Lessi il libro di Barbara nei giorni della quarantena, causata dalla diffusione planetaria del Covid 19. Giorni di sgomento e di paura. Di rabbia e di forzata rassegnazione.
Si viveva in una sorta di quotidianità parallela, attraversata da dilatazioni e rallenty temporali. Immersi in auto percezioni allucinatorie da Pasto Nudo di Burroughs o in distopici limbi esistenziali, come nel Mondo Nuovo di Huxley: quello della società fordista e della produzione seriale per intenderci.
O anche, nella routine appiattita dei nostri pensieri si poteva avere l’impressione di venire scossi da accelerazioni improvvise e inattese, che sembravano solcare un quadrante storico costruito in base alla meccanica dei quanti e al Principio di indeterminazione di Heisenberg. Riletto dallermetismo messianico delle Tesi di filosofia della Storia di Walter Benjamin.
Leggevo, e non potevo fare a meno di pensare che queste emozioni e sensazioni, questi spettri semantici della realtà spettri da intendersi nella duplice connotazione di ambiti ed ombre, Barbara sa condensarli in una lingua vaticinante. Al limite tra l’Apocalisse e la Salvezza.
Perché la sua scrittura – dalle cadenze allegoriche e magiche di L’ho sempre saputo alle istantanee concrete di questa Lettera a mio padre, intarsiate nella materica corporeità legno-gommosa di un albero salgadiano – ci parla del nostro presente e del nostro passato. Gettando una luce ferita, ma non sconfitta, sul nostro futuro.
Quella di Barbara è una parola impastata di carne e di inconscio. Che lascia tuonare tra gli spazi bianchi dei sintagmi le voci di passate civiltà, di organizzazioni sociali pre-capitaliste, di un umanità dallintelligenza creativa e dalle mani sapienti.
Una parola che pur sprofondata fin dentro i condotti nasali nella mefitica realtà contemporanea, quella stessa realtà è capace di reinterpretarla e reinventarla, svelandone le potenzialità rivoluzionarie. Nascoste tra le feritoie di una Storia mai convenzionalmente lineare o hegelianamente progressiva, ma sulla cui strada scoscesa si verificano impreviste e imprevedibili torsioni ad U.
Il settimo sigillo letterario di Barbara Balzerani è dunque un libro intimo e politico, eretico e messianico, apocalittico e poetico.
Ipnotico e profetico come le liriche di William Blake, sbranate da visioni sospese tra un passato di macerie e un futuro distopico ma gravido di possibilità.
Familiare e personale come la Trilogia della città di K, dell’autrice ungherse àgota Kristòf, da cui sembra mutuare una scrittura che si fa spazio sullo sfondo di una realtà di fame, di marginalità, di morte neoliberista. Ponendosi sulla scena della Storia per quel che è: il verbo della paura, dell’angoscia, della guerra, dei legami spezzati, della rivoluzione.
Mitologico e vaticinante come la Cassandra di Christa Wolf.
Infine, filosofico come il linguaggio di Walter Benjamin, intriso del misterioso sangue che sbuffa dall’antica gola tagliata della Terra. Il cui pensiero, profondamente marxista ma profondamente eterodosso, sembra pervadere e plasmare tutto il libro.
Una versatilità di registri e una complessità di temi che fanno di Barbara Balzerani, al di là della sua più che nota storia personale, una scrittrice oramai di caratura europea.
La sua lingua, il suo modo di costruire la frase per ossimori e negazioni, epifanie e squarci, levigate rotondità e spigolose asciuttezze; la sua poetica allegorica e materica; il suo argomentare da romanzo filosofico tra Merlau Ponty e Deleuze; il suo surfare sulle onde tempestose della Storia con le vele di Marx e la tavola di Benjamin, la rendono una delle voci più autentiche e suggestive di questi penosi anni duemila.
Una voce in cui la politica e l’ideale marxista costituiscono il controcanto, tacito e imprescindibile, attraverso cui lasciar risuonare le note tragiche di unesistenza in lotta.
Ebbene tra l’incedere lento ma inesorabile delle pagine, Lettera a mio padre getta uno sguardo lucido e impietoso sul presente e sulle iniquità del sistema capitalistico con le sue leggi stritolanti, il suo mercato, i suoi grafici tra i cui algoritmi l’antico sapere artigiano dell’uomo si è smarrito, cedendo mestamente il posto allartificio del feticcio merceologico.
Quello sguardo, che taglia la scorza spessa di un’attualità omogeneizzata e disperante, s’incrocia però anche con l’occhio severo della critica che investe, senza riverenza alcuna, il modello teorico e la praxis rivoluzionaria che pure condussero, nel corso del ‘900, alle prime esperienze di socialismo reale e al protagonismo, mai fino ad allora realizzatosi, delle masse dei diseredati sul proscenio della Storia.
Severità che la Balzerani non risparmia neppure alla vicenda che la vide impegnata in prima persona nella lotta, anche armata, contro il potere costituito delle classi dominanti.
Eppure, senza mai cedere alla rassegnazione ma anzi combattiva più che mai, si pone all’ascolto delle nuove esperienze rivoluzionarie che in giro per il mondo intendono sovvertire il dominio neoliberista e di classe e il suo modo di produzione.
Tesa, ancora a settantanni, alla ricerca di un nuovo paradigma per una nuova guerriglia. Nel passaggio di fase in cui il movimento comunista sembra essersi relegato in una posizione di timorosa retroguardia.
Un libro che perciò fa appello prima ancora che a un futuro rivoluzionario, a quel presente il quale, solo rompendo con il concetto del tempo lineare e progressivo assunto dai vincitori, e addirittura con la categoria marxiana dello sviluppo delle forze produttive – troppo spesso concepito in termini meccanicistici ed evoluzionistici – può provocare lo squarcio nel corpo malato del Capitale e aprire ad una società nuova e senza classi.
Nel dialogo immaginario col papà scomparso anni addietro, che attraversa l’intero libro, sembra allora prendere forma la figura mitopoietica di un Tempo/Padre, Kronos contemporaneo e familiare, mentre al centro della loro discussione viene catapultata l’idea stessa di progresso. Inalienabile protesi della modernità e ancella corrotta del concetto lineare della Storia. Occidentale, immodificabile, onnipotente.
Come Benjamin, Balzerani mette in discussione l’ideologia del progresso – filosofia «incoerente, imprecisa, non rigorosa» – che concepisce il processo storico solamente come «il ritmo più o meno rapido con cui gli uomini e le epoche avanzano sulla via del progresso» per citare proprio il filosofo tedesco.
L’obiettivo è liberare una volta per tutte il marxismo dall’influenza delle dottrine borghesi progressiste. Perché, ancora Benjamin: «è nell’opposizione alle abitudini del pensiero borghese che il materialismo storico trova la sua fonte».
Il filosofo berlinese era convinto che le illusioni progressive, come quella di «nuotare nel flusso della storia» e la visione acritica della tecnologia esistente applicata al sistema produttivo, avessero contribuito alla sconfitta del movimento operaio tedesco da parte del fascismo.
Tra queste illusioni dannose, d’altra parte, figura proprio lo stupore per la possibilità stessa di affermazione del fascismo nell’Europa moderna, figlia di due secoli di progresso. Come se il Terzo Reich non fosse, per l’appunto, proprio una manifestazione patologica della stessa civiltà moderna.
Il più alto livello di sviluppo tecnico produttivo cui faceva da contraltare il più fosco arcaismo reazionario in campo politico-culturale. Inquietante analogia con unattualità sempre più minacciosa.
Barbara come Benjamin ci dice perciò di spezzare la linearità fisica del Tempo. Di sparare agli orologi. Di interrompere laccumulo progressivo di futuro tramutatosi in accumulo sviluppista di produzione al presente.
Altro che “sviluppo delle forze produttive”! Siamo ormai giunti nel regno dell’ombra di Mordor. Dominato da un bifronte Sauron-Rolex, Signore degli orologi. Il cui volto vorace assomiglia a quello di un Amministratore Delegato.
Una Mordor neoliberista dove, al ritmo incessante del tempo veloce, macchine/orchi di odierni Talo hanno divorato la creatività umana del lavoro, trasformando gli stessi individui in alienati profili avatar deprivati di spazio vitale.
In merito allo sviluppo delle forze produttive Barbara Balzerani ha d’altronde le idee chiare. Dice durante un’ intervista:
«La teoria dello sviluppo delle forze produttive come fondamento strutturale del socialismo ha finito per assimilare al modello capitalistico il modo di produzione dei paesi usciti vittoriosi dallo scontro con l’imperialismo. Senza nulla togliere all’importanza delle rotture rivoluzionarie che hanno consentito al proletariato mondiale di essere protagonista di cambiamento e di governi rivoluzionari, mi sembra oggi necessario fare i conti con la nostra storia.
Più che dalla controffensiva del potere siamo stati sconfitti dalla debolezza del nostro impianto teorico e delle sue interpretazioni. Ecco perché è necessario ripercorrere una storia delle classi subalterne, perché aver pensato che tutta la ricchezza e la tecnica accumulate dal capitalismo che trae la sua forza dallo sfruttamento di mano d’opera e risorse potessero fornire le condizioni per un sistema basato sul benessere sociale, ha determinato la subalternità all’unico modello vigente.
Il taylorismo del modello Fiat, col corollario della subordinazione del lavoro manuale, è stato ampiamente adottato nella fabbrica sovietica e la pianificazione dell’economia non ha significato la pretesa superiorità del socialismo essendo rimasti inamovibili il partito e lo Stato a scapito della centralità dei soviet e delle strutture politiche di base.
Quel processo rivoluzionario è stato esemplare per rintracciare l’allontanamento dalla possibilità della transizione al comunismo, complici l’idea della neutralità della tecnica capitalistica e dello sviluppo lineare del progresso».
Rileggendo le parole di quest’intervista come alcuni passaggi del libro, soprattutto lì dove si adombra l’idea dell’irrazionale tecnologico divenuto ormai soggetto della Storia, sembra di riandare alle pagine de L’uomo ad una dimensione di Marcuse. Vediamo:
«L’uomo a una sola dimensione è l’individuo alienato della società attuale, è colui per il quale la ragione è identificata con la realtà. Per lui non c’è più distacco tra ciò che è e ciò che deve essere, per cui al di fuori del sistema in cui vive non ci sono altri possibili modi di essere[ ]
Il sistema tecnologico ha la capacità di far apparire razionale ciò che è irrazionale e di stordire l’individuo in un frenetico universo cosmico in cui possa mimetizzarsi. Il sistema si ammanta di forme pluralistiche e democratiche che però sono puramente illusorie perché le decisioni in realtà sono sempre nelle mani di pochi[ ]
Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico; la stessa tolleranza di cui si vanta tale società è repressiva perché è valida soltanto riguardo a ciò che non mette in discussione il sistema stesso[ ]
Tuttavia la società tecnologica non riesce ad imbavagliare tutti i problemi e soprattutto la contraddizione di fondo che la costituisce, quella tra il potenziale possesso dei mezzi atti a soddisfare i bisogni umani e l’indirizzo conservatore di una politica che nega a taluni gruppi l’appagamento dei bisogni primari e stordisce il resto della popolazione con l’appagamento dei bisogni fittizi[ ]
Tale situazione fa sì che il soggetto rivoluzionario non sia più quello individuato dal marxismo classico, cioè la classe operaia, in quanto questa si è completamente integrata nel sistema, bensì quello rappresentato dai gruppi esclusi dalla benestante società[ ]
il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili. Essi permangono al di fuori del processo democratico, la loro presenza prova quanto sia immediato e reale il bisogno di porre fine a condizioni e istituzioni intollerabili[ ]
Perciò la loro opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro coscienza. Perciò la loro opposizione colpisce il sistema dal di fuori e quindi non è sviata dal sistema; è una forza elementare che viola la regola del gioco e così facendo mostra che è un gioco truccato[ ]».
In conclusione, si può essere più o meno d’accordo con lei ma bisogna riconoscere che la Balzerani ci offre degli importanti ed ineludibili spunti di riflessione. Sul presente e sul futuro.
Un presente ed un futuro dove sembrano ammassarsi macerie di corpi su macerie di corpi, nel segno dellideologia tempestosa del progresso, dello sviluppo, del Prodotto Interno Lordo.
Solo nuovi angeli o nuovi barbari rivoluzionari potranno redimere il passato e riscattare le generazioni oppresse della Storia. E’ Marx stesso a dircelo, dopotutto .
Ma per realizzare un simile, ambizioso obiettivo è necessario riappropriarsi del proprio Spazio nel proprio Tempo. è necessario riappropriarsi del tempo umano.
Quello della creatività e del fare. Quello della condivisione e della messa in comune. Quello del pensiero e della sapienza antica. Per costruire un futuro che non abbia una dimensione teleologica, ma sia capace di ricomporre quelle macerie della Storia, sotto il cui peso ancora vibrano e urlano i corpi di tutti i vinti.
Non cè più tempo ci dice Barbara. Nell’incedere vorticoso del progresso e della produzione purché sia, il tempo umano sembra sfuggirle e sfuggirci tra le dita.
Questa Lettera a mio padre è pertanto un’infrazione quantica nella dimensione spazio/tempo, dalle cui feritoie gli sconfitti e i dannati di ogni epoca e di ogni periferia lanceranno il grido di battaglia che risuonerà per le strade delle megalopoli contemporanee. Scuotendo i muri eretti dal Capitale.
E’ la messa a nudo di un sistema e dei suoi re, che hanno depredato risorse e desertificato terre, arroccati in fortezze che rischiano però di poggiare su macerie da loro stessi edificate.
Guerre, colonialismo, cementificazioni, grandi opere, trivellazioni, produzione high tech, sono le bocche fameliche del mercato borsistico e finanziario.
Capace di fagocitare fette di terra sempre più grandi, di succhiare e insozzare fondali marini vergini, di triturare ossa e digerire carne umana alla velocità di una lugubre luce, rifratta dai grafici di un consiglio di amministrazione fino alla più lurida discarica della più remota megalopoli latinoamerica o africana.
E’ la natura stessa – come scrive daltronde Benjamin – a soccombere al ritmo martellante di una depredazione di risorse, come mai prima nella vicenda dei rapporti tra luomo e il suo habitat.
Il Capitale, quale unica teologia praticabile, ha squarciato il ventre della terra, ne ha mangiato il cuore, accecato gli occhi e avvelenato il sangue.
Ha schiacciato culture e calpestato storie. Divorando ogni giorno sesso di neonato in periferie dai paesaggi post atomici, situate ai margini di megalopoli abitate dagli zombie del neoliberismo imperante.
Sorveglia, Punisci, Produci, Consuma, Muori. Imperativi assoluti di un Mercato asettico e distante come il dio della Legge kafkiana.
E’ già Marx a parlarne ne Il Capitale (Libro III), quando affronta con lungimiranza la questione della irreparabile frattura metabolica determinata dal Modello di Produzione Capitalistico.
Bisogna necessariamente tirare “il freno d’emergenza” a questa locomotiva impazzita sui binari del Tempo veloce, ci ammonisce Barbara. E riscattare i vinti delle precedenti generazioni.
In questa Lettera a mio padre la concezione del Tempo coniugato al passato, mai stipata sugli scaffali dello storicismo asettico e immutabile teorizzato e voluto dai padroni e dai vincitori, diviene dunque memoria agente nel presente e capace di liberare il futuro.
Di più. Tra i corridoi di questo Tempo/Storia, impensabile secondo una rappresentazione monodimensionale e deterministica, ci si può imbattere in porte che si aprono su spazi liberati dai vincoli legali delle ore, segnate sull’orologio esclusivo dei padroni dell’esistenza.
In conclusione, com’è fin troppo evidente da quanto detto finora, insieme alla figura del padre il Tempo è il protagonista assoluto di questo Settimo Sigillo della Balzerani. Di questa partita a scacchi tra Barbara/Odradek e la Morte.
Un elegia in forma di epistola al genitore, che Barbara ha scritto intingendo la penna nel sangue raggrumato delle sue antiche ferite e strappando brandelli di carne e memoria alla sostanza profonda di unanima vissuta a lungo nella cattività del sogno rivoluzionario, strappatole con la violenza di uno stupro padronale.
Nel procedere bipolare di queste pagine, che dalle feritoie aperte nelle tenebre tecnocratiche della realtà contemporanea lasciano filtrare lancinanti squarci di luce provenienti dal passato e riverberati dalle più remote periferie del mondo, il Tempo e la Morte si fronteggiano e si sfidano.
Si sfidano e si fronteggiano le generazioni dei dominatori e quelle degli oppressi. Il Quarto Stato e la Borghesia.
Si fronteggiano e si sfidano, con la tenerezza dell’amore filiale e la durezza dialettica di Antigone di fronte a Creonte, una figlia ed un padre. La coscienza ribelle di una giovane donna e la morale patriarcale che nulla può concedere al gesto sovversivo.
Si sfidano e si fronteggiano la narrazione magica e quasi fiabesca di un mondo che si pretenderebbe immutabile, e il dipanarsi cocciuto di una realtà dura e in rapido, esplosivo divenire negli anni ‘70 della sovversione.
Il confronto tra la generazione dei padri e quella dei figli, tra Barbara e il papà che l’ha lasciata sola tra gli orditi intricati della realtà, si trasforma qui in un tenero, amaro, disilluso, cocente, pugnace Finale di partita.
Giocato tra i fili sempre problematici delle relazioni interpersonali e familiari; tra le linee fragili e oblique di una psiche in perenne lotta con le sbarre, metaforiche e reali della galera e della soffocante struttura sociale imposta dal neoliberismo predatorio.
Un Finale di partita combattuto sulla scacchiera di Benjamin, dove l’ultimo pedone rosso riesce, allo stremo delle forze, a dare scacco matto al re nero sul cui mantello campeggiano le lugubri insegne del dominio secolare sugli oppressi.
Di tempo ne è rimasto davvero poco. E, come scrive Barbara:
«Forse è tempo di celebrare il fallimento di questa macchina di morte che nessuna versione ecologica può riesumare. Di incepparne il funzionamento. Anche senza tutte le rifiniture di programma, è questo il tempo. Per gli irregolari, gli illegali, gli scarti, gli indios, i comunardi. L’impasto che ci mette all’altezza di unaltra storia, interamente umana».
Riusciremo mai ad autogestirci in forme di comunismo realizzato? La sfida che ci dovremmo porre è questa. Nulla di meno.
E’ il tempo di gettare un cacciavite nell’ingranaggio per incepparlo. Senza attendere altri disastri. A debito delle nostre vite lucrano il Capitale e la Morte.
La rivoluzione è un atto damore. Siamo attesi!
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