C’era stato il tempo di Vittorio Foa e poi quello di Pietro Ingrao, non poteva mancare quello di Fausto Bertinotti. Il primo è servito a picconare in nome del realismo i diritti acquisiti dal movimento operaio. Il secondo a fungere da figura consolatoria mentre intorno a lui i partiti ai quali era iscritto mutavano geneticamente. Infine, e non poteva mancare, è arrivato il turno di Fausto Bertinotti, anagraficamente più giovane ma ideologicamente figlio dei primi due, delle loro ambiguità e delle innumerevoli interviste con cui per anni hanno occupato le pagine de Il manifesto, “dando la linea”.
L’intervento di Bertinotti al Festival di Todi, in un dibattito con un titolo di per se preoccupante ed emblematico – “I vinti giusti, un certo sguardo del futuro”, ha messo insieme tutti i luoghi comuni della traiettoria di chi negli anni passati ha sempre “parlato a sinistra per andare a destra”. Per finire dove? Nel limbo ideologico, politico e storico che alla fin fine riconosce come valori positivi solo quelli dominanti: i liberali e i cattolici. L’unica ideologia ad aver fallito? Quella comunista ovviamente, sostengono i “padri nobili della sinistra”.
Diventa appena un po’ più facile comprendere perché prima il Pci e poi il Prc si sono “liquesi” dopo essere stati logorati dall’interno e dai suoi gruppi dirigenti.
Il comunismo “ha fallito”. La cultura politica da cui si deve ripartire? “Quella liberale, che ha difeso i diritti dell’individuo”. Il gesto più rivoluzionario di questi anni? “Le dimissioni da Papa di Joseph Ratzinger”. L’unica delle tre grandi culture del Novecento che è in vita oggi? “Quella cattolica, che è stata rivitalizzata da papa Francesco che si sta guadagnando consenso e attenzione di mondi lontani”. Queste alcune delle “chicche” di Bertinotti a Todi che ovviamente la stampa di destra – e Libero in particolare – non ha esitato a sottolineare.
E poi, come di consueto, c’è il grande alibi dei mutamenti epocali, presi come tali, senza una disamina critica o una decostruzione che ne separi i dati oggettivi da quelli che la soggettività interviene a modificare. “Noi tutti siamo con un piede in un mondo che conosciamo e con un piede in un mondo che fuoriesce totalmente dal nostro quadro di conoscenze” ha detto Bertinotti e che “chiede una rifondazione delle grandi visioni del mondo. La sinistra che io ho conosciuto, quella della lotta per l’eguaglianza degli uomini, quella che chiedeva ai proletari di tutto il mondo di unirsi, è finita con una sconfitta. Io appartenevo a questo mondo. Questo mondo è stato sconfitto dalla falsificazione della sua tesi (l’Unione sovietica) e da un cambiamento della scena del mondo che possiamo chiamare globalizzazione e capitalismo finanziario globale”. E di fronte al liberalismo economico e politico che ha determinato questo scenario, oggi duramente messo alla prova dalla sua stessa crisi, cosa opporre?”Io penso che la cultura liberale- che è stata attenta più di me e della mia cultura all’individuo, alla difesa dei diritti dell’individuo e della persona contro il potere economico e contro lo Stato – è oggi indispensabile per intraprendere il nuovo cammino di liberazione”. “Io penso che la cultura liberale ha in maniera feconda scoperto prima, poi difeso e rivalutato il diritto individuale come incomprimibile. Se io oggi dovessi riprendere il mio cammino politico vorrei mettere nel mio bagaglio oltre a quel che c’è di meglio della mia tradizione, sia pure rivisitata molto criticamente, ma soprattutto ciò che viene portato dalla tradizione liberale e da quella cattolica”. Nell’affabulazione bertinottiana (cosa che gli riesce benissimo solo le prime due volte che lo senti) c’è un passaggio obbligato anche sul sindacato, alla vigilia dell’assalto finale all’art.18 e al dispiegarsi del Jobs Act. “ll sindacato in Italia ha subito una mutazione genetica”, ha detto Bertinotti ormai senza briglie. “È diventato un pezzo dello Stato sociale. Da 20 anni ormai ha smesso di avere una capacità rivendicativa autonoma, e si è messo a sedere ai tavoli di concertazione con governo e imprenditori”. Bertinotti infila una serie di osservazioni condivisibili per arrivare a conclusioni del tutto sballate “Qualcosa evidentemente non ha funzionato, e il sindacato è parte di questo qualcosa. Ha scelto sempre il male minore. Ma soprattutto ha scambiato la difesa dei lavoratori con un riconoscimento crescente del suo ruolo istituzionale. Hanno fatto meno contratti e sono andati più volte a palazzo Chigi”.
Insomma se non volevamo morire democristiani (e ci troviamo con i Renzi boys and girls che dilagano) al massimo potremo morire liberali? No, Bertinotti ci propone di morire liberali e democristiani insieme. Una bella traiettoria, non c’è che dire, e una conferma di più che negli anni Novanta, coloro che animano questo giornale, fecero non bene ma benissimo a non farsi irretire dal Prc bertinottiano. Guardatevi e guardiamoci sempre dai padri nobili della sinistra, hanno sempre coperto le svolte a destra dell’asse politico del paese.
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Luciano
L'”operazione”Bertinotti fu fortemente caldeggiata e voluta dal “partito”del Manifesto quotidiano, che era ed è ,a sua volta la mosca cocchiera di quel fronte elettorale e politico composto dalle cosiddette “teste pensanti”che dettano la linea (sic), di quella pseudo sinistra già allora totalmente connivente,anzi pianificatrice di devastazioni sociali ai danni dei lavoratori.E’ all’interno di quei governi “amici”che le classi dominanti hanno potuto sfondare e permettersi di attacare i lavoratori senza opposizione alcuna con la copertura a sinistra di questi futuri pentiti,che rispondevano ad un disegno preciso: lo smantellamento di ogni diritto sociale in ossequio ai poteri forti multinazionali.Perchè loro sapevano,eccome,chi erano Prodi, D’Alema,Veltroni, per tacere di Dini e Ciampi. Se le classi dominate sono ora piombate in uno condizione sociale che ricorda i servi della gleba,lo deve soprattutto a questi signori che la Storia non farà fatica a dimenticare.