Ci ha lasciati ieri, all’età di 93 anni, Giuliano Montaldo. Ultimo di quella generazione di registi, artisti, intellettuali – tra cui Lizzani, Maselli, Petri, Damiani, Pontecorvo, il primo Bertolucci, Pasolini – che facevano del cinema un momento alto della battaglia per le idee, della militanza e dell’impegno civile, politico, partigiano.
Un cinema popolare nel senso più genuino e politicamente definito, capace di parlare al pubblico attraverso una Macchina da Presa che si faceva fattore d’indagine e di analisi storico-sociale, fino ad incidere la realtà scrutandone trame e risvolti in chiaroscuro, con l’ambizione di comprenderne le contraddizioni e trasformarne le strutture in senso rivoluzionario.
Seguendo questa logica, i suoi film più conosciuti e importanti sul piano dell’analisi storico-politica e della ricerca di una verità non in linea con i dettami del Potere costituito furono senz’altro “Sacco e Vanzetti” e “Giordano Bruno”.
Entrambi, e non è un caso, vedevano come protagonista principale Gian Maria Volonté. Vale a dire un attore che aveva fatto della scelta artistica una precondizione esistenziale.
Una scelta e una condizione che Volonté rivolgeva, secondo le sue stesse parole «verso le componenti progressive di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario fra l’arte e la vita».
Accanto a queste due pellicole si devono però citare necessariamente film come “Tiro al piccione” (1961) opera prima «coraggiosa e anticonformista» come scrive Paolo Mereghetti.
“Una bella grinta” (1965) ritratto di un cinico arrampicatore sociale negli anni del boom.
E poi ancora “Gli intoccabili” (1969) con John Cassavetes. E “Gott Mit Uns – Dio è con noi” (1969) con cui, partendo dalla seconda guerra mondiale e dal nazismo (il titolo del film richiama il motto delle SS), il regista genovese mette in risalto l’ottusità del militarismo e il folle rigore della disciplina interna all’esercito del Reich.
Nel 1976, Montaldo riporta sul grande schermo le tematiche della Resistenza con “L’Agnese va a morire”,dal romanzo di Renata Viganò. Mentre nel 1978 gira l’inquietante, claustrofobico, visionario e preconizzante “Circuito chiuso” dove le immagini – allora filmiche e televisive – fagocitano la realtà.
L’anno dopo sarà invece la volta de “Il giocattolo”, film decisamente profetico anch’esso e incentrato sulla sempre crescente mania del possesso di armi.
Agli inizi degli anni ’80 girerà poi il primo kolossal italiano co-prodotto con la Cina, “Marco Polo”. E nel 1987 sarà la volta del dolente “Gli occhiali d’oro”, tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani.
L’impegno con RaiCinema allontanerà per qualche tempo Montaldo dalla regia, cui comunque tornerà nel 2008 con “I demoni di San Pietroburgo” e poi nel 2011 con “L’industriale”, ambientato in un’Italia dove il denaro è diventato l’unico Moloch.
Pellicole che hanno segnato profondamente l’immaginario collettivo del Paese, contribuendo alla costruzione di un forte pensiero critico in un’epoca in cui il cinema italiano – non ancora travolto dalla crisi creativa e produttiva che ne avrebbe sancito il ristagno nella mediocrità, a partire dalla seconda metà degli anni ’80 – aveva tanto da dire non solo in patria ma anche in campo internazionale.
Un cinema militante, come si diceva all’inizio, che aveva il merito di far riflettere, destare e scuotere le coscienze.
Senza edulcorazioni, ambiguità contenutistiche, mielosità ecumeniche e buonismi liberal.
Ma soprattutto capace di concedere davvero poco alle feroci leggi del mercato, con i suoi codici performanti e i suoi immaginari formattati.
Un cinema che era ovviamente anche il riflesso di anni in cui il processo rivoluzionario nella società era determinante in Italia come in gran parte dell’Europa.
Un processo che andava di pari passo con le sperimentazioni e le pratiche di nuovi linguaggi espressivi, i quali spesso potevano e sapevano finanche indirizzare e mostrare la strada ai fenomeni rivoluzionari.
Quanti ad esempio, dopo aver ascoltato il monologo di Bartolomeo Vanzetti (Gian Maria Volonté) sul finale di “Sacco e Vanzetti”, durante il processo intentato ai due anarchici italiani, hanno poi scelto l’anarchia o il comunismo? Quanti hanno cominciato a riflettere e a rigettare le strutture repressive dello Stato? Quanti hanno cominciato ad odiare gli Usa e il loro modello di vita classista e razzista?
E quanti, dopo aver visto “Giordano Bruno”, hanno messo in discussione i dogmi assoluti del potere ecclesiastico? Quanti hanno iniziato a farsi domande sulla fede e sulla scienza? Quanti hanno letto il Candelaio?
Fosse stato anche solo uno, e non lo crediamo, il cinema di Montaldo avrebbe colto nel segno.
La morte del regista – a sei mesi dalla scomparsa di Citto Maselli – lascia dunque una volta di più questo paese orfano di intelligenze in grado di concepire una “visione altra” della realtà dominata dall’eterno presente dell’ideologia del consumo e del mercato.
Un presente circoscritto nel suo linguaggio barocco, nelle sue reazionarie estetizzazioni, nei suoi retorici contenuti binari. E nelle sue derive pecorecce. Soprattutto qui, nel Belpaese.
Estrema periferia dell’impero a stelle e strisce, ai margini dei centri del potere economico-finanziario che impone ferrei vincoli di produzione e distribuzione anche per quel che concerne l’industria della creatività, con un bilancio risibile per gli investimenti nel cosiddetto settore dell’immateriale, la penisola con le italiche coscienze sembra ormai vittima di una quarantennale riprogrammazione culturale e ideologica.
Riprogrammazione i cui punti fermi sono sempre più la ‘memoria condivisa’, l”unità nazionale’, il volemose bene, l’ottusità patriottarda, l’esaltazione sciovinista e il machismo, con annesse esposizioni di culi e tette per il trastullo della “romana virilità”.
A ciò si aggiungano massicce dosi di serialità su capitani d’industria, ricchi borghesi vincenti, sussulti amorosi di giovani donne, adolescenti inetti e contenti della propria autoreferenziale castroneria, famiglie, santi, preti e monache. Ma soprattutto sbirri, sbirri, sbirri. Sbirri di tutti i tipi.
Sempre che non si investa su qualche bel prodotto della serie gomorroide e carceraria, con fallimentari quando non ribaltati intenti didattico-istruttivi.
In questo placido mare in tempesta, il cinema d’autore, tranne rarissimi casi in cui – diciamolo per chiarezza – non sono contemplati i premi Oscar, langue tra manierismi, presunte epifanie linguistico-formali, suggestioni superficiali e masturbazioni intellettuali.
Il tutto tenuto insieme da una desolante mediocrità. Trionfo dell’indistinto televisivo se non addirittura del nulla social.
Con Giuliano Montaldo se ne va allora uno degli ultimi esponenti di una genia di artisti e intellettuali capaci di vivere il cinema, il teatro, la letteratura, la recitazione, l’arte come grimaldello per scardinare l’impalcatura del potere e dell’ideologia dominante.
Come possibilità rivoluzionaria di trasformazione dello stato di cose presenti. Di sovvertimento del paradigma economico e culturale imposto dalle borghesie padronali, dai centri imperialisti e dalle dittature religiose.
Film come Sacco e Vanzetti o Giordano Bruno sono cacciaviti gettati nell’ingranaggio perfetto della catena di montaggio del pensiero unico imposto dal Potere. Attualmente incarnato da pseudo democrazie liberali a trazione mercatista.
Oggi, nell’epoca dell’omogeneizzazione delle coscienze, della post ideologia e della post verità, dove tutto è ‘originale’ e ‘rivoluzionario’ per quindici minuti o anche meno, non abbiamo quindi bisogno di altri registi, altri attori, altri letterati, altri intellettuali, altri artisti qualunquisti e da passerella.
Avremmo bisogno di visionari capaci di concepire una trasformazione della realtà attraverso la propria espressione, il proprio linguaggio.
«Chiedere a chi ha il potere di riformare il potere!? Che ingenuità!», diceva il frate nolano di Giuliano Montaldo.
Avremmo bisogno di chi il potere lo guardi dall’obiettivo di una macchina da presa e lo faccia a pezzi. Avremmo bisogno di partigiani.
Ciao Giuliano. Ciao compagno: «Here’s to you, Nicola and Bart/Rest forever here in our hearts/The last and final moment is yours/That agony is your triumph».
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Alessandra Borgia
Il gigante con le grandi mani…una minaccia che stringe la macchina da presa, usata come una potente arma contro il potere…chi oggi é in grado, in questo buonismo imperante, in cui una manifestazione chiude la bocca a tutto pur lasciando il nulla, di usarla così? E seppure ci fosse, i suoi film arriverebbero mai al cinema? E in piattaforma? No, mai…nessuno investirebbe…tranne forse il ministero…tanto poi il film testa nel cassetto e il ministro con tutto il ministero, passa x uno coraggioso
Bellissimo articolo, Vincenzo
Vincenzo Morvillo
Alessandra amica mia colgo l’occasione per ringraziarti qui anche del commento al precedente articolo. Oggi Giuliano sarebbe fuori dal sistema produttivo ma non solo. Sarebbe fuori dal contesto linguistico e creativo. Per il semplice fatto di immaginarlo un mondo, una lingua e un pensiero diversi. Un abbraccio