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Gli anarchici di Africo e le persecuzioni degli anni 70

Se tanti politici e giornalisti fossero a conoscenza anche di un minimo di storia, o delle storie personali di decine di compagni che contro la Mafia hanno perso anche la vita, si capirebbe facilmente che lo Stato, per mostrificare gli anarchici, sta pescando nel suo album di famiglia, che annovera tra gli altri anche i mafiosi e le stragi – quelle vere, non quella inesistente imputata ad Alfredo Cospito – col sangue degli innocenti. Pubblichiamo un’altra “storia nostra”, di compagni che si sono opposti alla malavita  come quella di Rocco Palamara e degli anarchici di Africo.

La storia di Rocco Palamara, l’anarchico di Africo che venne indagato e processato quando provò ad affrontare la ‘ndrangheta della locride a viso aperto: osteggiato da clero, polizia e magistratura, venne condannato solo perché oso difendersi, sparando, quando i mafiosi provarono a ucciderlo.

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Dal libro  “ AFRICO” di Corrado Staiano del ’78,  riportiamo alcuni passaggi che ci fotografano la realtà calabrese negli anni 70:

……”Ad Africo le antiche lotte degli anni ’50 sono passate , in una continuità naturale , in eredità ai figli. i giovani del Circolo rivoluzionario e poi del collettivo autonomo operai e studenti si sentono protagonisti , provocano subito reazioni perché distruggono le regole del gioco e infastidiscono anche i partiti della sinistra tradizionale.
Testimonianza di Rocco Palamara “…………Continuammo le lotte di sempre, l’occupazione dei binari della ferrovia per conquistare la stazione, le lotte per la forestale, per i cantieri boschivi, per le raccoglitrici di gelsomini, per il doposcuola gratuito per i bambini, per la casa. L’amministrazione, comunista fino al 1969, fu conquistata nel 1970 da una lista civica costituita in gran parte da mafiosi che qui si dice ‘ndrangheta , la società dei dritti, che sarebbe la mafia calabrese, e da lacchè.

C’erano state proteste e scontenti per la precedente amministrazione comunista: le forze più sane dei compagni sono costrette da sempre ad emigrare buona parte dell’anno e molti , in occasione delle votazioni, non tornarono per protesta. Pure io che mi trovavo a Milano a lavorare non sono tornato a votare. Hanno vinto per pochi voti, credo sette, e molti imbrogli: votarono una ventina di suore venute da fuori, ci furono sulle famiglie pressioni di genere mafioso. Tutto il peso della lotta, ormai, era sostenuto dal circolo:………

Il primo motivo di scontro con il Comune fu a proposito dell’acqua: saltata la vecchia rete idrica, i tubi erano scoperti, una ditta romana faceva da copertura a un’altra ditta di casa e non iniziava i lavori. C’era pericolo di epidemia e noi denunciammo ciò che stava accadendo, attaccammo il prete — don Giovanni Stilo che muoveva tutti i fili. nda — , la giunta comunale, la mafia, invitammo la popolazione allo sciopero. La nostra protesta fu considerata inaudita. Il Pci non l’aveva mai fatto.

I mafiosi reagirono prendendo di mira i più giovani di noi e minacciando i genitori per convincerli a stare lontano dal circolo. Stampammo dei manifesti di denuncia e li incollammo nei muri del paese. ……… quella notte tutti i manifesti furono strappati e la sede del circolo bruciata.

Qualcuno vide i mafiosi che appiccicavano il fuoco, noi stampammo altri manifesti facendo i nomi dei responsabili. Non successe niente, i carabinieri non fecero niente, come sempre. Continuò la schermaglia di minacce per cercare di smantellare il circolo ricostruito subito dopo con una colletta alla quale contribuirono anche i militanti del Pci.”

Nel frattempo i compagni più grandicelli ( in massima parte il circolo era costituito da un gran numero – parecchie decine – di bambini) si resero conto che erano veramente in pericolo ed alcuni si prepararono alla difesa, procurandosi anche delle pistole. n d a

L’11 ottobre 1970, alle 10 di sera , ero seduto sullo scalino di casa con mio cugino Salvatore Palamara e fui aggredito da tre persone seguite però da una decina di altre persone , una specie di processione di mafia. Erano venuti correndo, il primo si gettò su di me, il secondo lanciò pietre per colpirmi, il terzo sparò subito addosso a Salvatore che cadde ferito da tre colpi alle gambe.

Un colpo forò la porta di casa mia, un altro ruppe lo scalino. Io sono intervenuto in difesa di mio cugino, ho sparato anch’io con la pistola, ho ferito due aggressori, uno alla pancia, uno alla spalla e ho fatto scappare via gli altri. Avevo sparato con una 6,35 , gli altri con una 7,65: era facile decifrare i fatti dai differenti calibri delle pistole usate.

Anche i carabinieri dissero che prima erano stati sparati gli altri colpi e poi i miei. Io venni interrogato perché ero andato ad accompagnare mio cugino all’ospedale: non dissi nulla, ci siamo portati tutti negativi. Ma in seguito mio cugino fece i nomi degli sparatori. Li avevamo visti bene perché ci eravamo scontrati corpo a corpo: questa decisione fu presa dopo una discussione famigliare, su pressione dei nostri parenti.

E’ una cosa inconsueta nella tradizione del paese, almeno che non ci siano omicidi evidenti, fare i nomi ai carabinieri. Ma poiché si sostiene sempre che non si riesce a debellare la mafia perché esiste l’omertà , quella volta si decise: “Se è solo per questo, allora ecco i nomi”. Anch’io ho raccontato quello che è successo ……………………………………………

Un mese e mezzo dopo , nel novembre 1970 – era una domenica mattina – camminavo con due amici in una strada del centro del paese quando ho visto un ombra alle mie spalle. Capisco qualcosa, salto di lato e la scarica di pistolettate và a vuoto.”

— Rocco si salva in realtà perché, essendo armato pure lui, può dissuadere l’aggressore dallo sparare ancora e farlo scappare. n d a

Una settimana dopo vengono i carabinieri,…..e ci arrestano, io , Bruno e Gianni, i miei fratelli gemelli che allora avevano diciassette anni, e mio cugino Salvatore, di soli 16 anni, quello ferito davanti alla porta di casa e che era ancora ingessato e poi arrestano anche Salvatore Barbagallo, marito di una mia sorella.

Ci portano in carcere a Locri, Gianni e mio cognato vengono rilasciati dopo 15 giorni, restiamo dentro io, mio cugino e mio fratello Bruno. Ripetiamo i fatti come sono andati, citiamo i testimoni …………………….

Veniamo incolpati della prima aggressione: citiamo i testimoni, chiediamo il sopralluogo. Il giudice se la prende comoda con i testimoni: comincia a interrogarli dopo tre mesi e finisce dopo sei mesi.”

—— Responsabile di queste esasperanti lungaggini, con dei ragazzini incolpevoli in carcere che da studenti avevano già perso un anno di scuola, è stato l’allora Giudice Istruttore di Locri Franceso Frammantino (nda).

Perché si è fermato tanto per interrogarli? Perché uscissero gli indiziati per la strage del mercato di Locri, uno dei quali, Giuseppe Morabito, detto “ tiraddritto” ..… oltre che amico del prete, è fratello di Leo Morabito, uno di quelli che ci hanno assalito. Si è voluto attendere che uscissero di prigione, in modo che tanti che avrebbero testimoniato, vedendoli dopo tutto quel baccano che era stato fatto, si sentono scoraggiati: “allora la legge non garantisce niente” , hanno detto e non hanno dato più la testimonianza.

Le testimonianze che c’erano, però, potevano già bastare. Queste testimonianze dicono infatti che Bruno non c’era, che quelli sono venuti correndo verso casa mia: spiegano insomma la dinamica dell’aggressione. Ma io vengo ugualmente accusato di tentato omicidio. Mio fratello e mio cugino “per appoggio morale alla volontà dello sparatore”….

Ci hanno arrestato il 2 novembre, hanno chiuso l’istruttoria ad aprile: Noi pensavamo che nove mesi dopo l’arresto ci avrebbero processato: va bè , facciamo altri tre mesi , poi al processo le cose risulteranno evidenti: invece si creano altri imbrogli , malgrado l’istruttoria sia finita la causa non viene mandata a ruolo. Questo significa aspettare altri nove mesi……”

…” Quando ho saputo che il processo sarebbe stato rinviato a nuovo ruolo, ho deciso di scappare e, tempo una settimana, sono scappato dal carcere. Non ho avuto aiuti da nessuno: una notte sono uscito dalla cella, ho passato un’altra porta ancora e sono arrivato al cortile. Ho scalato i muri di cinta e me ne sono andato. Mio fratello e mio cugino, minorenni, erano già stati trasferiti nel carcere minorile di Reggio e hanno dovuto rimanere dentro.”

E’ l’autunno del 1971….”

Anche sulla costa Jonica sono gli anni della protesta dei giovani, delle manifestazioni, delle scritte sui muri e queste scritte accusano don Stilo, la cui figura và aldilà di Africo e diventa il simbolo di un mondo arcaico da abbattere……

La nuova generazione scende in piazza e la passione e la rabbia non sono né ambigue né manovrate , ma rappresentano un modo dimenticato di intendere l’opposizione: Chiedere la libertà per Rocco Palamara vuol dire anche chiedere che la giustizia funzioni, che sia uguale per tutti, che non si presti a giochi oscuri, che non sia l’eterno braccio secolare della classe dominante. Migliaia di giovani stanno formandosi alla politica, sia pure nella forma più elementare della manifestazione e dello slogan…..

Non è una protesta individuale o di pochi fuorviati, ma una protesta di massa: i cortei che passano per i viali di oleandri dei paesi della costa sembrano modesti se raffrontati ai cortei di quegli stessi anni delle città industriali, ma ogni giovane, con un cartello, uno striscione o uno slogan rappresenta una famiglia: porterà a casa un nuovo modo di pensare, romperà schemi secolari di giudizio, riuscirà forse a far discutere e a dubitare i padri e le madri, a distoglierli dalla mentalità corrente ed è proprio questo che l’autorità costituita teme.”
…………………

“Rocco Palamara negli interrogatori in carcere accusa i suoi aggressori di essere mafiosi e accusa don Stilo di esserne la mente. “ Definendoli mafiosi intendo dire che essi fanno parte di una organizzazione che fa capo a don Stilo, così come si dice in paese. Detta organizzazione si avvale della mafia per raggiungere i suoi scopi, nel senso che don Stilo si serve dell’organizzazione per togliere di mezzo i suoi nemici, mentre l’organizzazione si avvale delle relazioni di don Stilo per la necessaria protezione”

Il 30 aprile 1971 si svolgeva a Locri una manifestazione di solidarietà con Rocco Palamara: i giovani – da Africo sono venuti i compagni del Collettivo – stanno dirigendosi in corteo verso il carcere gridando i loro slogan –

“La mafia che spara non ci fa paura la lotta sarà sempre più dura”; “Col calice e la lupara si perseguitano i Palamara”, quando i carabinieri caricano: c’è qualche fermo, si aprono polemiche e dibattiti che smuovono il chiuso mondo dei paesi.

Il sostituto procuratore della Repubblica di Locri, Guido Neri, nella sentenza in cui chiede al giudice istruttore il rinvio a giudizio di Palamara e dei suoi aggressori per la sparatoria d’avanti alla casa dell’anarchico, scrive: ” Va condannato l’episodio disgustoso cui hanno dato vita un gruppo di studenti del liceo scientifico di Locri i quali hanno inscenato una manifestazione di solidarietà con i Palamara come se, anziché delinquenti comuni che, come tali, meritano una giusta punizione, si trattasse di uomini da emulare, di esempi viventi di onestà e di purezza da difendere pubblicamente, perché vittime di ingiustizia altrui…………………………………”

LE CONCLUSIONI DEL PROCESSO: Il processo fu celebrato a Locri dopo 18 mesi dall’arresto, tutti trascorsi in carcere da Buno e Salvatore.
La sentenza fu per loro due di “ASSOLUZZIONE ” ( !!!): Bruno “per non aver commesso il fatto” e Salvatore, con il ”perdono giudiziario”!

Rocco, processato in contumacia, venne condannato a 18 mesi. Quindi, avendone scontato solamente 9, dovette rimanere latitante.

Alla lettura della sentenza i “Ragazzi di Locri” di allora , presenti in gran numero, hanno protestato, quindi sono stati caricati dalla polizia che ne ha fermati o arrestati sette o otto ….Così andavano le cose in Calabria….

Tra i responsabili di così tanta “giustizia” il PM. Guido Neri, farà gran carriera (fino a diventare Procuratore Generale presso la corte di appello di Reggio Calabria) prima di cadere un pò in disgrazia in tempi relativamente recenti.  Francesco Frammartino, allora Giudice Istruttore, ha anch’esso fatto gran carriera nella magistratura, a Locri..…
…. Speriamo  che viva ancora a lungo affinché nella condizione senile possa trovare la risorsa morale per potersi vergognare e pentirsi .(
da Puglia Antagonista)

*****

Lettera aperta al giudice Frammartino

AL GIUDICE FRANCESCO FRAMMARTINO
TRIBUNALE di LOCRI

Signor giudice,

mi chiamo Rocco Palamara e sono di Africo.

Verso la fine del 1970, 42 anni fa, insieme a mio fratello e a mio cugino ho avuto la sfortuna di fare la Sua conoscenza. Io allora avevo 22 anni e facevo il fornaio; mio fratello Bruno e mio cugino Salvatore Palamara erano studenti ed avevano, rispettivamente, 17 e 16 anni.

Allora mio cugino, ferito a pistolettate sull’uscio di casa mia in un raid di mafiosi, fu malconsigliato da suo padre, onesto e ignaro cittadino, a denunciare il fatto ai carabinieri; ed io sostenni le sue accuse con la mia deposizione, autodenunciandomi a mia volta per il fatto che anch’io sparai, per rispondere al fuoco in nostra difesa.

Anche io allora mi ero affidato alla Giustizia; ma non l’avessi mai fatto, perché così facendo finimmo in balia delle Sue decisioni di Giudice Istruttore e di quelle di Guido Neri che per prima cosa ci faceste arrestare e poi ci trattaste come se fossimo stati noi gli aggressori ed i mafiosi.

Dei tre picciotti che ci avevano assaliti uno era un fratello di Giuseppe Morabito u Tiradrittu (all’epoca sotto processo per la Strage di Locri) e gli altri due entrambi dei criminali recidivi, chi figlio, chi fratello di assassini; ma, per Lei ed il Pubblico Ministero Guido Neri, loro erano una banda di malavitosi e noi (in quanto anarchici) un’altra banda di malavitosi ancora più pericolosi.

Per cui, nell’inqualificabile istruttoria che Lei ha partorito:

– il fatto che l’aggressione era avvenuta sul davanzale di casa mia non contò nulla perché, secondo la Sua esilarante teoria, quello era un posto come una altro; dove saremmo tutti “convenuti” per la resa dei conti finale;

– il fatto che alla prima aggressione seguì un’altra (quando in pieno giorno e in pieno centro di Africo uno dei precedenti aggressori mi si accostò alle spalle sparandomi a tradimento) non fu tenuto in nessuna considerazione;

– il fatto che eravamo stati noi a denunciare neanche contò nulla, tanto che le parole degli avversari (che per giustificarsi dissero che li avevamo assaliti noi) furono equiparate alle nostre in quanto a credibilità;

– il fatto che a sostegno delle nostre dichiarazioni deposero 11 testimoni, mentre dall’altra parte nemmeno uno testimoniò a loro favore, non valse nemmeno;

– il fatto che un testimone sostenne che mio fratello era in un altro posto al momento della sparatoria (perché nemmeno c’era nello scontro!) non servì a nulla;

– il fatto che l’accusa di aver sparato riguardava solo me, mentre per mio fratello e mio cugino era quella di essere stati solamente presenti al fatto (a casa mia, ripeto), non bastò a dispensarli, almeno loro due, della grave accusa di “tentato omicidio aggravato”, perché lei li ha trascinati a processo con la medesima imputazione: “Per apporto psichico”!;

– il fatto che più di 1.000 studenti delle scuole di Locri sono scesi in piazza per protestare, reclamando la nostra liberazione (30 Aprile 1971, la prima manifestazione antimafia in Italia) fu considerato un episodio di “gioventù deviata”!

Lei non solo non concesse a nessuno di noi la libertà provvisoria ma, caratterizzandosi per l’esasperante lentezza (ha cominciato ad interrogare i testimoni dopo 4 mesi e ha finito dopo 6 mesi), ha fatto in modo che il processo si svolgesse ben 19 mesi dopo il nostro arresto. Alla fine persino i suoi colleghi della Corte d’Assise, davanti alla quale Lei ci aveva trascinati, ebbero a bocciare il suo operato, perché nella loro pur contestata sentenza assolsero mio fratello e mio cugino. E ciò malgrado nemmeno quelli furono giusti fino in fondo: furono molto teneri con i mafiosi ed a me non concessero la legittima difesa.

Alla lettura della sentenza gli studenti, mobilitati per il processo, protestarono e i carabinieri – presenti in gran forza – li caricarono duramente arrestandone sei. Anche loro pagarono per l’assurda ambizione di voler vivere in una Calabria senza mafia.

Tornando al fatto più grave di mio fratello e di mio cugino, da qualunque lato la si veda, Lei dovrebbe averli sulla coscienza per tutto il carcere che gli ha fatto fare da innocenti. Ragazzi di 16 e 17 anni! Ma – a proposito! – all’uscita dall’aula dopo la lettura della sentenza, non si è vergognato neanche un po’, dr. Frammartino?

In ogni modo, del fatto che la sua coscienza è sporca, sono qua io a ricordarglielo davanti a tutti; anche 42 anni dopo.

Il suo “errore” non disturbò i tenutari del Potere Costituito nelle sue varie diramazioni, ché ben gli stava allora il suo esecrabile operato (ad esempio: il Presidente del Tribunale non mosse un dito per fermare l’infamia); per cui Lei ha continuato a galleggiare facendo gran carriera, fino a diventare vicepresidente del Tribunale stesso. Alto magistrato, dunque!

Ma non per questo Lei è un genio, e neanche un “genio del male” perché, come si dice dalle nostre parti: una sola noce in un sacco non scruscji; e nemmeno due noci (lei e Guido Neri) avrebbero potuto farlo se non fosse che lo stesso Tribunale di Locri era, ed è stato per decenni, un nido di serpi.

Nel proseguo della persecuzione contro la mia famiglia nel 1974 altri magistrati dello stesso Tribunale hanno inquisito (senza alcun valido motivo) e condannato a ben 5 anni di carcere ciascuno due dei miei fratelli, studenti universitari, quali mandanti del TENTATO incendio di una macchina a Bruzzano (proprietario: un amico di don Stilo). Ciò ripiegando dalla primaria accusa che li voleva esecutori diretti, ma che era diventata insostenibile quando i miei fratelli poterono dimostrare che non erano nemmeno in Calabria al momento del (non) fatto.

Quanta solerzia da parte dei suoi colleghi Bambara, Origlia e Staltari! Gli stessi che nel 1977, con un’istruttoria inqualificabile sotto ogni punto di vista, hanno di fatto consentito che restassero impuniti i mafiosi assassini di Leo Borrello (anche egli di Africo e nemico della mafia), trucidato in carcere davanti a 60 testimoni.

Quella della mia famiglia (costretta grazie alla mafia, ai carabinieri e a voi giudici a fuggire dalla Calabria) è stata forse solo una piccola tragedia, ma quanto altro danno avete fatto voi del Tribunale di Locri che Lei personalmente – con i suoi quasi 50 anni di permanenza – ben rappresenta?!

Tutti voi (tranne poche eccezioni, come i giudici Arcadi e Macrì) siete rimasti inermi mentre sotto i vostri occhi la mafia cresceva e imperava, e sotto il vostro naso nella stessa Locri si estorceva con regolarità e si trucidavano decine di giovani nelle strade (dal Tribunale potevate sentire i colpi), mentre la città, da gioiello urbano, calava nel degrado e nella rovina.

Quante omissioni sull’aggressione mafiosa del territorio! Le sentenze che – invece – avete emesso, come quella del Summit di Montalto e quella della Strage di Locri, hanno nei fatti assicurato l’impunità ai mafiosi; nei fatti incoraggiandoli a proiettarsi verso ancora più gravi delitti.

La storia ha già fatto giustizia del Suo collega Guido Neri, che non c’è più, ma che prima di morire ha fatto in tempo ad essere espulso dalla magistratura in quanto contiguo alla mafia. Qualcuno allora (2006) lo compianse come “perdita incolmabile”; e non a caso a farlo è stato il giornale online “Giustizia Giusta” che difende a spada tratta Don Stilo e Giuseppe Morabito, alias u Tiradrittu.

La storia vi condanna e vi inchioda alle vostre responsabilità: se i mafiosi hanno fatto tanti danni e sparso tanto sangue, molti di voi (dello screditato tribunale) siete macchiati dello stesso sangue e come nella canzone di De Andrè: “…per quanto voi vi sentite assolti, siete per sempre coinvolti!”.

Per i danni ed il dolore che avete causato alla Locride e alla Calabria tutta, solo un vostro pentimento potrebbe alleggerirvi la coscienza. Pentimento di cui io – onestamente – non vi faccio neanche capaci.

Rocco Palamara

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