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Oppenheimer, un film sulla comunità scientifica in epoca di guerra

Ad ormai due settimane dall’uscita nei cinema italiani di Oppenheimer, un commento sembra d’obbligo. Non sull’arte cinematografica, per cui non ho le competenze, ma sull’effetto che la narrazione fatta sul grande schermo ha suscitato in chi, come il sottoscritto, fa ricerca nell’ambito della storia della diplomazia scientifica.

Sulla pellicola, scritta e diretta da Christopher Nolan, posso solo dire che a me è piaciuta. Nonostante tre ore di dialoghi senza soluzione di continuità, l’intreccio non mi ha mai annoiato, e del resto il regista sa bene come usare tutti gli espedienti hollywoodiani per attirare al botteghino.

Altro oltre queste opinioni personalissime non potrei dire dal punto di vista tecnico, mentre credo che molto ci sia da dire per chi si occupa di scienza. La prima cosa è che, a dispetto delle mie attese, il film è tutt’altro che una assoluzione a priori degli Stati Uniti (e da qui cominciano gli spoiler).

Sia chiaro, non c’è nessuna condanna di quello che è un crimine di guerra e uno strumento di una strategia di annientamento. Le motivazioni sull’uso dell’atomica da sempre diffuse dalla propaganda assolutoria di Washington sono ribadite anche nel film, seppur senza grande enfasi.

La preoccupazione di un ordigno nucleare nazista non aveva ragion d’essere da tempo, ma nel film ciò viene esplicitato solo a ridosso della resa tedesca, da un’assemblea di scienziati del Progetto Manhattan. Ma Oppenheimer pone fine all’incontro affermando che solo osservare il potenziale distruttivo della bomba avrebbe portato a una governance globale dell’energia atomica.

Tale posizione è messa in dubbio nelle remore stesse del protagonista, già cominciate e rinfocolate da alcuni dialoghi con Teller, il padre della bomba H. Ma ad ogni modo, Oppenheimer partecipa alla riunione in cui si decide dove sganciare gli ordigni e in cui viene accennato senza convinzione che, appunto, ciò accorcerà la guerra.

Di fronte alla leggerezza del Segretario alla Guerra Henry Stimson, il quale sembra voler escludere Kyoto perché lui e la moglie vi sono stati in luna di miele, è nel volto stesso di Oppenheimer che si legge la verità. Ai vertici di Washington vogliono usare la bomba atomica sui civili per mostrare la propria potenza ai sovietici.

Del resto, a parte qualche accenno, nel film i veri nemici non sembrano mai essere Hitler e i fascismi europei, bensì Mosca e le sue spie. Tutta la linea narrativa di Lewis Strauss e probabilmente una buona metà del film si concentra sul pericolo rosso e sul ritiro del nulla osta di sicurezza a Oppenheimer, per le sue frequentazioni comuniste.

In questo, il film è abbastanza esplicito: i nazisti erano un pericolo, ma quasi da subito il dominio dell’atomo fu terreno del futuro scontro con l’Unione Sovietica. Non ci potevamo di certo aspettare di sederci e guardare l’operato di un tribunale imparziale, ma almeno Nolan ha reso la complessità di quegli avvenimenti.

Quel che troviamo nel film non è la condanna dell’olocausto nucleare quale crimine contro l’umanità, ma una critica tutta rimandata alla dimensione morale personale. Essa viene incarnata da (alcuni) scienziati, mentre soldati e politici eseguono gli ordini – come un Heichmann qualunque – o portano consapevolmente l’umanità sulla strada della distruzione.

Due scene parlano esplicitamente in questo senso. La prima è quando Isidor Rabi viene convinto da Oppenheimer a far parte del Progetto Manhattan e, nel farlo, quest’ultimo indossa un’uniforme. L’amico accetta, ma gli chiede di togliersi quelle vesti, in quanto lui è uno scienziato.

L’apice di questo confronto, o dialettica se vogliamo, avviene nell’incontro tra Truman e Oppenheimer. Quando il protagonista dice di sentire le mani sporche di sangue, l’inquilino della Casa Bianca rivendica la «paternità» del massacro e lo congeda chiamandolo “piagnone”.

Chi ha studiato come realizzare Little Boy e Fat Man è solo uno strumento, chi ha premuto il pulsante è il politico. Figura in cui anche Oppenheimer si trasforma dopo aver capito come quella fosse l’unica via per portare avanti la propria «agenda atomica»: usare la propria influenza di grande intellettuale per spingere sul controllo internazionale della proliferazione nucleare.

Ma ci sono altre due scene del film che mandano in cortocircuito questo modo di raccontare le cose, non so se costruite volontariamente da parte di Nolan. La prima è la liberazione di Niels Bohr dalla Danimarca occupata dai nazisti, la seconda è lo sfogo di Lewis Strauss una volta rivelate le sue macchinazioni contro Oppenheimer.

Bohr, appena fuggito dall’Europa occupata, si ritrova suo malgrado a dare informazioni ai colleghi di Los Alamos, e subito si ferma e nega qualsiasi sostegno al Progetto Manhattan. Non c’è paura di un ordigno in mano a Hitler che lo possa spingere a collaborare con lo sviluppo della bomba atomica, e prendere parte così alla futura carneficina.

Ancor più potente del rifiuto di Einstein, quello di Bohr mostra che lo scienziato non è un semplice ingranaggio, pur senza essere estraneo alle sofferenze inferte dal nazismo. Le ha vissute, può dare un contributo non indispensabile ma certo utile alla prima arma nucleare, e decide di non farlo.

La seconda scena scardina ancora di più questa divisione tra tecnici e politici e li unisce nelle responsabilità. Strauss, mentre scorrono le scene della riabilitazione di Oppenheimer tramite una premiazione pubblica, afferma che è merito suo se oggi il nome dello scienziato è associato a Trinity, cioè a un test, e non a Hiroshima e Nagasaki, ovvero il crimine contro l’umanità.

Nell’osservare quei fotogrammi con sotto le parole di Strauss, credo che nessuno possa fare a meno di dire che è effettivamente così. Nolan voleva mostrare, come esplicita Einstein, i giochi della politica sulla vita delle persone, disinteressata a una sincera, anche se tardiva, crisi morale di Oppenheimer, ma ha anche reso il fisico parte attiva di quella storia.

Quello che a me queste scene hanno invece trasmesso è ciò che, finalmente, posso dire essere davvero interessante nel film, per chi si occupa di scienza. In questi due brevi passaggi della pellicola, appare quello che a me è sembrato esserne il vero e unico protagonista: la comunità scientifica.

Lunghi spezzoni di un film intitolato col nome di una persona mostrano come i grandi salti scientifici possano provenire solo dallo scambio di una collettività che riunisce tantissime specializzazioni. Di più, mostra che la scienza è diretta e finanziata secondo gli scopi politici e militari, e dunque secondo gli interessi dominanti di uno specifico modo di produzione.

Non c’è di certo nel regista alcuna intenzione di muovere critiche al capitale dato che, come ho detto, il messaggio si ferma alla soglia della critica morale individuale. Allo stesso tempo, sarebbe stato impossibile parlare del Progetto Manhattan senza mostrarne nel film il carattere di vera e propria mobilitazione industriale e scientifica centralizzata, con fini militari.

Facendolo, chi vive nel mondo della ricerca viene chiamato anche nella realtà a rispondere di una responsabilità collettiva interamente politica. La scienza non è neutra e lo scienziato è Bohr: può decidere come impiegare le proprie capacità, pur sapendo che l’azione individuale non può in ogni caso ribaltare le sorti del mondo.

Della sua scelta potrà pentirsi a livello personale, ma essa avrà pur sempre una dimensione politica e non tecnica, e le sue mani potranno essere sporche di sangue pur limitandosi alla fisica teorica, come faceva Oppenheimer. Un insegnamento da tenere presente in questa epoca di riaccesi conflitti.

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