Un viaggio a ritroso nella memoria in una Milano che non c’è più. Un flusso di coscienza ininterrotto, che si muove incessantemente tra passato e presente, lungo i meandri di un tempo interiore che differisce da quello cronologico per la sua disomogeneità, facendosi ora denso, ora evanescente.
Un racconto, un’autobiografia, un affettuoso ricordo di Primo Moroni, la cui presenza aleggia tra le pagine, ma anche di tanti altri personaggi, noti, meno noti o senza nome, che animavano il capoluogo lombardo negli anni Settanta e che hanno intersecato più volte il percorso di Umberto Lucarelli.
Vicolo Calusca, pubblicato da Bietti nel 2018, è tutto questo, ma è anche altro. È infatti l’ideale antecedente di Gianmariavolonté, il penultimo volume dell’autore milanese, poiché accenna a figure e situazioni che verranno ivi sviluppate.
Ed è un libro scritto camminando perché, come sostiene lo scrittore, il muoversi favorisce il manifestarsi delle idee, idee che pian piano divampano come incendi e pervadono tutto l’essere di un io narrante che si confronta con il proprio vissuto di oltre quarant’anni fa.
Umberto passeggia lungo le strade di un quartiere, il Ticinese, in una città che è molto cambiata, e nel suo girovagare contempla il vuoto e il nulla che lo circondano.
Ma anche se la metropoli non è più la stessa, tutto in essa, ciò che è rimasto e ciò che è mutato, rimanda agli eventi, alle emozioni, ai rapporti umani di quattro decenni fa, quando egli era un adolescente idealista, parte di quel “Movimento” che, per svariate e complesse ragioni, implose all’inizio degli anni Ottanta dando luogo a un periodo di “reflusso”.
Se Gianmariavolontè, in cui Oreste Scalzone narra il suo legame di amicizia con il grande attore, è nato grazie alle registrazioni delle conversazioni tra Lucarelli e il fondatore di Potere Operaio, in Vicolo Calusca lo scrittore fa più volte cenno a dei nastri su cui aveva inciso le parole di Moroni, suo amico e mentore in gioventù.
Parole che, però, su quei supporti datati, resi quasi inintelligibili dal passare degli anni, sono in parte andate perdute. Le audiocassette, registrate circa un decennio dopo gli eventi che in esse vengono narrati, erano confluite in un manoscritto di 123 pagine nato dalla loro “sbobinatura” ma mai pubblicato, neppure dopo la morte dell’intellettuale, avvenuta nel 1998.
Ripensare a quegli intensi dialoghi diviene così il pretesto per restituire la voce a Primo ed affidargli il compito di tracciare un vivido affresco dell’ambiente e della varia umanità che si raccoglieva intorno alla “mitica” Libreria Calusca da lui fondata.
Il negozio era uno dei principali punti di riferimento per l’estrema sinistra milanese, “in cui si dava appuntamento tutto il nostro cosiddetto mondo”, per dirla con l’autore.
Esso era situato al civico 2 dell’omonimo ‘malfamato’ vicolo che dà il titolo al libro, un tempo regno della prostituzione, del malaffare e della ligera (la piccola criminalità meneghina): il suo nome deriva proprio da una vecchia casa di appuntamenti, la “Ca’ Losca”.
La libreria era nata nel 1971 dall’iniziativa di un collettivo che si occupava di organizzare iniziative culturali ed era gestita da Moroni insieme alla moglie Sabina.
L’idea di fondo era stata ripresa dalla precedente esperienza delle librerie Feltrinelli, con un taglio più militante, ma slegato dalle associazioni politiche. Nelle intenzioni del suo creatore, infatti, essa voleva essere “una struttura intermedia di servizio a tutti i movimenti esistenti”.
All’inizio la Calusca era frequentata principalmente da una clientela (ma il termine è riduttivo, in quanto si trattava di un luogo di aggregazione e di scambio, più che di un esercizio commerciale) che variava “dai bordighisti, ai protosituazionisti, ai consiliari, agli internazionalisti, gli anarchici, gli anarco-comunisti e comunisti libertari” (è Moroni stesso a esprimersi in questi termini) e in seguito vide transitare esponenti di gruppi come Lotta Continua, Potere Operaio, Autonomia Operaia e di collettivi di base di diverse tendenze, in un’ottica di inclusività.
Aveva l’intento di favorire gli editori minori nati sull’onda del Sessantotto, normalmente esclusi dalla grande distribuzione, come Bertani, Savelli, Mazzotta, ma anche di divulgare le pubblicazioni della grande editoria democratica, come Feltrinelli o Einaudi.
La libreria era inoltre una sede di confronto per i molti insegnanti che in quegli anni avevano iniziato a mettere in discussione i libri di testo tradizionali per mettere in pratica un’idea di scuola e di sapere che partisse “dal basso”.
Il negozio, nella sua lunga storia, cambiò più volte sede, per poi riaprire nel 1987, dopo un periodo di chiusura, in piazza Sant’Eustorgio e trasferirsi infine nel 1992, presso il C.S.O.A. Cox 18, in via Conchetta, dove si trova tuttora e in cui, dal 2002, ha sede l’Archivio Moroni, contenente migliaia di libri e riviste, opuscoli, ciclostilati, testi e audiovisivi sopravvissuti a traslochi, sgomberi e sequestri.
E’ stata ribattezzata “Calusca City Lights” nel 1995 in omaggio a Lawrence Ferlinghetti, che quell’anno ebbe modo di visitarla.
Primo Moroni, animatore culturale e ‘connettore’ tra modi di essere e pensare divergenti, era un personaggio carismatico, “con la faccia da cinese, gli occhi a mandorla e lo sguardo furbo” e il viso dal colorito giallognolo che terminava in una sorta di “pizzetto sfilacciato”: così lo descrive Lucarelli.
Stava buona parte del suo tempo seduto dietro il bancone del suo negozio, fino alle 21, nel quale si potevano trovare pubblicazioni “alternative” e organi di controinformazione, come Re Nudo, Primo Maggio, 150 ore, L’Arcibraccio, Solidarietà militante, le Edizioni aut-aut e innumerevoli periodici irreperibili altrove.
Il libraio era stato iscritto al PCI, ma dopo la morte di Giovanni Ardizzone (lo studente schiacciato da un mezzo blindato durante una manifestazione pacifista in Piazza Duomo nel 1962) ne era uscito.
Da ragazzo aveva lavorato nelle trattorie gestite da suo padre, dove aveva avuto modo di incontrare numerosi intellettuali, ma aveva anche fatto mille altri mestieri, dal ballerino al venditore di enciclopedie.
Con il giovane scrittore stabilì una relazione fatta di empatia, di stima e affetto e con lui intrattenne appassionati, lunghissimi dialoghi, raccontandogli le proprie esperienze, ma anche esprimendo la sua visione del mondo in maniera disincantata e a volte dissacrante.
Una parte del ritratto di Moroni viene tratteggiata dalla viva voce di un’avvocata che fu per lungo tempo sua partner, la quale ne mette in luce aspetti autenticamente ‘umani’, senza esitare davanti a debolezze e difetti.
Egli, infatti, aveva pose da ‘personaggio’ e un atteggiamento fortemente tranchant, non parlava mai della propria intimità, sapeva essere un grande affabulatore, ma era anche irascibile: “Esplodeva la sua rabbia all’improvviso e diventava furibondo e spaventoso, perdeva d’un tratto la bellezza che aveva di saper colloquiare con tutti, proletari e ricchi, malavitosi e borghesi, d’un tratto era una maschera d’odio”, ricorda la donna.
Il punto di vista sui fatti è comunque sempre quello di Umberto, l’io narrante, anche se egli spesso cede la parola ai personaggi che si affacciano alla narrazione, come nel caso di Moroni stesso.
I personaggi più peculiari della Milano degli anni Settanta fanno poi capolino nel racconto, a volte come fugaci apparizioni, a volte da protagonisti di episodi significativi: ecco, dunque, palesarsi il baffuto capo della “Banda Bellini” (immortalata anche da Marino Severini in un brano dei Gang), il redattore di Radio Popolare Umberto Gay, i già citati Oreste Scalzone e Gian Maria Volonté, gentile e affascinante, e poi Alda Merini, la “poetessa dei Navigli”, come pure Nanni Balestrini, Andrea Pazienza e numerosi altri.
Il racconto di Lucarelli si dipana tra contemporaneità e analessi, riportando alla luce moltissimi ricordi, tra i quali il più significativo e doloroso è quello della sua personale “perdita dell’innocenza”, quando a diciotto anni venne arrestato, insieme ad altri membri del Collettivo Antifascista Barona di cui faceva parte, senza aver commesso alcun reato, e dopo essere stato vessato dalla polizia venne trattenuto in prigione per sei giorni.
Un arresto che, con il senno di poi, risultò provvidenziale, perché evitò, probabilmente, il suo scivolamento nella lotta armata.
Queste le considerazioni dell’autore in merito: “Forse chissà, più avanti, senza quell’arresto, dopo essermi reso conto dell’inutilità della lotta di classe, dello ‘sparare col pugno’ alla luce del sole, mi sarei all’improvviso diretto verso la lotta armata in clandestinità, come apicale possibilità di contesa e di protesta… come scelta probabile e possibile e in definitiva ultima di cambiare una società falsa e ipocrita e corrotta in cui un giovane idealista non avrebbe potuto vivere”.
Ma potrebbe essere anche vero il contrario, dato che le violenze subite ingiustamente in quell’occasione avrebbero potuto suscitare in lui, per rivalsa, un’adesione alle frange più estreme che però non ebbe luogo: su questo punto l’autore si interroga lungamente.
Altre presenze fondamentali al fianco dell’autore sono state quella della sorella, con cui condivise la stagione delle lotte politiche, e di Ivano Tajetti, già presidente dell’ANPI Barona, l’amicizia con il quale nacque nel periodo dell’infanzia, quando giocavano per strada come ne I ragazzi della Via Pal.
Ivano, figlio di un partigiano, non condivideva le posizioni rivoluzionarie di Umberto ma gli fu molto vicino, in particolare in occasione di un drammatico episodio che lasciò una cicatrice indelebile nell’amico: la prematura scomparsa dell’amatissima nipote Sofia, morta a soli diciassette anni.
Ma Vicolo Calusca è anche una lunga e appassionata lettera di amore-odio al luogo in cui si svolgono le vicende, Milano appunto, tra vicoli, trattorie, appartamenti, scantinati, locali alla moda, traffico e inquinamento.
“Io ho amato questa città come ho amato l’illusione di poter fare qualcosa per cambiare il mondo”, dichiara lo scrittore, e aggiunge: “Forse la mia appartenenza a Milano è esistita solo in quegli anni… in cui pareva aumentasse il tempo, ogni anno erano dieci anni, ogni giorno un mese”.
Mentre passeggia per il quartiere Ticinese, Lucarelli ripensa alla propria giovinezza e alle sue intense giornate, tra riunioni, ciclostilati, volantinaggi, manifestazioni e ovviamente la sua passione per la scrittura che gli valse il soprannome di “Werther della Barona”: il suo primo libro, Non vendere i tuoi sogni, mai fu infatti concepito in quest’epoca anche se venne pubblicato nel 1987, con il sottotitolo di Il racconto di una generazione che credeva nell’utopia e con la prefazione dello stesso Moroni.
E poi le ragazze, le donne e gli amori (di Umberto, di Primo e di altri), i luoghi metropolitani come i centri sociali, il Casoretto, via Vigevano, piazza Sant’Eustorgio, la Darsena, la Barona: la realtà urbana odierna viene messa impietosamente a confronto con quella di allora e ne esce sconfitta, votata come è adesso alle logiche del profitto.
Così l’autore descrive le condizioni attuali del capoluogo lombardo: “una città che si è sempre piegata … agli interessi dei bottegai, alle aziende, alla speculazione edilizia, alle colate di cemento e agli affitti infami…
Una città e dei cittadini che non fanno altro che viaggiare e spostarsi in automobili puzzolenti e rumorose anche per brevi e brevissimi tragitti, una città di individui viziati, sedentari e scortesi che hanno fatto della velocità il loro motto, ma la velocità è un circolo vizioso che acceca, che non mostra, che non fa vedere le brutture del paesaggio”.
Nel tentativo di sfuggire al vuoto e al nulla, al senso di frustrazione suscitato dal vivere quotidiano, alle reminiscenze di una stagione ormai conclusa e delle persone scomparse troppo presto (molti protagonisti del movimento del Settantasette furono vittime dell’eroina, altre persone care a Lucarelli morirono prematuramente) l’autore prosegue il suo cammino lungo le strade di una città per la quale prova attrazione e repulsione:
“Continuo a camminare in questa città in cui sono nato ma che non ho mai sentito completamente come mia, c’è sempre stato un amore e un odio, una forte vicinanza, un grande desiderio di vivere a Milano e al contempo una voglia di scappare e di fuggire da una città arida e stordente e inquinata e ossessiva e a tutti costi, cosiddetta efficiente, ma alla fin fine brutta”.
La passeggiata di Umberto tra gli spazi urbani e quelli dell’anima è, in definitiva, un’indagine del sé, degli accadimenti e delle scelte compiute nell’arco di oltre quarant’anni.
Un tentativo di rimettere ordine nei ricordi, nei sentimenti, nelle emozioni e di ritrovarne il senso, senza timore di scontrarsi con il vuoto e il nulla come avviene nei Quattro Quartetti di T. S. Eliot, un estratto dai quali è posto in epigrafe al volume:
Per arrivare a quello che non siete
Dovete andare per la strada nella quale non siete.
E quello che non sapete è la sola cosa che sapete
E ciò che avete è ciò che non avete
E dove siete è là dove non siete.
Per Lucarelli dunque, come per la maggior parte delle persone, emerge ad un certo punto l’esigenza di “riportare tutto a casa”: “arriva così il momento in cui bisogna per forza ‘restituire’, in cui è assolutamente necessario fare qualcosa per gli altri, valorizzare tutto ciò che si è ricevuto e dare”.
Così l’ex ‘Werther della Barona’ consegna le sue righe al vuoto, al nulla e ai suoi lettori che, a loro volta, passeggeranno con lui per le strade di una Milano che non c’è più, la Milano di Moroni e di vicolo Calusca, e ne preserveranno la memoria per meglio comprendere il presente e il futuro.
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Antonio Spadafora
Nostalgia e amarezza..
Abitavo dalle parti di capecelatro dove nei bar pieni di zanza si buttava soldi al gioco e salute tra pacchetti di sigarette alcolici nottate e rabbia
Una sera del 95 per incontrare una donna che partecipava ad un evento in calusca pro Cuba pregai il mio amico scamun invernizzi di accompagnarmi in macchina che in calusca c’erano cubane che ballavano
Arrivati quando capì che c’erano solo libri e persone che parlavano di Cuba mi mando affanculo – vadavialchù mandarino terrone di merda-
Io e quella donna siamo ancora insieme e per colpa/merito del locdaun ci siamo sposati
Tra i mille motivi per cui le voglio bene c’è anche questo: la gioia e l’affetto con cui Primo Moroni salutò la mia compagna
Probabilmente se l’è trombata, pensai, ma l’accoglienza era stata con gioia e affetto
Così ebbi modo di conoscere di persona per pochi minuti il cinese a cui già volevo bene perché avevo letto qualcosa su di lui
Amarezza perché incombevano già il caimano e bossi e si capiva che si andava a finire cosi
Bell’articolo