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Barbie memento mori

A noi Barbie alla fine è piaciuto.

Il film ha catalizzato recensioni e commenti di tutte le varietà. Sembrerebbe quindi che scrivere qualcosa di nuovo sia impossibile, e che più che farsi prendere dalla smania di dire la propria sarebbe il caso di accontentarsi di un dignitoso silenzio.

Eppure, a giudizio di chi scrive e per la sfortuna di chi legge, tutto il dibattito non è riuscito a centrare i passaggi fondamentali del film. Ci si è incastrati nell’inutile polemica femminismo sì-femminismo no. Femminismo sì, ma è un film di Hollywood. Femminismo no, perché è un film di Hollywood. Femminismo sì, ma con un po’ più di rosso. Femminismo sì, e se lo vuoi più rosso sei sessista.

Come se Hollywood non dovesse fare film di Hollywood o come se qualunque critica ad un prodotto “femminista” (ancorché liberal) equivalesse ad un peccato mortale.

Proviamo allora ad entrare nel merito, chiarendo fra l’altro che “femminismo sì” è l’unica risposta giusta che ci si può dare se si rimane al piano superficiale su cui ci si è confrontati. Meglio un mondo capitalista in cui gli uomini decidono sulle donne, o un mondo capitalista in cui c’è parità fra i sessi? La risposta è semplice, e non serve essere compagn* per rispondere.

Su questa china però si perde un secondo piano di visione, che è quello che rende il film godibile, intelligente e a tratti profondo. Il vero limite è che questo filone purtroppo non è stato seguito fino in fondo e concretizzato nemmeno dagli stessi autori, lasciando il prodotto come un successo a metà.

Capire questo passaggio può allora avere un senso, anche perché permette di illuminare qualche aspetto sul modo in cui la questione di genere continua a creare equivoci e dibattito.

Andiamo con ordine, con il doveroso avvertimento che da qui in poi faremo qualche spoiler.

Barbie è un film costruito su due dicotomie sovrapposte. Quella uomo-donna, chiara a tutti, si insedia su quella più profonda reale-artefatto, concreto-astratto, carne-plastica, mondo reale-Barbieland.

I primi minuti sono sul lato astratto del dilemma, con la nostra protagonista “Barbie stereotipo” che vive nel suo mondo apparentemente da sogno, in cui ciascuna donna può essere quello che vuole. Cioè, può possedere quello che vuole, e fare il lavoro che vuole. Barbie ha la sua casa, la sua macchina, la sua merce. Barbie ha le sue amiche, e apparentemente nessun motivo di preoccupazione.

Al di là del giusto (e obiettivamente spassoso per chiunque non sia un maschio complessato) ribaltamento di ruoli fra uomini e donne, è chiaro che Barbieland è l’orizzonte di senso del mondo plasmato dal capitale. IndividuE realizzatE da lavoro e possesso: da lavoro che compra merci.

Dopo i primi dieci minuti di film abbiamo preso un bel respiro, spaventati dalla catastrofe di stereotipi e facili cliché ribaltati che poteva configurarsi.

Ma, poi, il dato interessante: l’armonia di Barbieland si rompe, e non per colpa della questione di genere. Sono i “pensieri di morte” che strappano dalla pantomima di un mondo di plastica. 

Barbieland è un mondo senza amore, senza sesso, senza riproduzione e quindi senza morte. In quanto tale, pur vinti (o, meglio, rovesciati) gli stereotipi di genere, è un mondo insopportabile da cui sia l’eroina che noi spettatori vogliamo inconsciamente fuggire. Senza il mondo reale che irrompe, il film sarebbe insostenibilmente vuoto, come lo è il mondo degli individui, la società liberale dove vivono le bambole.

Per catturarci Barbie ha bisogno di toccare il mondo vero; la donna-plastica, la donna-merce deve incontrare donne concrete, con le loro ansie e paure, con difetti materiali inspiegabili e irrisolvibili nell’orizzonte di senso di Barbieland.

Forse la scena più bella del film è quando Margot Robbie, arrivata nel mondo reale, si volta a guardare una donna anziana seduta con lei alla fermata dell’autobus. “Sei bellissima”, “Sì, lo so” è lo scambio di battute, e una lacrima scorre sulle guance di Barbie. È la merce che invidia la vita più che la donna che invidia il potere maschile la chiave di lettura del film.

Nel prosieguo questa contrapposizione continua a intersecarsi con quella più propriamente di genere, con risultati alterni. C’è Ken che scopre il patriarcato e lo riporta a Barbieland. Vera linea comica della pellicola, è innegabile che questa parte sia gestita, soprattutto in certi punti, con grande intelligenza e sensibilità.

Fa ridere e fa riflettere in maniera sacrosanta il povero Ken che scopre il patriarcato fatto di “uomini e cavalli”. Il ribaltamento degli stereotipi il più delle volte non è retorico, ma gioca con intelligenza le carte dell’ironia per smascherare piccole e grandi ipocrisie della giustificazione di un mondo a misura d’uomo e non di donna.

Ma arriviamo al punto più delicato e critico. La seconda parte e il finale del film non riescono a gestire in modo appropriato i due piani. Gradualmente la sola tematica di genere prende il sopravvento. Non è nemmeno un’intersezione, è una sottrazione dell’una – la dinamica reale artefatto – a favore dell’altra.

Sono le donne vere che risolvono i problemi delle Barbie, è il lavoro che risolve i problemi del capitale. Così alcuni dei dialoghi che vediamo assumono il tono di ipocrisia e retorica che fino a lì era stato magistralmente evitato.

Il culmine è quando America Ferrera parla alle Barbie della sofferenza reale delle donne. Alle donne è chiesto tutto, essere persone in carriera e madri, essere performative, essere un passo indietro e un passo avanti allo stesso tempo.

Il web è quasi saturo di questo tipo di monologhi, tanto da rendere il contenuto al limite della banalità. Per quanto sia facile identificarsi, nessuna scena del film è lì a spiegare perché la sofferenza della coprotagonista sia causata dal mondo degli uomini, o il motivo dei suoi pensieri di morte che ci avevano portato via da Barbieland. È un monologo scritto male, salvato solo da un’ottima interpretazione; una riduzione fuori contesto, un po’ vittimista un po’ paracula.

Qual è il punto, allora, l’insopportabile bugia? È l’artificio retorico che vuole appiattire la sofferenza psichica dei nostri giorni al solo problema del patriarcato. È la polvere sotto il tappeto, che salva capra e cavoli. Sofferenza reale proiettata su motivi parziali: siamo di nuovo nell’astrazione, siamo tornati a Barbieland.

Nel finale i due temi ritornano, alternati e mai risolti, tanto da lasciare un’impressione dolceamara, una confusione che riflette l’incapacità di spiegare il presente.

Abbiamo la predica di Barbie a Ken, che viene invitato a diventare individuo. All’unico personaggio “innamorato” del film viene gentilmente consigliato di “bastare a sé stesso”. Di trovare “nel proprio io” la sua fonte di soddisfazione.

Chiariamoci: se questo significa che Ken non deve uccidere Barbie in preda a un raptus di gelosia per non essere ricambiato, come si fa a non essere d’accordo con il messaggio? E però non si può non notare che siamo di fronte di nuovo a un mondo senza sesso e senza amore, senza riproduzione e senza morte, il mondo individualista delle merci.

Per fortuna la conclusione non è così semplice, perché la ricchezza dei problemi aperti dal film non può non avere una giusta chiusura narrativa.

Ci ritroviamo allora al dialogo di Barbie con la sua creatrice, che richiama in modo evidente il lessico del Capitale di Marx: “voglio essere una di quelle che creano valore” dice la bambola. La qualità delle immagini cambia, si sgrana, diventa amatoriale, donne vere sopra il bianco artificiale dello schermo, del dialogo immaginato.

È magnifica questa chiusura, perché ci dà luce sul vero protagonista (del piano più profondo) del film. È il capitale che parla. È il lavoro morto, la merce, che vuole diventare vivo. La bambola che si fa persona.

È il denaro che realizza, solo in pellicola, il suo desiderio impossibile e sempre negato.

La scena finale ci riporta su questo binario sotterraneo, messo da parte e poi ripreso: Barbie va dal ginecologo. Abbiamo la vita, la riproduzione, la realtà. Barbie vuole vivere, Barbie deve morire, Barbie memento mori.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

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10 Commenti


  • . Binazzi Sergio

    premetto che normalmente passo le mie serate in casa, e alla ricerca di qualcosa di decente da vedere in TV, cosa complessa, qualche volta si riesce a vedere un film decente quasi sempre film vecchi ma penso sempre meglio dei nuovi. altri programmi non mi interessano e sono tra l’altro faziosi. ma sicuramente faccio meglio così piuttosto che uscire per vedere film come barbie o come il sole dell’avvenire, non ne vale proprio la pena. i film la musica e altro rispecchiano marcatamente la misera società nella quale viviamo priva di ogni evento culturale. siamo caduti veramente in basso occorre un vaccino contro l’ignoranza ma non ne producono purtroppo gli sta bene così.


  • Eros Barone

    Gli estensori dell’articolo si pongono la seguente domanda: “Meglio un mondo capitalista in cui gli uomini decidono sulle donne, o un mondo capitalista in cui c’è parità fra i sessi?”, e, dal loro punto di vista ‘liberal’, ritengono ovvia la risposta. Ma la domanda è mal posta, poiché la parità fra i sessi in un mondo capitalista è illusoria e meramente formale (“quote rosa”, maternità surrogata ecc.), in quanto serve, in buona sostanza, come veicolo della instaurazione e diffusione totalitaria della forma-merce. Fermo restando che, data la polisemia del termine, la domanda preliminare è sempre quella posta da Lenin: “Per che cosa viene rivendicata la libertà?”, la giusta domanda, quella posta dalle femministe di orientamento marxista, va invece formulata in questi termini: “Può esserci un’autentica libertà delle donne senza che prima venga rovesciata la società divisa in classi?”.


    • Redazione Contropiano

      Non ci sembra che sia stato colto il punto della recensione.


  • M.P.

    Mia moglie ed io andiamo a vederlo giovedì sera. Grazie per la critica introduttiva … faró attenzione a quanto scritto. Saluti. R.P. Ffm. 🙂


  • T.S.

    Cari compagni, questa recensione mi pare sbilanciata verso il tentativo estremo di “salvare” il film in questione.
    Personalmente trovo più concreto quanto espresso qui: https://youtu.be/2f-ilUlaZas
    Saluti


  • Eros Barone

    Le mie serate seguono la stessa falsariga di quelle descritte da Sergio Binazzi. Riguardo al film in questione ritengo che “più che farsi prendere dalla smania di dire la propria sarebbe [stato] il caso di accontentarsi di un dignitoso silenzio”.


  • . Binazzi Sergio

    forse questo film è meglio collocarlo tra le innumerevoli ” armi di distrazione di massa “


  • m

    Oppenheimer, allora.


  • Comitato Gavinana

    NON C’È PIÙ SPERANZA. 🙈
    macché femminismo, barbie si conferma
    il film del capitale globale per il popolo bove🐮


  • Redazione Contropiano

    da Giancarlo:
    Premetto che non ho visto il film su Barbie e né intendo vederlo, perciò avendo letto l’articolo mi limito soltanto a porre alcune questioni di metodo:
    L’egemonia culturale americana si articola su molti strumenti, mediatici (cinema, fiction, giornalismo d’opinione, musica, letteratura, ecc) tutti volti a dettare idee, stili di vita, modelli, miti individualisti, comportamenti, consenso, ecc..).
    Tutta la produzione comunicativa è costruita per rivolgersi a due aree ben distinte del pubblico interno e internazionale, da un lato si sfornano valanghe di “spazzatura sottoculturale” acritica, prodotte in quantità esponenziale che invadono a dismisura tutti i media mondiali finalizzata ad omologare le larghe masse, dall’altro lato si producono opere culturali di buon livello critico, relativamente compatibili, per ceti intellettuali.
    Ciò avviene di solito in modo distinto, ma altre a volte alcuni “contenuti critici” in forma più o meno cifrata, vengono inseriti volutamente anche nella stessa performance a larga divulgazione per coinvolgere e soddisfare le esigenze (e la vanità..) di ristrette elites, alla fine però quello che si raggiunge è sempre e soprattutto lo scopo primario perseguito dell’opera attraverso la percezione che ne riceve la grande maggioranza, cioè quello di annichilire e devastare le menti di intere generazioni di giovani e meno giovani.

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