane” ecc. giochino effettivamente un ruolo nella governance mondiale, ai nostri occhi non appare onestamente un tema rilevante, almeno in questi termini.

Significa questo che i problemi teorici affrontati da Dante, il contesto in cui la sua riflessione si articola non abbiano niente su cui farci riflettere? Ovviamente no. Tra i temi più interessanti, a mio parere, figura la complessa relazione tra istituzioni, bene universale, e le “parti”, nonché la questione dell’efficacia del “ben fare” rispetto al corso storico.

Limitandosi ai cosiddetti canti politici (il sesto di ciascuna cantica), già nel discorso su Firenze di Ciacco – punito nel III cerchio dell’Inferno tra i golosi – emerge il tema delle “parti” (qui i guelfi bianchi e i guelfi neri) e della loro lotta intestina:

Dopo lunga tencione

verranno al sangue, e la parte selvaggia

caccerà l’altra con molta offensione

(Inferno, 64-66).

La causa del loro agire pernicioso è da ricondurre a

superbia, invidia e avarizia sono

le tre faville c’hanno i cuori accesi

(Inferno, 74-75).

Il problema tuttavia non riguarda solo chi agisce a fin di male; com’è noto, pure coloro che “a ben fare posero gli ingegni”, che non agirono per superbia, invidia o avarizia ma nella prospettiva del bene comune, saranno dannati se non avranno accettato la volontà divina e il suo piano provvidenziale.

Dante, ricordando alcuni dei protagonisti della vita politica fiorentina del suo tempo, chiede:

Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,

Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca

e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,

dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;

(Inferno, 79-82).

E Ciacco chiarisce:

Ei son tra l’anime più nere

(Inferno, 85).

Passiamo adesso al VI canto del Purgatorio; l’invettiva di Sordello – il più famoso dei trovatori italiani che Dante incontra nel secondo balzo dell’antipurgatorio tra i peccatori morti violentemente – indica nell’assenza della salda guida dell’imperatore la causa principale dell’instabilità politica della penisola italica. Essa sta a fondamento tanto delle lotte fratricide tra grandi famiglie, feudatari ecc., quanto della crisi di Roma.

La situazione è così drammatica che Sordello “osa” interrogarsi, provocatoriamente, sull’imperscrutabilità dei piani divini e sullo iato tra essi e la tragica realtà che si mostra agli occhi dell’attore politico del tempo:

E se licito m’è, o sommo Giove

che fosti in terra per noi crucifisso,

son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?

O è preparazion che ne l’abisso

del tuo consiglio fai per alcun bene

in tutto de l’accorger nostro scisso?

(Purgatorio, 118-123),

Infine, nel sesto canto del Paradiso – secondo cielo di Mercurio, dove Dante incontra gli spiriti giusti – si ha un più preciso riferimento all’errore di Guelfi e Ghibellini, i “partiti” del tempo.

Giustiniano, icona dell’impero universale, afferma che essi o lottano contro il vessillo imperiale, il “pubblico segno” – i guelfi –, o se ne appropriano indebitamente facendone un simbolo di parte e non universale – i ghibellini:

Omai puoi giudicar di quei cotali

ch’io accusai di sopra e di lor falli,

che son cagion di tutti vostri mali.

L’uno al pubblico segno i gigli gialli

oppone, e l’altro appropria quello a parte,

sì ch’è forte a veder chi più si falli.

(Paradiso, 97-102).

Seguendo le indicazioni dei passi menzionati, lo schema che si delinea pare il seguente. La responsabilità morale e politica è individuale e l’errore ha due origini gerarchicamente articolate: da una parte essi nascono dal cadere vittima del peccato, vale a dire agire per avarizia, brama di potere, invidia.

Qui, a differenza di altri passi, non viene inserita nella lista la lussuria; aggiungendo quest’ultima il quadro è un grande classico (maschilista): potere, denaro, donne.

Ciò detto, c’è però un secondo livello, vale a dire sbaglia altrettanto ed è destinato alla dannazione colui che, pur mirando a valori universali, lo fa non abbracciando al contempo la prospettiva trascendente, divina. Il “ben fare” non basta. Una prospettiva puramente laica dell’agire politico, per quanto sincera e alta, non è sufficiente.

Di fronte agli individui e alle loro responsabilità si ergono delle istituzioni universali, rispettivamente il papato e l’impero, rispetto alle quali essi hanno dei doveri spirituali e politici. Sia l’imperatore che il papa devono agire in vista del bene comune e rifuggire il particolare. Il rapporto tra universale e particolare è diretto: il secondo sta immediatamente sotto il primo e gli risponde individualmente.

Questo rapporto immediato era reso più complesso dall’esistenza dei comuni, ma essi valevano come uno, come del resto i feudi, di fronte all’imperatore, l’universale politico, che quindi aveva il dovere di raccoglierli in una unità.

Il prevalere del peccato e del vizio e l’apparente limitatezza del ben fare in ciascuno dei poli di questo rapporto portava all’inesorabile instabilità che affliggeva la realtà contemporanea. Le parti paiono dunque aggregati di individui che si uniscono nella ricerca di un particolare.

A valutare dalle numerose invettive dantesche contro Firenze, Pisa, Siena, l’Italia nel suo complesso, vari imperatori, innumerevoli papi, pare difficile dire quando un sistema così strutturato sia stato efficace nella storia… praticamente mai.

La sua teorizzazione – esposta in modo più esplicito e “scientifico” nel De Monarchia – vale dunque solo come, diciamo, ideale regolativo, come ‘dover essere’ che pone l’obiettivo di un’armonia che non esiste nel momento dato, ma che a ben vedere non è mai esistita neppure in passato, se non in dei mitici tempi andati per i quali Dante non dà riferimenti storici esatti.

Qui, inesorabilmente, viene fuori la questione del ‘piano provvidenziale’: se nell’azione umana non prevale la ragione e lo spirito, o se l’azione umana, seppur condotta in conformità a ragione e spirito, non produce un mondo giusto e pacificato, non si può che ipotizzare l’esistenza di un piano razionale e pacificato che trascenda le capacità di comprensione individuali e che si renda manifesto solo nel viaggio ultraterreno.

Il viaggio terreno non ha senso in se stesso, ma lo acquista nella prospettiva escatologica dell’aldilà; l’anima individuale, nel mondo, si salva dal mondo. Il mondo come tale gli individui non riescono a salvarlo o a governarlo; poiché la presenza di Dio si manifesta ma non si lascia comprendere pienamente, si ipotizza che ci sia un piano imperscrutabile, un governo più alto esperibile ma non concettualizzabile nella sua concretezza.

Bisogna solo fare quello che è giusto fare per salvare la propria anima, senza garanzia alcuna che ciò porti a un effettivo miglioramento della realtà dal punto di vista dell’attore vivente, ma con la fede incrollabile che questa azione abbia senso in quanto razionale e divina.

Si noti a questo punto che, se questo governo più alto ci sia – piano provvidenziale – o non ci sia – sorte o fortuna –, dal punto di vista pratico delle capacità di gestione dell’attore nel mondo non cambia niente: il mondo resta ingovernabile.

Infatti, rispetto a questa semplificata ricostruzione dello schema dantesco, la modernità ha dapprima cercato di riformulare in termini razionalistici l’idea del piano provvidenziale, per poi abbandonare l’idea stessa di un piano e lasciare il mondo a se stesso nella sua meccanicità materialistica o, addirittura, nella sua irrazionalità costitutiva, comunque senza finalità.

2. Qual è il tentativo marxiano in questo contesto? Nasce sicuramente dall’eredità hegeliana. Essa, letta laicamente, si configura come una ricostruzione a posteriori di una razionalità che si è già dispiegata nella storia mostrando di avere una finalità: lo sviluppo dello spirito non è meramente meccanico, ma segue una tendenzialità; Hegel afferma che essa è effettiva, in quanto si è mostrata nella storia come una struttura razionale che la razionalità stessa, esistente in forma cosciente nel filosofo, è in grado di comprendere e spiegare.

Certo, a giudicare dalle sue lezioni sulla filosofia della storia, neppure in passato i momenti storici in cui ‘il reale’ è stato ‘razionale’ sono stati poi molti, ma comunque Hegel formula livelli di razionalità sostanziale – le epoche della storia nella Filosofia del diritto – che hanno delle linee di sviluppo che, a posteriori, si lasciano ricostruire come svolgimento finalistico dello spirito. Questa comprensione tuttavia ci dice dov’è andata la storia e perché [1], ma non ci dice dove andrà.

Qui arriva l’ambizioso Marx: dire dove la storia andrà. È un’ambizione piena di problemi e probabilmente non si lascia sciogliere nell’ottimistica autoaffermazione di una società futura che non solo nasce come potenzialità, ma che addirittura si realizza scalzando più o meno necessariamente quella capitalistica.

Questa filosofia della storia in senso fortissimo è stata criticata da ogni versante, anche all’interno dello stesso marxismo e variamente riformulata, fino agli estremi di un ritorno al rapporto dell’individuo/individui con la contingenza (o il caso che dir si voglia). Credo che questa sia una strada che finisce per perdere la sostanza del materialismo storico.

A mio modo di vedere la soluzione intermedia la si trova nella capacità marxiana di teorizzare la finalità attiva nel presente: non tanto di dire che ci sarà necessariamente il passaggio a una società futura, ma nel mostrare come il presente abbia delle linee di tendenza ancora non propriamente in atto, non completamente sviluppate.

La teoria marxiana permette di comprenderle e di indicare verso quali sviluppi si tenderà all’interno del modo di produzione capitalistico, affinché esso si realizzi pienamente. Non è una finalità escatologica: non è né trascendente (Dante) né ricostruibile solo rispetto al passato (Hegel), ma formulata a partire dalla comprensione scientifica del presente e rivolta al presente (nel senso dello sviluppo dell’epoca presente, non del necessario passaggio a un’epoca futura).

Non è quindi neppure una filosofia della storia ‘forte’ come quella della tradizione marxista, ma non è neppure il ritorno a un destrutturato rapporto tra gli individui e il caso (o pochissimo strutturato sulla base di una ricostruzione delle contingenze via via date).

In base alla comprensione di queste tendenzialità si può cercare di formulare un’azione storica e politica razionale non in virtù di una fede incrollabile o di un’intuizione felice a proposito del corso della storia nel momento corrente, ma in virtù di leggi e tendenze che configurano soggetti e una loro azione possibile [2].

Con questo, a Marx sarebbe riuscita la magia di trasformare la filosofia (o la teologia) in una scienza non dell’aldilà o del dopo, ma dell’ora e, quindi, forse, anche in uno strumento pratico per cambiare il mondo [3].

* da Marx Dialectical Studies

 

Note:

[1] Ciò non significa che la storia sia finita ma che è compiuta fino a questo momento; ciò anzi indica l’alba di una nuova epoca dello spirito della quale però non si può dire niente prima che essa stessa si sia compiuta.

[2] In questo contesto è un tema particolarmente delicato il rapporto tra il tutto e le parti, ovvero tra individui, soggetti collettivi, totalità che, evidentemente si articola in maniera assai diversa rispetto a quanto accadeva in Dante. Il nodo della questione, che qui evidentemente non può essere trattata, è evitare la riduzione dei soggetti storici a meri individui (l’acme dell’ideologia borghese che si ripresenta in varie salse libertarie anche a sinistra) o a generici processi transindividuali (l’irrazionalismo delle non meglio definite ere) e/o alla loro “narrazione”.

[3] Alcune ulteriori considerazioni su questo punto nel mio Note provvisorie per una Teoria della Rivoluzione.

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1 Commento


  • Eros Barone

    Se di qualcosa occorre essere grati al ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, per la sua recente affermazione sul carattere “di destra” della ideologia dantesca, è senza ombra di dubbio il merito, che gli va pienamente riconosciuto, di aver riproposto all’attenzione del Paese il significato profondo della personalità politico-ideologica del “sommo poeta” dopo un anniversario, quello del 2021, che, se si escludono le commemorazioni accademiche, è passato sulla pubblica opinione di questo Paese come l’acqua sul marmo. Ma si leggano le esatte parole pronunciate dal ministro: «Io ritengo che il fondatore – so di fare un’affermazione molto forte – del pensiero di destra nel nostro Paese sia Dante Alighieri, perché quella visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in Dante Alighieri, ma anche la sua costruzione politica, che (c’è) in saggi diversi dalla Divina Commedia, sia profondamente di destra». Inevitabile che i ceti semicolti, che affollano i canali della comunicazione sociale e, in particolare, la Rete, siano insorti contro le “fesserie” del ministro, e che i social siano pieni di commenti traboccanti di ironia. Tuttavia, a mio sommesso avviso, se un errore può essere rimproverato a Sangiuliano è quello di aver ridotto la sua tesi, per così dire, “ad usum Delphini”, e soprattutto di averla data in pasto ad una platea massmediatica completamente digiuna di critica letteraria. In un altro contesto, egli avrebbe potuto dire che già il marxista Edoardo Sanguineti aveva dissertato su “Dante reazionario” in un saggio del 1992, ove assume un nitido risalto non solo il fatto che Dante è un ammiratore della Firenze antica, come risulta dall’elogio di essa che fa pronunziare al suo avo Cacciaguida, ma che l’Alighieri, vagheggiando un impero universale in un’epoca che, a seconda delle varie regioni d’Europa, pone o sviluppa le premesse delle monarchie territoriali, non comprende la dinamica della storia che determina l’ascesa della borghesia mercantile, cioè della classe che è di tali monarchie la principale alleata. Insomma, non si può non essere d’accordo con Sangiuliano: Dante nella Commedia guarda costantemente al passato e semmai, dopo averlo idealizzato, lo proietta nel futuro, ricavandone un criterio di valutazione fortemente polemico verso la sua contemporaneità, in cui la nostalgia e l’utopia si trasfondono l’una nell’altra. Infine va detto, per non incorrere in un grossolano anacronismo, che qui “reazionario” è un termine che designa una categoria transtemporale, che non deve essere perciò riferita strettamente al 1789 e alla Rivoluzione francese, ossia agli eventi storici cui essa deve la propria specifica genesi. In conclusione, se si prescinde dalla sua eccessiva semplificazione e dall’uso improprio di “destra” invece di “reazionario”, Sangiuliano ha perfettamente ragione, mentre le reazioni che si sono levate in séguito alla sua affermazione lasciano il tempo che trovano e, al massimo, documentano la sprovvedutezza di chi le ha espresse.

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