C’è un gruppo trap italiano perseguitato da mesi dalle autorità giudiziarie, nell’indifferenza generale, secondo teoremi che ricordano i periodi più bui della Repubblica.
La band si chiama P38-La Gang, è stata fondata nel 2020, nella sua breve vita non ha composto nulla di imperdibile e non la conosce quasi nessuno, ma è indagata dalla Procura di Torino con l’accusa di «istigazione a delinquere» dopo che alcuni familiari delle vittime del terrorismo hanno presentato denuncia.
I quattro componenti della band, che appaiono in pubblico col passamontagna per nascondere la loro identità, sono già stati sottoposti a perquisizione da parte di polizia e i Carabinieri che gli hanno pure sequestrato materiale informatico. Rischiano fino a un massimo di otto anni di carcere.
Uno dei loro brani più noti si intitola Renault, una chiara allusione all’auto rossa nella quale fu ritrovato il cadavere del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, a Roma. Il testo fa così: «Ti metto dentro una Renault / Brigate Rosse scritto sul contratto / Presidente, lei mi sembra stanco / La metto dentro una Renault».
I nomi d’arte dei musicisti sono Astore, Jimmy Pentothal, Dimitri e Young Stalin. Sono quattro ragazzi tra i 25 e i 33 anni dei quali si sa poco o nulla. Sul palco si coprono il volto con il passamontagna e fanno un gesto con le tre dita che rappresenta la famigerata P-38. Sul palco sventola la bandiera delle Brigate Rosse.
Dopo una esibizione a Pescara, a presentare un esposto era stato Bruno D’Alfonso: suo padre Giovanni fu ucciso dalle Brigate Rosse durante uno scontro a fuoco del giugno 1975. Ha detto D’Alfonso: «Spero che gli autori della minaccia vengano identificati e perseguiti ma credo che non debba essere permesso a nessuno, nemmeno in nome della libertà di espressione artistica, di inneggiare al terrorismo e di offendere la memoria di quanti di quel terrorismo sono stati vittime e dei loro familiari».
A questa denuncia si è aggiunta quella di Maria Fida Moro, figlia del presidente della Democrazia Cristiana assassinato: «Qui non si tratta di libertà di pensiero», ha detto, «ma di istigazione al terrorismo».
Come si legge sul sito comunista Contropiano, «le denunce e le indagini non potevano produrre conseguenze giudiziarie se non ricorrendo ai reati di opinione ereditati dal Codice Penale fascista Rocco».
A colmare il buco ci ha pensato la Procura di Torino, considerata dai movimenti antagonisti di sinistra una delle più zelanti d’Italia per aver tentato di stroncare il movimento No Tav con le azioni giudiziarie più spregiudicate, ha chiesto gli arresti domiciliari per tutti i membri del gruppo con divieto di comunicazione con gli estranei al loro nucleo familiare, unito al divieto di utilizzare qualunque dispositivo informatico che possa essere utile allo scopo di mettersi in comunicazione con l’esterno. Tra gli indagati c’è anche presidente di un circolo Arci di Reggio Emilia che ha ospitato un altro concerto del gruppo.
A parte qualche intellettuale isolato come l’insegnante e saggista Christian Raimo e pochi altri, il caso P-38 non sembra interessare nessuno. Il cosiddetto mainstream o è silente, o è ostile tanto quanto le forze dell’ordine.
Sul Corriere della Sera uno dei fondatori delle Brigate Rosse, Alberto Franceschini, ha preso le distanze: «Mi sembra una strumentalizzazione finalizzata a fare pubblicità. Quello delle Brigate Rosse è stato un capitolo drammatico». Un piccolo spazio alla vicenda è stato dedicato dal quotidiano britannico Guardian, accorgendosi che forse qualcosa non va nella linea d’azione della magistratura.
Nel mondo politico, concentrato in questi giorni sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito in sciopero della fame in regime di 41-bis, la condanna dei P-38 è stata svelta e unanime: se il movimento di destra Reggio Emilia Identitaria ha chiesto «la chiusura del locale che ha permesso un tale scempio», il presidente della regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, candidato alla presidenza del Partito democratico con una linea centrista moderata, ha parlato di una «sedicente band che inneggia alle peggiori pagine della nostra storia repubblicana, alla violenza brigatista», aggiungendo di sentirsi «indignato e disgustato».
Cosa resta, dunque? Resta da capire di che musica parliamo. L’album dei P-38, Le Nuove BR, ha un titolo che sembra indicare la nascita di una banda armata, ma in realtà ha un’ispirazione diversa. Le Nuove Br – quelle in carne ed ossa – in effetti sono già esistite circa due decenni fa e sono state sconfitte. La P-38 non è mai stata l’arma prediletta dai terroristi (Moro, ad esempio, fu ucciso da un mitra Skorpion) ma è entrata a far parte dell’immaginario collettivo grazie a una certa rappresentazione mediatica e giornalistica straboccante di cliché.
Quello a cui fa riferimento l’album è piuttosto l’universo storico-concettuale del comunismo e il mondo in cui viene distorto grottescamente dalla narrazione dominante.
I P-38 presentano molti nomi di figure storiche legate all’ideale comunista ma scelgono di accostarli nelle canzoni in modo caotico e irrealistico: Ho Chi Minh, Rosa Luxemburg, Antonio Gramsci, l’anarchico Gaetano Bresci. La stilistica trap gli serve per evocare una violenza che non è più solo un aspetto estetizzato del mondo criminale o un modo per sfogare impulsi violenti su donne considerate solo come oggetti sessuali, ma diventa parte della struttura della società.
I P-38 rappresentano l’inconscio represso del discorso pubblico italiano, e usano i loro effetti stranianti per evidenziare la narrazione superficiale del comunismo da parte degli «integrati in società».
Come scrive Oscura Ferragni sul sito Not, «L’immaginario… è quello di Canale 5, di Enrico Mentana e di Paolo Mieli. È quello del Corriere della Sera, di la Repubblica e della maggior parte dei giornali a grande tiratura. È quello dei post di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Quello che ci viene urlato nelle orecchie in pezzi come Giovane Stalin o La Bocconi brucia è un comunismo consumistico, televisivo, social… In soldoni, è il comunismo di chi odia il comunismo».
Ora, è probabile che le élite intellettuali abbiano scelto di non occuparsi della vicenda P-38 per paura di essere accusate di corporativismo – di voler cioè difendere solo il proprio «album di famiglia» – e di insensibilità nei confronti delle vittime della tragedia Br. Ed è chiaro che non si pretende da chi legge nelle canzoni del gruppo il nome di parenti uccisi dal terrorismo alcuna comprensione per il registro grottesco, alcuna ginnastica mentale per giustificare la «provocazione».
Pensare che il processo ai P-38 sia sproporzionato non vuol dire negare il diritto all’oltraggio, o all’indignazione.
A questo punto vogliamo attingere dal poderoso intervento dello scrittore Francesco Pacifico sul sito Il Tascabile, a difesa di un altro artista non facilmente decodificabile, Alessandro Gori detto lo Sgargabonzi, denunciato da Piera Maggio, la madre di Denise Pipitone, per alcune battute giudicate offensive pubblicate su un post di Facebook.
Dopo sette anni, il processo si è concluso con l’assoluzione di Gori, che aveva sempre detto di non aver voluto offendere la signora bensì il circo mediatico che ha pasteggiato sul dolore di lei. Nella sua difesa, Pacifico aveva così sintetizzato la posizione etica da assumere nei confronti della querelante:
Stiamo parlando di questo: una donna che ha vissuto un’esperienza devastante, che nessuno di noi vorrebbe mai vivere, ha scoperto che il suo nome è stato usato in un collage decostruzionista di un comico, e ne ha sofferto. Lo capisco… Dev’essere orribile.
Partendo da queste doverose premesse, Pacifico si chiede però se una vicenda che rischia di mandare sul lastrico una persona, di rovinargli la vita, si possa ridurre ai sentimenti provati, «quando il diritto è basato sul raffreddamento degli istinti di farsi giustizia».
In un Paese dove nessuna Procura ha mai avuto la miopia di inquisire Paolo Pietrangeli per la canzone Mio caro padrone domani ti sparo o Pino Masi per la canzone È arrivata l’ora del fucile, oggi dei trapper che dicono: «Non speriamo nel ritorno della lotta armata, stiamo maldestramente cercando di fare qualcosa d’artistico», rischiano di essere dichiarati colpevoli di un disegno criminoso in un processo penale.
I P-38 – va ammesso – hanno la scalogna di occupare nello spettro politico italiano la peggiore posizione possibile: guardati con orrore da un centro-sinistra di governo impegnato a difendere minoranze più presentabili, ignorati dai Ferragnez perché troppo bomberisti, portano in scena una simbologia marxista-leninista evitata come la peste pure dai movimenti anti-sistema che oggi occupano la scena: da quelli millenaristi paranoidi di ispirazione trumpiana al nazional-populismo per sua natura diffidente dei “rossi”, passando per i comunisti-lepenisti che in tasca hanno La Verità di Belpietro.
Se potrà mai sorgere un nuovo fenomeno eversivo contro lo Stato imperialista delle multinazionali (della Silicon Valley) è probabile che avrà la maschera di V per Vendetta come simbolo, anziché la stella a cinque punte.
Forse un certo modo di fare arte, volutamente offensivo e scioccante, può essere una forma di nichilismo per chi lo pratica e controproducente per qualsiasi progetto autoriale. Ma che una persona che se ne sente oltraggiata abbia il sacrosanto diritto di gridarlo, e persino di denunciare non vuol dire che i P-38 debbano essere processati e condannati.
* da Exquire
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Roberto
Giusto !!!!
p38punk
LA p38. per favore prestiamo attenzioni agli articoli.
Al netto della solidarietà già mostrata in ogni occasione nei confronti dei membri DELLA p38 gang, la quasi omonimia ci ha già causato qualche problema.
Niente di nuovo e niente a cui non fossimo già preparati da trent’anni, ma le rotture di scatole preferiremmo fossero per cose che abbiamo fatto noi.
Saluti militanti.
I p38 punk
mario
Perché in Italia preferiscono la P2…