Rita Di Leo non ha certo bisogno di presentazioni: è stata militante operaista, protagonista di Quaderni rossi e Classe Operaia, docente di Relazioni internazionali, illustre sovietologa.
In vista dell’uscita del suo ultimo libro L’età dei torbidi. Il ritorno delle trincee tra Stati Uniti, Europa e Russia (DeriveApprodi, 2023) le abbiamo chiesto, in questa nuova puntata del «Diario della crisi», alcuni commenti sulla situazione internazionale e sui protagonisti della guerra tra Stati Uniti, Europa e Russia.
In questa intervista e in questo libro, Rita Di Leo ci dimostra cos’è la lucida analisi del presente, il suo metodo è sempre caratterizzato dalla precisa lettura dei fenomeni storici, il quadro che delinea spiega bene il dramma della non-politica contemporanea.
La politica di potenza e quella che chiama «teologia del consumo» sono i fatti del tempo presente, gli uomini della moneta gli artefici, la politica-progetto e il principio-speranza gli scomodi esclusi.
Il conflitto è l’ovvio epilogo di una storia recente che ha escluso la politica e cerca di controllare e snaturare l’uomo animale politico. Zelenskyj, Putin e Biden sono gli ultimi artefici di un dramma che risponde a logiche di profitto, consumo e potenza. L’intervista è a cura di Andrea Rinaldi. (Effimera)
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Partiamo dal fondo e da un personaggio che citi appena nel tuo libro. Il presidente ucraino Zelenskyj mi pare che rappresenti appieno l’uomo non-politico di tipo nuovo di cui parli, lo strumento perfetto della teologia del consumo, che naviga nei torbidi della guerra, delle tecnologie comunicative e degli interessi privati. Sei d’accordo? In qualche modo non credi che Boris Eltsin, personaggio che hai ampiamente affrontato nel tuo libro, sia stato tra i primi di questi uomini politici?
Rispondo prima su Boris Eltsin, un uomo del sistema sovietico, che era in rotta col partito e con Gorbachev e che ha dato spazio a uomini del sistema che nei quasi dieci anni successivi lo hanno ribaltato, creato gli oligarchi e ,in parallelo, aperte le porte ai consiglieri dell’altro sistema, da cui erano fortemente ammaliati.
Invece per quel che riguarda Zelenskyj, sappiamo che ha appena licenziato l’oligarca che lo aveva fatto diventare presidente finanziandogli le elezioni e che sta pubblicizzando iniziative contro l’endemica corruzione del paese. In tal senso è un personaggio del tempo presente, un campione della comunicazione, un grande attore.
A me quello che interessa di Zelenskyj, è il fatto che sia il primo ebreo che è stato accettato dalla comunità internazionale in quanto politico. Non come Einstein, Oppenheimer o i grandissimi scrittori e poeti, no, come politico. Perché prima di lui c’è stato solo Disraeli ma convertito (e il francese degli anni trenta).
Zelenskyj, figlio di due scienziati, vissuto in un mondo russo-moscovita che ha imparato la lingua ucraina solo quando era d’obbligo, è il primo ebreo accettato dalla comunità internazionale, come non è mai successo prima, questo bisogna che sia chiaro.
Accettato dai polacchi e dagli ucraini che alle spalle hanno l’antisemitismo più barbaro. Accettato da Biden, nonostante quello che sa del suo precedente rapporto con Trump: è stata appena desecretata la trascrizione di un colloquio tra Trump e Zelenskij dove quest’ultimo ringrazia il primo per l’esempio-modello che è per lui e Trump riesce a infilare la richiesta di incriminare il figlio di Biden.
C’è un’immagine di Zelenskyj con Biden dove il presidente americano gli mette una mano sulla spalla come ad un altro suo figlio. Tieni presente che gli ebrei europei, nella loro esperienza di emigrati, avevano il terrore degli irlandesi cattolici, visti come quelli che li perseguitavano di più nei poverissimi quartieri di New York.
Invece non c’è un’immagine simile del presidente ucraino con Netanyahu perché Zelenskyj, amatissimo dalla comunità occidentale bianca, non lo è altrettanto in Israele, per via dei rapporti che quest’ultimo paese ha con la Russia.
La scelta di Zelenskyj è legata alla cultura che si ritrova perché giovane, un giovane che ha avuto la possibilità negli ultimi dieci anni di conoscere la società occidentale e le condizioni del terzo mondo, come anche quella di Israele. Lui vuole quella di Londra, New York, Parigi.
La vuole a tal punto da accettare il ruolo che lo scontro tra politiche di potenza ha riservato al suo paese, quello di combattere al loro posto, di far distruggere città, industrie, e soprattutto far morire la gente che vi abita, per la prospettiva di avere nel dopo guerra un posto al tavolo dei vincitori.
Da una parte il vecchio Putin, figlio di un operaio sovietico che ha costruito il suo successo nella guerra alla società extra-pianificazione ed extra-partito e celebra uno stato forte e indipendente che rinnega parte della sua storia – come è dimostrato dalle dichiarazioni su Lenin. Dall’altra un giovane attore, che costruisce il suo personaggio politico come il protagonista di un b-movie d’azione e rappresenta i valori occidentali del liberalismo. Per quanto riguarda le società ucraina e russa non credi ci sia anche questo scontro politico-ideologico a polarizzare i consensi?
È stato Eltsin che ha messo Putin al potere. Su Putin ho idee diverse da quelle predominanti. Non perché mi piaccia che sia andato dall’oggi al domani a buttare le bombe sull’Ucraina. Per me Putin è un politico professionale. È figlio di un operaio, ma figlio di un operaio dell’aristocrazia operaia, è stato mandato a scuola dove ha conosciuto un’insegnante di tedesco, ebrea, che lo ha preso nelle sue mani, convincendo la famiglia a farlo studiare. Non è solo figlio di operaio, è figlio della voglia di migliorare il sistema. E quando ha capito che era impossibile, lo ha mollato.
Il 12 settembre è apparsa la notizia che Putin ha detto che i sovietici avevano sbagliato ad andare in Cecoslovacchia e in Ungheria. Così come il giorno prima della aggressione all’Ucraina aveva detto che Lenin e Stalin avevano sbagliato a dividere il suo gran paese in repubbliche formalmente autonome, perché prima o poi l’autonomia l’avrebbero pretesa. Come è poi successo nel 1991.
Se noi continuiamo a vedere Putin come un uomo del sistema sovietico, sbagliamo. È un politico professionale che è stato per sei anni in Germania, conosce il tedesco, conosce la società occidentale come mai era successo a nessun altro politico sovietico.
Perché però ha invaso l’Ucraina? Perché pensava che era «roba sua», che era parte della Russia, questo ce lo dobbiamo mettere in testa. Perché se ce lo mettiamo in testa facciamo prima a trovare la soluzione affinché questa guerra finisca, questa tragedia terribile, questi terribili bombardamenti, questi ammazzamenti di soldati, anziani, bambini.
Ci dobbiamo mettere in testa cos’è per un russo l’Ucraina. Sono stata tante volte in Russia e in Ucraina. Per il russo era scontato che l’Ucraina stesse un passo inferiore a loro, un po’ come per un piemontese il nostro Sud. L’Ucraina è diventata industriale, industriale-agricola in gran parte per iniziativa dei tre ultimi segretari del PCUS, ucraini tutti e tre, Kruschev, Brezhnev e Chernenko, di origini operaia i quali fecero l’industrializzazione del loro paese e la meccanizzazione dell’agricoltura per farsi perdonare quello che Stalin aveva fatto nella guerra contro i contadini ricchi all’epoca della collettivizzazione. Putin è d’accordo con quest’accordo e anzi lo rivendica.
La cosa di cui dobbiamo renderci conto è che siamo in uno scontro tra l’America e la Russia, dove purtroppo c’è andata di mezzo l’Ucraina, per le ambizioni di Zelenskyj e dei suoi giovani ministri. Ma lo scontro è tra l’America e la Russia: non un solo soldato americano e neppure un ungherese, polacco, estone sta in trincea, ci sono i poveri ucraini e i poveri russi.
Ma la responsabilità è da una parte di Putin e dall’altra di Biden (e del suo ministro di origini ucraine Anthony Blinken) e nel mezzo c’è l’ambizione di Zelenskyj di diventare un grande politico europeo.
Tu scrivi: «La teologia del consumo vive di un accordo tra gli uomini della moneta e gli uomini della tecnica e della scienza, e ha posto ai margini l’uso della fede e della politica». La società occidentale contemporanea che incarna questa teologia del consumo si è quindi liberata dalla politica e sta procedendo per scomporre l’uomo-animale-politico a favore di una classe dirigente di tipo nuovo. Questo processo nasce e si sviluppa con la fine violenta del Novecento, ovvero quando l’Unione sovietica implode? Quando quello che tu hai chiamato l’esperimento profano di Lenin viene sconfitto?
Forse l’ostracismo della politica è cominciato prima della fine dell’Urss. L’analisi per capire l’ostracismo è mettere a fuoco l’integrazione tra gli uomini del denaro e gli uomini della scienza informatica che ha fatto nascere la teologia del consumo.
Nel libro chiamo il basement di Filene, la «culla» della teologia del consumo. Sembra una battuta, ma non lo è. A Boston c’è un enorme supermercato non alimentare. Io ho vissuto a Boston e Cambridge un anno (ho studiato ad Harvard e al MIT) e un’ amica mi disse vuoi fare buone spese? Vai al basement di Filene.
Il proprietario, Filene, si era inventato di vendere nel sotterraneo del grande magazzino, a un decimo dei prezzi, ogni tipo di merce. Un gran successo. Pensa alla Cina. Poter comprare, possedere, consumare ha riempito gran parte del nostro quotidiano, lasciando poco tempo e interesse per altro. Se non ce ne rendiamo conto, non ci rendiamo in quale tragedia stiamo. Non so se ti ho risposto.
Le elezioni presidenziali statunitensi del 2024 ci sembrano dirimenti nello scacchiere internazionale. A margine di un articolo del 2018, riportato nel libro, definisci Joe Biden un intermezzo. Credi che il futuro presidente sarà nuovamente il «primo uomo della moneta assurto alla massima carica politica» ovvero Donald Trump? O forse la sua compromissione più mediatica che reale con il leader russo affosserà il suo sogno di ritornare alla Casa Bianca?
Non credo proprio che Donald Trump sia messo in difficoltà dall’elogio di Putin. Putin ha elogiato Trump (e Musk) e ha detto che l’URSS aveva sbagliato a mandare i carri armati contro l’Ungheria e la Cecoslovacchia.
Nell’anno in America ho imparato che molto più che in Europa: la società è divisa tra un élite culturale ma anche finanziaria e legale, e la plebe, non il sottoproletariato di Marx, non il popolo degli stati nazione, la plebe dei secoli lontani.
Trump è il presidente della plebe, ora la plebe non legge ma ascolta la radio e vede le televisioni. Quali radio e televisioni? Quelle locali. Il New York Times lo legge solo l’élite. Gli altri non leggono; ma se lo fanno, leggono il giornale di provincia.
Se Trump ce la farà, sarà perché è in grado ancora una volta di convincere la plebe. È chiaro che noi vogliamo che non la convinca e che venga fuori un altro, ma chi? DeSantis, che sembrava aver una chance, è peggio di Trump.
L’esito delle elezioni americane è veramente decisivo, per noi europei. Però quello che dobbiamo metterci in testa è che noi europei, italiani in particolare, negli ultimi decenni, avevamo la possibilità di avere idee «nostre» e di sapere come collocarci. In America c’è questa élite che è spaventata all’idea che vinca Trump. Ma cosa può fare? Biden è proprio anziano, si dimentica le cose e gli può succedere che venga allo scoperto che ha appoggiato sin troppo il figlio.
Biden ha certamente perso consensi negli ultimi due anni e ci pare che la sua politica estera sia stata dettata anche dalla necessità di riprendere il terreno perso, come anche da interessi economici e dall’influenza del segretario di stato Blinken ferocemente antirusso. Quello che però dall’esterno sembra più determinante è una classe dirigente, quella che chiami piccola élite, intenzionata a recuperare il suo predominio globale e forse sogna ancora il ritorno all’egemonia pre-2001 ovvero a quello che tu chiami unipolar moment. Credi che ancora non si siano arresi alla concezione di un mondo multipolare?
Certamente, loro quello vogliono, vogliono tornare all’unipolar moment. Dal punto di vista culturale sono i neocons, e i neocons sono nei think tanks, nei giornali che si leggono, sono dappertutto e credo che loro vorrebbero tornare al periodo di Clinton-Bush.
Il periodo di Clinton è stato quello che ha dato più soddisfazioni sulla scena internazionale, perché Bush alla fin fine è stato il presidente delle spedizioni fallite in Iraq e Afghanistan. Pensare a Bush è quindi difficile, la politica estera di Clinton è stata soddisfacente.
Per noi no, questo dobbiamo tenerlo ben presente. È Clinton che ha impedito all’Unione Europea di farsi un esercito, una costituzione, di stare sulle proprie gambe politiche, militari, istituzionali e cosi via. I nostri sogni erano diversi, e abbiamo dovuto rinunciarvi.
Invece che cosa sognano i russi?
I russi sognano il primo Putin, il Putin dei primi suoi dieci anni, che diede la sicurezza del salario, le pensioni, l’ordine nelle strade e dichiarò «noi siamo ancora una potenza e ci dobbiamo comportare come tale». Americani e russi sono come la Francia e la Germania nel 1870, questo l’ho detto e lo ridico, all’epoca si fecero la guerra e non si capisce perché, se non per ragioni di politica di potenza, non certo per l’Alsazia e la Lorena.
E oggi le ragioni della guerra che si sta combattendo sono ancora quelle della politica di potenza, i protagonisti che contano sono l’America e la Russia, il campo di battaglia è l’Ucraina.
Le strategie sono quelle della prima guerra mondiale, i russi si difendono come sono in grado di fare, cioè con le trincee, mentre gli americani hanno il terrore di mandare le armi nucleari ai giovanotti al governo e agli oligarchi al potere a Kiev, perché aveva ragione Oppenheimer convintosi che dopo la bomba atomica non ci potevano più essere delle vere guerre perché significavano distruzione per tutti.
Infatti da allora ci sono state delle medie e piccole guerre, giacché gli uomini senza guerra non sono capaci di stare, ma quelle in cui utilizzare armi nucleari, quelle no. Ripeto – concludendo – che la guerra in Ucraina è uno scontro di politica di potenza tra l’America e la Russia e di mezzo c’è un paese che Putin e Zelenskij stanno distruggendo, un paese bellissimo.
Devi andarti a rileggere Isaak Babel’, è lui che ti spiega come sono fatti i russi e gli ucraini, e quanto sarà difficile farli smettere di prendersi a pugni.
«La pratica della politica, con le sue istituzioni, con i suoi sacerdoti, e con il dio del principio speranza è stata espulsa dalla società del consumo» scrivi nelle tue conclusioni. Ci sembra che questo oltre alle precise e lucide analisi sia il filo discorsivo principale del tuo libro. La politica come tu dici è stata indubbiamente rimossa nella società occidentale attuale. Ma se l’uomo cessa di essere animale politico a solo vantaggio degli uomini della moneta, il conflitto sociale, che pur sempre esiste, che ruolo gioca?
Riteniamo che sia appunto individualizzato, fuori dal qualsiasi contesto progettuale, collettivo e quindi politico, e che si riproponga solo come rivolta, spuria, caotica, fine a sé stessa, ma che nonostante ciò, nel conflitto, e nelle sue riproposizioni, risieda l’unica possibilità di un ritorno ad una politica-progetto. Vedi nel quadro della guerra e del ritorno delle trincee delle linee di conflitto?
Tu mi stai chiedendo se io credo nel principio speranza. Posso dire che ci credo, però il conflitto sociale lo hanno distrutto attaccando le sedi dove il conflitto sociale nasceva. Non ci sono più le sedi, non ci sono più gli stabilimenti, non c’è questo, non c’è più il «da una parte il padrone e dall’altra parte una società che non lo accetta», no.
La tragica situazione in cui siamo oggi è che ci sono questi uomini del denaro e anche della scienza informatica, perché non abbiamo detto nulla di quello che la scienza informatica ha regalato agli uomini del denaro e a chi comanda.
Tu stai parlando del conflitto sociale a una persona che se ne è occupata personalmente e lo ha visto cadere insieme alle strutture su cui si reggeva, che erano strutture che i padroni hanno dismesso con la delocalizzazione ma anche perché il partito che se ne occupava ha smesso di occuparsi dei bisogni e ha preso ad occuparsi dei diritti civili di cui agli operai – e ai soggetti protagonisti dei conflitti sociali – non importava niente.
Il conflitto sociale come lo abbiamo conosciuto non c’è più e non potrà più esserci, perché hanno fatto in modo di distruggerlo. Quindi noi di che cosa abbiamo bisogno? Di una persona, di una mente che sia insieme Hobbes, Locke, Lenin e persino Roosevelt, perché sennò l’America rimane fuori, persino Johnson.
Abbiamo bisogno di qualcuno che si inventi una nuova teoria che sia in grado di vedersela con i padroni dei big tech e i padroni del denaro, gli uomini del denaro.
Finisco con un’ultima considerazione: sono molto impressionata dall’intelligenza artificiale, dei danni che può fare all’intelligenza. Questo è il problema, il vero problema. Il conflitto sociale nasce da chi ha convinto il lavoratore, quelli che io chiamo «gli uomini del fare», a lottare contro i padroni.
Quelli che io chiamo «i lavoratori della testa» sono i peggiori nemici di questo momento, di questo tempo storico che stiamo vivendo. Io non vivrò a sufficienza per vedere come uscire da questa tragedia in cui siamo oggi. La tragedia è il fatto che sono riusciti ad uccidere il principio-speranza nei lavoratori. E ci sono riusciti con l’intelligenza artificiale, questo è quello con cui posso finire.
Noi esseri umani, siamo cresciuti con il principio speranza e lo stanno distruggendo, speriamo che riesca di nuovo a nascere.
****é
Andrea Rinaldi si è laureato in scienze storiche presso l’Università di Bologna con una tesi sul pensiero di Mario Tronti nei «Quaderni rossi» e «classe operaia». Ha fatto parte della redazione di Commonware.
Rita di Leo è professore emerito di Relazioni Internazionali, Università Sapienza di Roma. Protagonista della stagione dell’operaismo italiano, ha contribuito alla nascita dei «Quaderni rossi»
e di «classe operaia». Ha investito il suo lavoro intellettuale da un lato sull’operaismo sovietico e sulle cause del suo fallimento, dall’altro sull’apparente vittoria degli Stati Uniti e del capitalismo
occidentale. Tra i suoi numerosi libri segnaliamo Lo strappo atlantico. America contro Europa (2004), L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa (2012), Cento anni dopo. Da Lenin a Zuckerberg (2017), L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo (2018). Il suo ultimo lavoro è L’età dei torbidi. Il ritorno delle trincee tra Stati Uniti, Europa e Russia (DeriveApprodi, 2023).
Articolo pubblicato su Machina
Articolo tradotto in spagnolo pubblicato su El Salto
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Leonardo
Mi chiedo se nel suo prossimo libro l’autrice (che con ‘L’esperimento profano’ ci ha dato forse l’interpretazione più convincente dell’esperienza sovietica) spiegherà il più incredibile fenomeno degli ultimi due decenni (dopo, intendo, le frizioni inter atlantiche senza precedenti, seguite alla guerra irakena di Bush jr).
Ovvero: la completa irregimentazione (al netto di dettagli commerciali) di tutte le classi dirigenti europee in una oligarchia anglo-sasso-transatlantica (e importanti addendi asiatico-oceanici) che ha avuto il definitivo suggello nello scoppio della guerra nel 2022. Una guerra che, oltre ai rischi di annientamento nucleare, condanna all’estinzione quel che resta del ‘modello europeo’ (nuova e dannosa dipendenza energetica, inaridimento dei canali export, deindustrializzazione, stato di guerra permanente difficilmente giustificabile ai propri popoli, …). Altro che Polo imperialista Europeo …
Si può solo avere una pallida idea di quanto ‘lavoro’ ci sia voluto in termini di hard e soft power (economico, mediatico, dossieraggi, concentrazione ‘mirata’ dei capitali, etc.). L’approccio ‘elitista’, a cui Di Leo presta da anni particolare attenzione, dovrebbe pagare qui qualche dividendo e dare indicazioni sulla sostenibilità/reversibilità o meno del fenomeno. E sugli scenari futuri nel nostro continente.
Infatti la premessa degli Operaisti degli anni ’60 (se ne è parlato anche qui, mi pare, riesaminando la figura di Tronti), che la conflittualità operaia è il ‘primo mobile’ del sistema capitalistico di produzione (plausibile nei Sixties), non ha retto di fronte alla “creatività” del Capitale degli ultimi 50 anni: la stessa Di Leo lo dice nell’intervista (“il conflitto sociale lo hanno distrutto attaccando le sedi dove il conflitto sociale nasceva”). Piaccia o no, è quest’abbietta oligarchia (tramite i suoi burattini politico mediatici) che ha in mano il pallino e solo la sua hubris/inettitudine può riaprire spazi di manovra ‘indigeni’.
Certo … resterebbero altre ‘bazzecole’ (si fa per dire …) a cominciare dalla riaffermazione di un qualche ‘principio di realtà’, riunendo i cocci lasciati dal ‘pensiero debole’ (con tutto il rispetto e cordoglio, ogni allusione è voluta).
Andrea Vannini
eltsin e gorbachev, due rinnegati e traditori esemplari: il nemico marcia spesso alla tua testa. zelenskij che combatte la corruzione? (non la sua) una recita per la quale non serve un attore, menchemeno grande. l’ oligarca che lo ha “scoperto” licenziato? i gangsters lavorano così. é piu’ interessante che sia il primo ebreo accettato dalla comunità internazionale (quale?) o il primo ebreo fascista? la mano sulla spalla significa: questo quaquaraqua é mio.