Figlio di madre mulatta e di un predicatore itinerante seguace di Marcus Garvey [1], Malcolm Little attraversa in gioventù tutte le fasi paradigmatiche della vita di un afroamericano del suo tempo: vive fino ai sedici anni nel contesto rurale del Nebraska, che pur non essendo sottoposto alla dura segregazione del Sud, è comunque un ambiente permeato del pregiudizio.
È lo stesso Malcolm a renderne l’idea ricordando come, pur essendo uno dei migliori studenti della sua scuola, le sue aspettative nel divenire avvocato vennero frustrate sul nascere per il colore della pelle:
«Mi ricordo che il professor Ostrowsky si mostrò sorpreso, […] mi disse – Malcolm, nella vita una delle principali virtù è il senso realistico. Non mi fraintendere. Sai che qui tutti abbiamo simpatia per te, ma devi considerare realisticamente che sei un nigger. Quella di avvocato non è una carriera realistica per un nigger. Devi pensare a qualche altro mestiere che puoi fare […] Perché non decidi di fare il falegname? – […] In seguito, più ripensavo a quello che mi aveva detto e più mi sentivo insicuro. Quelle parole continuarono a girarmi per la mente» [2].
All’età di sei anni rimane orfano di padre, ucciso in circostanze mai chiarite presumibilmente dalla Legione Nera [3]. La Famiglia Little viene assorbita nella fascia sociale del sottoproletariato nero, dipendente dall’assistenza pubblica e vessata dall’invadenza dei servizi sociali.
Il razzismo americano si fa palpabile, anche se non viene immediatamente compreso, nell’atteggiamento dello stato verso di loro: gli operatori statali si occupano della famiglia come fossero loro padroni, minano l’autostima della madre e operano divisioni tra i figli, infine disgregano il nucleo familiare, mandando Malcolm in una casa correttiva e la madre, ormai mentalmente instabile, in un ospedale psichiatrico [4].
Negli anni dell’adolescenza, si trasferisce a Boston ed entra a contatto, divenendone parte, con l’ambiente del ghetto e della comunità nera urbana: i lavori proletari e sottopagati quali il lustrascarpe ed il cameriere (alcune delle poche mansioni riservate ai niggers d’altronde); i vizi diffusi del gioco d’azzardo, dell’alcolismo e degli stupefacenti; le attività criminali di spaccio, prostituzione, rapina ed estorsione.
Soprattutto, fa esperienza di quello che poi definirà il lavaggio del cervello dei bianchi: l’emulazione dei modelli e dei valori bianchi, il rifiuto anche corporale della propria soggettività razziale tramite lo stiramento dei capelli, l’attrazione morbosa verso le donne bianche.
Quella del ghetto è una condizione di totale alienazione, economica e psicologica, violenta e autodistruttiva; è il ritratto della situazione coloniale di Fanon [5], ma senza i caschi e i fucili dell’esercito occupante, non ancora, perlomeno.
La comunità è frantumata a causa della povertà endemica, costretta alla mera sopravvivenza che spezza ogni legame solidale per volgersi con fare predatorio verso se stessa rimanendo però china e reverente verso i rappresentanti della società bianca, siano essi poliziotti, commercianti o amministratori, espletando così quel complesso di inferiorità che è la prima arma dell’oppressore [6].
Tutto ciò Malcolm lo vive sulla propria pelle in modo attivo ma non cosciente. È nel carcere di Norfolk, condannato a dieci anni di prigione per rapina, che inizia a scoprire e analizzare le dinamiche della razza e dell’oppressione.
Sono i fratelli di sangue a offrirgli lo spunto di partenza e l’islamismo di Elijah Muhammad, di cui sono ora seguaci, a fornirne la bussola interpretativa:
l’Islam è la religione naturale dell’uomo nero, prima e migliore razza umana apparsa sulla terra, l’uomo bianco è un diavolo, artificialmente creato in tempi antichi dal perfido Yacub per sottomettere le tribù nere. Il «molto onorevole Elijah Muhammad» è un eletto che ha ricevuto la verità divina direttamente da Allah nelle vesti del venditore ambulante di sete W.D. Fard per risvegliare e guidare alla salvezza i neri d’America. Ogni cosa è già scritta, ogni cosa è comandata da Allah per bocca del suo Profeta il cui giudizio, la cui parola sono insindacabili, la cui guida e integrità è fuori discussione [7].
A grandi linee è questa la dottrina della Nation of Islam (Noi) di Muhammad, un’organizzazione religiosa di stampo comunitario e millenarista, rigidamente indottrinata e normatizzata secondo un ibrido di Islam, elementi esoterici, numerologia, nazionalismo africano e mitologie reinterpretate o inventate dal nulla.
Un islamismo senza corrispettivi né legami con la comunità musulmana mondiale o americana; infine sconfessato da Malcolm, come da molti altri black muslims:
«In seguito avrei saputo che le favole di Elijah Muhammad avevano fatto infuriare i musulmani d’Oriente. Quando andai alla Mecca volli ricordare ad essi che era colpa loro poiché non avevano fatto abbastanza per far conoscere in Occidente la vera dottrina dell’Islam. Il loro silenzio aveva permesso l’esistenza di un vuoto in cui poteva inserirsi qualsiasi falso profeta e imbroglione e condurli sulla strada sbagliata» [8].
Nonostante ciò, al giovane carcerato e vorace lettore, gli insegnamenti di Muhammad appaiono letteralmente come una folgorazione paolina [9].
Inizia un percorso di redenzione fatto di letture di ogni tipo, autocoscienza, preghiera e scoperta della storia del popolo afroamericano: a Maometto si affiancano Nat Turner, Jhon Brown, Tuissant Louverture [10]; eroi di un’epica nera emersi dall’abisso della schiavitù.
È il 1952 e il movimento per i diritti civili non ha ancora spiccato il volo, quando esce di prigione per buona condotta. L’ex trafficante è ora pronto a diventare un muslim a tutti gli effetti.
Rinnega il cognome Little, marchio di schiavitù, per la generica X di ogni musulmano nero; aderisce prontamente alla Noi che al suo ingresso, al netto di ventun’anni di storia, è ancora una piccola setta minoritaria con due sole moschee.
Sarà proprio Malcolm, con il beneplacito di Elijah Muhammad a trasformarla radicalmente in una macchina militante di propaganda, proselitismo e organizzazione collettiva. Nei suoi dodici anni di attività come Imam del Tempio numero sette di Harlem, New York, sovrintende alla costruzione di numerose moschee, prepara i quadri dirigenti, fonda il giornale ufficiale, sviluppa i programmi sociali e le attività economiche della Nation.
Soprattutto rilascia interviste, partecipa a talk show, tiene conferenze ovunque possibile divenendo uno dei volti più noti della montante marea nera; al momento della sua espulsione, lascia una Noi ormai divenuta una delle più importanti, estese e ricche organizzazioni afroamericane.
È singolare che, malgrado il disinteresse della Noi per la lotta politica, quest’uomo diventi una delle voci più influenti della protesta.
Ciò che ne fa una star è la sua retorica infiammata, schietta e polemica; Malcolm X non fa parte di quella microborghesia nera integrazionista, è un negro del ghetto formatosi in prigione e non ne fa mistero, anzi, ne fa un tratto distintivo del suo stile, sa fare scandalo e ne approfitta per portare al grande pubblico una filosofia di cui rimarrà quasi l’unico interprete fino alla morte.
Critica duramente i leader neri moderati per la loro disponibilità a trattare col diavolo bianco, condanna senza appello l’America razzista e tirannica; rifiuta a piè pari l’idea di un’integrazione con chi ha tenuto per secoli il proprio popolo in catene, respinge l’idea cristiana della nonviolenza, tattica principale del movimento integrazionista:
«l’unico modo che hanno i neri di salvarsi da questa società non è quello di integrarsi in essa, ma quello di separarsi da essa, in una terra che sia nostra, dove possiamo riformare noi stessi […] Il più grande miracolo del cristianesimo qui in America è che, nelle mai dei cristiani bianchi, il negro non è diventato violento.
È un miracolo se ventidue milioni di negri non si sono ribellati ai loro oppressori. […] Il miracolo è che i leader neri, queste marionette dell’uomo bianco, i pastori e i negri colti carichi di lauree e tutti gli altri cui è stato permesso di sfruttare a sangue i loro poveri fratelli, siano riusciti a tenere a freno fino ad oggi le masse negre […]» [11].
L’Imam del ghetto predica una riscoperta della propria specificità culturale, religiosa e razziale specificatamente negra; propone una separazione che veda una terra per il popolo nero dove sperimentare le proprie potenzialità, rivendica il diritto per ogni nero a difendersi armi in pugno contro la violenza razzista, indica una disciplina morale per ripulire il nigger da droga e vizi.
È un nazionalismo radicale ispirato dalla religione musulmana che mette alla berlina non solo il movimento per l’integrazione, di cui peraltro non nega l’importanza in toto, ma dell’intero sistema americano bollato come corrotto e malsano della sua intera cultura, verso il quale si rivolgevano le attenzioni di molti dei leader neri protagonisti della scena [12].
Sta emergendo, dai suoi discorsi, una critica molto più profonda e prolifica che ricorda (pur non esplicitandola mai) una certa vicinanza alla negritudine di Senghor o Cesaire [13]. La riscoperta di una radice africana schiude orizzonti ben più ampi della semplice richiesta di diritti, il rifiuto dell’integrazionismo si presta alla formulazione di istanze politiche ben più rivoluzionarie della sola disgregazione della società.
Eppure tutto ciò non è recepito nell’immediato: il resto del movimento, dalla Naacp al Core, lo bolla come fanatico, i media ne fanno paradossalmente uno spauracchio di violenza e razzismo, dal canto suo la Noi è troppo conservatrice e arroccata sulla difesa dei privilegi che sta maturando per interessarsi alla lotta sociale e Malcolm troppo chino alla disciplina ed alla figura di Elijah Muhammad per spingersi oltre.
È a partire dal 1963 che, con i contrasti e le gelosie che sorgono all’interno della Nation, nonché con la scoperta della condotta immorale ed ipocrita del Profeta Muhammad, l’imam più famoso della Noi verrà messo a margine: prima col siluramento dal giornale di sua fondazione, poi col divieto di apparizione in pubblico, infine con l’impedimento di insegnare nella propria moschea.
Iniziano a circolare voci sulla possibilità della sua espulsione definitiva, finanche della sua eliminazione fisica. Malcolm X anticiperà la sua epurazione e si dimette con la dichiarata intenzione di fondare una sua organizzazione religiosa più aperta e più interessata alle condizioni reali del popolo nero.
Si apre così, drammaticamente, l’ultima e più feconda fase della sua vita politica destinata a stravolgere anche la cultura e la protesta afroamericane del tempo.
Nello stesso anno fonda la Muslim Mosque Inc., una struttura religiosa che persegua il rinnovamento morale dei neri americani attraverso l’Islam, ma stavolta l’accento è posto sulla lotta politica e sulle condizioni di vita della comunità. La Mosque, nel chiaro intento progressista, è aperta alla collaborazione di ogni nero che ne condivida le intenzioni; si fa anche aperta al sostegno, finanziario ma mai diretto e personale, dei bianchi.
Poco più tardi, come strumento laico e prettamente politico, fonda l’Organization of Afro-American Unity (Oaau), sulla falsa riga dell’omonima Organization of African Unity, con l’obbiettivo esplicito di internazionalizzare il problema dei neri americani portandolo al giudizio delle Nazioni Unite sfruttando l’appoggio offerto dalle nazioni di recente indipendenza e dal movimento di liberazione che scuote il Terzo Mondo [14].
Lo slittamento di Malcolm su di un piano pienamente politico e rivoluzionario è un momento fondamentale non solo per lui, ma per l’intero movimento di protesta: è il precedente che fornirà le basi al prossimo Black Power.
Il cambiamento avviene in virtù di due viaggi successivi alla rottura con la Noi, nel 1964: in una prima occasione si reca per un mese e mezzo in Medio Oriente alla Mecca per l’Hijaz, il tradizionale pellegrinaggio musulmano, successivamente per altre sei settimane in un tour per l’Africa dove tiene conferenze e intreccia rapporti con le dirigenze delle nazioni indipendenti.
Alla Mecca, l’atmosfera di condivisione fraterna e di rispetto reciproco tra pellegrini, incrina le sue ferree condizioni:
«L’espressione uomo bianco, così come usata comunemente, si riferisce solo in misura secondaria al colore della pelle e riguarda invece in primo luogo gli atteggiamenti e le azioni. In America uomo bianco voleva dire certi atteggiamenti e certe azioni specifiche nei confronti del negro e di tutta la restante popolazione di colore, ma nel mondo musulmano, avevo potuto constatare che gli uomini con la pelle bianca si comportavano, nei confronti degli altri, più fraternamente di chiunque avessi mai conosciuto.
Quella mattina segna l’inizio di un mutamento radicale in tutto il mio modo di considerare i bianchi» [15].
Il diavolo bianco, dei suoi innumerevoli discorsi negli ultimi dodici anni, perde finalmente i suoi orpelli demoniaci e si mostra per quello che realmente è: un soggetto sociale all’interno di un sistema-nazione fondato sull’esclusione e la violenza.
Non è il bianco in quanto tale a essere un nemico o un male, ma la cultura bianca intesa come senso di superiorità messo a giustificazione di un potere predatorio, come insieme di valori tesi a evidenziare l’inferiorità non solo dei neri ai bianchi, ma anche dei bianchi poveri a quelli ricchi.
Dallo scontro razziale si è passati allo scontro politico: il nemico, ora, è l’apparato di potere.
Se l’Islam fornisce a Malcolm il terreno di evoluzione in materia di razze, è anche in virtù dell’essere la religione più diffusa al mondo dopo il cristianesimo; più precisamente è il credo radicato in quella parte di mondo, Asia Africa e Medio Oriente che si sta ora sollevando come un blocco omogeneo contro il dominio imperialista dell’America e dei suoi alleati, tutti bianchi, cristiani e capitalisti.
È naturale quindi che anche il Corano subisca in questa fase una profonda revisione: non più una verità di pochi eletti o una religione «naturale» dei neri; ma il piano comune su cui si possa unire un’umanità rinnovata che, superate le linee del colore, poggi sulle basi dell’uguaglianza e del mutuo rispetto.
È anche uno di quei caratteri attorno cui si possono polarizzare e unire i neri e gli oppressi tutti nell’imminente scontro con lo Zio Sam: è un Islam ormai chiaramente inclusivo, universalista e metapolitico; agente di affrancamento [16].
Non è solo l’aspetto religioso o razziale quello che viene intaccato, ma la strategia e gli obbiettivi stessi della lotta: messa in correlazione con gli eventi che sconvolgono il continente africano e non solo, la questione afroamericana si inserisce perfettamente in una cornice che assume il profilo di una lotta globale e internazionalista.
Si traccia un solco, o una trincea, non tanto tra razze o nazionalità ma tra due modi opposti e inconciliabili di intendere il mondo e la vita.
Da un lato l’imperialismo con il suo lascito di spoliazione, devastazione e morte di cui gli Usa sono diventati l’emblema; dall’altro l’autodeterminazione, il diritto collettivo e la lotta popolare dei popoli subalterni, che si identifica nei Mau Mau kenioti, nei Fellah algerini, nei Barbudos cubani o nei Vietcong dell’Indocina.
Nei due viaggi all’estero, specialmente nel tour africano:
«Ebbi la fortuna di vivere a bordo dell’Isis con i capi dei movimenti di liberazione, perché rappresentavo un movimento di liberazione afro-americano, i combattenti per la libertà afroamericana. Eravamo tutti lì a bordo. Questo mi diede l’opportunità di studiare, di ascoltare e studiare il tipo di persone coinvolte nella lotta, i loro pensieri, i loro obbiettivi, le loro intenzioni e i loro metodi.
Questo mi aprì gli occhi su molte cose. Credo di essere riuscito a rubare alcune idee che hanno usato, tattiche e strategie che saranno assai efficaci nella vostra e nella mia lotta per la libertà qui in questo paese. […]
Mentre viaggiavo ebbi occasione di parlare con il presidente Nasser, quando ero in Egitto […] con il presidente Neyere per tre ore, mentre ero a Dar Es Salaam. […] Quando ero in Nigeria ebbi anche l’opportunità di parlare col presidente Azikiwe a Lagos. E il presidente Nkrumah, che continua ad aggiornarsi; egli può dirvi tante di quelle cose su Harlem da farvi pensare che sia lì all’angolo con voi. […]
Poi passai tre giorni nella casa sull’oceano del presidente Sekou Touré a Conarky e scoprii che quello è un uomo che vive tenendosi bene informato. È molto sensibile ai problemi della nostra gente in questo paese e mi ha anche ottimamente consigliato riguardo alla loro soluzione.
In Tanzania fui così fortunato da volare sullo stesso aeroplano con il primo ministro Jomo Kenyatta e il primo ministro Milton Obote» [17].
Malcolm X non è più solo il negro più famoso d’America, ma l’unico leader afroamericano con una piena visione transnazionale del problema, riconosciuto dai Capi di Stato e dai movimenti della decolonizzazione, in grado di sedersi come legittimo rappresentante in assemblee internazionali di nazioni indipendenti. La sua è ora «una minaccia diretta contro tutto il sistema razzista internazionale» [18].
La fondazione dell’Oaau è infatti non solo funzionale all’azione politica, che la Mosque non può garantire del tutto, ma è lo strumento organizzativo cardine della nuova linea del nazionalismo nero che Malcolm sta delineando, pur non avendone ancora una visione strategica completamente definita.
Finora il movimento dei diritti civili ha sempre interpretato la questione afroamericana come un problema essenzialmente interno agli Stati Uniti, legato all’esclusione di una fascia di popolazione dalla partecipazione completa alla vita politica e sociale del paese; le sue organizzazioni hanno simpatizzato con la lotta contro l’apartheid in Sud Africa per ovvie ragioni, ma mai si sono interessate a stringere legami o portare il piano del conflitto su di un livello più ampio di quello strettamente nazionale [19].
Adesso si opera invece un salto di qualità di primaria importanza: Malcolm cambia le regole del gioco in modo irreversibile rispetto ad ogni istanza precedente. Si affaccia ora, per la prima volta, alla vista dei giovani militanti neri un’Africa con cui confrontarsi che non è semplicemente la propria origine ancestrale e romantica cui fare ritorno, ma un’entità fisica e politica forte, ricca di suggestioni e insegnamenti.
Quello di Malcolm è una sorta di Pan-Africanismo radicale e rivoluzionario che vede i neri americani come quella parte di Terzo Mondo colonizzato posizionata nel ventre della bestia e messa in condizione strategica di lottare dall’interno contro la potenza imperialista per eccellenza.
Lottare per la comunità afroamericana vuol dire rendere più facile il processo d’indipendenza degli africani, viceversa, appoggiare quest’ultimi significa ottenere un alleato preziosissimo nella lotta per la propria emancipazione; ed è proprio in quest’ottica che intende portare la questione afroamericana a giudizio dell’Onu, sottraendola alla semplice contrattazione tra borghesia nera e Washington e ponendola su un piano di dibattito internazionale.
Sul piano del nazionalismo nero, conscia degli insegnamenti della Guinea, del Congo, del Ghana e degli altri paesi amici, la Oaau intende mettere in neri d’America sul terreno di una lotta che renda la comunità autonoma nei confronti dell’iniziativa politica bianca. Non è né l’integrazionismo di principio né il separatismo territoriale e nemmeno un utopico ritorno di massa in Africa.
La comunità nera deve combattere per i suoi diritti materiali di base: alloggi decenti, un’istruzione dignitosa che offra al nero una conoscenza del contribuito offerto dal suo popolo al progresso della nazione, una politica del lavoro equa e non discriminatoria, rappresentanti politici del popolo nero responsabili di fronte alla propria comunità, progresso economico e materiale dei ghetti, difesa attiva dalla brutalità poliziesca che altro non è che la dimostrazione ultima della condizione coloniale dei neri d’America.
Andando più sul pratico, Malcolm X non è intenzionato a dare battaglia per desegregare le scuole e mandare i figli dei neri nelle classi con i figli bianchi, ma impegnarsi affinché si possa insegnare nelle scuole il ruolo del popolo nero nella Storia, trasmesso da insegnanti neri a studenti neri; non si vuole ottenere il diritto di voto in quanto tale ma come strumento per creare una classe dirigente nera in grado di supportare le istanze della propria comunità e da esse controllata.
Non si vuole più entrare come cittadini nella società americana, la si vuole trasformare dalle fondamenta.
Che tali cambiamenti avvengano in un contesto separato o misto è di poca importanza, la separazione è semmai necessaria in un primo momento agli afroamericani per scoprire le proprie potenzialità e organizzare le proprie forze; tant’è che l’obbiettivo principale dell’Oaau, accanto all’internazionalizzazione del problema tramite l’Onu, è la costruzione delle strutture economiche e politiche della comunità quali basi per l’esercizio di un reale potere d’azione.
Primo fondamentale passo in questo senso è l’avvio di una campagna di educazione e registrazione al voto[20] che metta in grado i neri di votare e candidare propri rappresentanti indipendenti dalle macchine partitiche tradizionali.
Marcus Garvey, Elijah Muhammad o M.L. King potrebbero certamente trovare dei punti di comunanza con un percorso del genere, e certamente i loro insegnamenti avranno contribuito alla sua elaborazione, ma in linea generale ne sono del tutto avulsi, siamo ormai molto più vicini a Fidel Castro, Patrice Lumumba o Kwame Nkrumah.
È emerso ormai un nazionalismo nero dai tratti umanisti e proto-marxisti, radicale nelle sue rivendicazioni, potente nella sua capacità di suscitare l’approvazione dei ghetti, minaccioso nel suo essere recepito dalle elites bianche e nere.
A dispetto della forza evocativa della nuova visione politica di Malcolm X, i suoi successi in termini organizzativi sono assai blandi: la sua immagine pubblica è ancora troppo legata all’ormai sepolta figura di portavoce della Noi, la rottura con quest’ultima gli ha alienato sicuramente parte del suo seguito (nonostante abbia attirato un nuovo uditorio) mentre la sua tesi internazionalista lo rende comunque spiacevole ai leader del movimento; le sue due nuove organizzazioni sono ancora troppo giovani e fragili per essere un punto di riferimento credibile attorno cui convogliare le masse.
Inoltre il suo ultimo periodo di vita, a partire dallo screzio con Muhammad, è contrassegnato da difficoltà economiche e soprattutto dal costante clima di paranoia e intimidazione dovuto alle voci e ai segnali di minaccia da parte dei black muslims che si fanno sempre più frequenti dal momento della scissione con la Noi, troppo gelosa della propria egemonia.
Il tentativo di trovare una nuova strada alla liberazione per gli afroamericani è intralciato ad ogni passo da alcuni stessi neri.
Le minacce di morte infine si fanno sempre più concrete e pesanti: presenze sospette di muslims negli alberghi dove alloggia per le sue audizioni, un inseguimento in auto, un attentato incendiario che distrugge la sua casa nottetempo agli inizi del febbraio 1965; la famiglia si salva per miracolo.
Giorni più tardi, il 21 febbraio, Malcolm è appena salito sul patio della Audubon Ballroom di New York per uno degli incontri pubblici della Oaau, né all’interno né all’esterno della sala è presente la polizia, cui Malcolm e l’Oaau stessi hanno fatto richiesta di protezione dopo gli ultimi avvenimenti, né sono previste perquisizioni dei presenti a opera del servizio d’ordine.
Ha appena iniziato il suo discorso quando viene centrato dal fuoco di pistole e fucili mitragliatori. Malcolm X cade ucciso da sedici pallottole sparate da cinque sicari mimetizzati nella folla.
Nel trambusto generale solo uno dei killer viene catturato dalla folla e salvato dal linciaggio da una pattuglia di passaggio. È solo dopo alcuni giorni di un’indagine dai tratti opachi e grossolani che si viene a sapere l’identità dell’aggressore: è Talmar Hayer, membro della Nation Of Islam, come anche gli altri tre accusati [21].
L’organizzazione di cui era stato imam e che aveva reso potente alla fine lo aveva eliminato brutalmente per spicciola egemonia politica. Anni dopo le carte dell’Fbi rivelarono l’attenzione dell’agenzia governativa sull’attività di Malcolm e proiettarono ombre inquietanti sul suo omicidio; ma ormai il movimento nero era stato soffocato e i morti erano aumentati tragicamente.
Per ironia della storia Malcolm X condivise una parabola molto simile ad uno dei suoi modelli preferiti, Patrice Lumumba: entrambi raggiunsero la fama durante un lungo apprendistato di impegno sociale che di per sé non gli avrebbe garantito alcuno sbocco rivoluzionario.
Approdarono alla maturità politica con un panafricanismo antimperialista poco prima di essere stroncati violentemente dai propri avversari; troppo presto per poter realizzare i propri progetti, ma abbastanza in tempo per segnare un punto di non ritorno nella lotta tra impero e colonie, un precedente non ignorabile per chi sarebbe venuto dopo.
Senza la guida del loro fondatore sia la Mmi che l’Oaau sbandarono rapidamente e si sciolsero come neve al sole, non fu così per le sue intuizioni né per il suo esempio che ormai avevano attecchito tanto sui giovani militanti del movimento quanto sui proletari del ghetto sempre più combattivi.
Le sue previsioni sull’acutizzarsi del conflitto stavano per avverarsi: era il 1965 e di lì a qualche mese il riot di Watts avrebbe messo una pietra tombale sull’integrazionismo non violento e un anno più tardi Carmichael dello Sncc e Huey P. Newton del Black Panther Party ne avrebbero scritto l’epitaffio.
Iniziava l’epoca del Black Power.
Note
[1] Marcus Garvey (1887-1940), giamaicano di origine, fondatore della United Negro Improvement Association (Unia) fu tra i più influenti interpreti del nazionalismo nero, impegnato nell’opera di ritorno in massa in Africa dei neri americani.
[2] M. X, Autobiografia, Einaudi, Torino 1967, p. 44.
[3] Gruppo suprematista bianco, grossomodo omologo del Ku Klux Klan, autore di linciaggi ed omicidi a sfondo razziale ed antioperaio.
[4] M. X, Autobiografia, op. cit.
[5] F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 1962.
[6] M. X, Autobiografia, op. cit.
[7] Ivi.
[8] Ivi, p. 201.
[9] Ibidem.
[10] Nat Turner fu uno schiavo nero della Virginia che nell’estate del 1831 diede luogo a una rivolta di schiavi che sterminarono i bianchi della zona e liberarono diverse piantagioni, ma furono soppressi violentemente nel volgere di breve tempo. Jhon Brown, commerciante bianco tentò, una ventina d’anni dopo Turner e sempre in Virginia, di dare vita a una vasta rivolta di schiavi; attaccò l’arsenale di Harpers Ferry con un piccolo esercitò, anche questa rivolta fu sedata nel sangue ed i suoi capi giustiziati. Tuissant Louverture: schiavo letterato e primo presidente di Haiti dopo che la rivoluzione di schiavi del 1801 rese l’isola territorio indipendente.
[11] Ivi, pp. 281-290.
[12] M. X, Ultimi discorsi, Einaudi, Torino 1968.
[13] C. Aimé, Discorso sul colonialismo, ombre corte, Verona 2014.
[14] M. X, Ultimi discorsi, op. cit.
[15] M. X, Autobiografia, op. cit.
[16] Ivi.
[17] M. X, Con ogni mezzo necessario, ShaKe Edizioni, Milano 2007, pp. 168-172.
[18] Ivi, p. 137.
[19] B. Cartosio, Senza illusioni. I neri negli Stati Uniti dagli anni sessanta alla rivolta di Los Angeles, Shake Edizioni, Milano 1995.
[20] Negli Usa non è automatico l’accesso al voto, è invece subordinato a una esplicita richiesta da parte del cittadino di essere inserito all’interno delle liste elettorali. Storicamente la comunità nera ha dovuto affrontare non solo l’esclusione dal voto tout court ma anche l’impedimento violento alla registrazione nelle liste da parte dei suprematisti bianchi e talvolta dalle stesse amministrazioni.
[21] L’episodio dell’omicidio, quasi in presa diretta, è narrato da Alex Haley nell Epilogo all’ Autobiogafia di Malcolm X; a ricostruire la vicenda nei suoi contorni più generali è lo storico Manning Marable in Malcolm X: a life of reinvention, Viking Press, New York, 2011.
* da Machina/Derive Approdi
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
Michele P.
C’é tutto un fiorire di leggende, alcune fantasiose al limite del complottismo, sugli ultimi anni di Malcom X.
Anche il film uscito un paio di anni fa chiarisce poco.
Grazie per aver messo nero su bianco (jeu des mots … sic!) una serie di fatti poco noti.
Saluti.