Il Laboratorio teatrale dell’Assedio è iniziato ad ottobre all’officina del popolo Valerio Evangelisti dopo una conoscenza fatta durante la festa popolare del quartiere della Bolognina – Oltre al Ponte – organizzata due volte l’anno dal circolo Granma.
Una collaborazione fruttuosa, decisamente contro-corrente rispetto al panorama cittadino dove il bisogno di costruire relazioni attraverso l’arricchimento culturale è sublimato dal consumo tout court e in cui il teatro di impegno civile sembra essere stato archiviato dalle istanze artistiche.
Una città, Bologna, in cui ciò che un tempo era trasgressione diventa spesso una paccottiglia nostalgica dai costi elevati da consumarsi dentro eventi culturali costruiti per privatizzare lo spazio pubblico.
Non è così per il laboratorio del teatro dell’assedio.
Il mercoledì e giovedì sera di ogni settimana più di 40 partecipanti, per la maggior parte giovanissimi – anzi giovanissime – hanno seguito il percorso del direttore della compagnia Michelangelo Ricci.
Ricci, lavorando molto sul gruppo e sulle singolarità, ha traghettato i partecipanti lavorando sull’intonazione, la dizione e la chiarezza dell’espressione, la tensione corporea da avere in scena e le coreografie.
Durante questi 6 mesi si sono tenuti 3 spettacoli intermedi all’ Officina del Popolo a San Donato per iniziare a portare i partecipanti in scena ed aiutare l’autofinanziamento del laboratorio, in cui ragazzi alle prime armi si sono “messi in gioco” apprendendo i rudimenti per calcare un palcoscenico teatrale.
Il primo spettacolo realizzato è stato “Marci su Roma”: in occasione della ricorrenza della marcia fascista nella capitale.
La seconda rappresentazione è stata: “Ci vuole un fiore”, spettacolo del teatro dell’assedio e della compagnia ribolle – con una utilizzazione virtuosa e poetica delle bolle di sapone – centrate sulle canzoni di Rodari, eseguite ad Alessio Lega, ed interventi del laboratorio nella messa in scena di alcune canzoni.
Una terza tappa è stata la realizzazione di Cubo cubo cubo, in cui ogni partecipante al laboratorio ha portato su un palco quadrato le proprie dichiarazioni intervallate da canzoni o sketch di gruppo.
Il laboratorio non prevedeva il pagamento di una quota per la partecipazione, ma la “restituzione” di ciò che veniva appreso è stata effettuata attraverso il lavoro delle persone coinvolte, con il montaggio, lo smontaggio e la promozione degli spettacoli mettendo a frutto una cooperazione sociale complessiva che non si esauriva nella performance teatrale.
In un contesto caratterizzato dalla mercificazione dell’attività culturale e da un approccio individualista alla creazione artistica, il laboratorio è stato uno spazio gratuito e collettivo di espressività, che non ha subordinato queste caratteristiche alla qualità artistica espressa.
Lo spettacolo di chiusura – Dall’alto dei cieli bombe https://contropiano.org/eventi/bologna-dallalto-dei-cieli-bombe – ne è forse l’esempio più evidente.
La rappresentazione nasce dal repertorio di Michelangelo e della compagnia che i membri del laboratorio hanno imparato nei mesi, partendo dalle dichiarazioni personali in Cubo cubo cubo che raccontano un disagio esistenziale di una generazione tradita, di cui la forma del teatro politico è divenuta strumento di espressione per denunciare lo sfruttamento lavorativo, la precarietà sociale, l’oppressione di genere ed un generale svuotamento di senso delle nostre esistenze.
Involontario ispiratore di quest’ultima fatica artistica è stato Il clima di guerra in cui è precipitato l’Occidente per lo sciagurato avventurismo bellico delle sue classi dominanti, che è in parte motore di questa angoscia esistenziale e generazionale cui il teatro fornisce uno strumento di denuncia ed uno sbocco positivo alle inquietudini di chi sale sul palco e di chi assiste allo spettacolo.
Il risultato è una forte empatia tra i sentimenti corali dei membri del laboratorio e gli “spettatori” per la maggior parte a loro coetanei che vedono proiettati sul palco sogni e incubi di una generazione, accompagnati o “costretti” a riflettere su una realtà che non può non toccargli.
Ragionare in primis sul fatto che in altri contesti anche molto vicino a noi i giovani sono costretti a divenire “carne da macello” per gli appetiti bellicisti dei potenti.
Ed è un percorso per niente lineare quello seguito dalla narrazione teatrale dove picchi drammatici si alternano a pezzi di vero e proprio cabaret, con un ostentato gusto per il vaudeville e venature gotiche, in cui l’uso degli strumenti musicali e del canto si alterna ad una potente creazione di suoni che danno un ritmo martellante e coinvolgente, talvolta da danza delle streghe.
Centrale nella strutturazione dello spettacolo è la coralità e l’uso del coro in senso profondamente pedagogico e mai didascalico, e non solo scenografico, brechtiano insomma.
In questo senso il teatro ritrova la sua vocazione di impulso ad agire in senso collettivo per non assuefarsi alla catastrofe partendo da un grido non più soffocato, un bisogno di esprimersi che coralmente diventa necessità di riscatto.
Così, ai microfoni dell’emittente radiofonica bolognese Radio Città Fujiko, Michelangelo spiega la genesi dello spettacolo.
Dalla guerra alla repressione delle manifestazioni per la pace, gli avvenimenti mondiali degli ultimi mesi hanno avuto un grosso impatto sulla creazione dello spettacolo: «dai cieli dovrebbe venire visione e speranza, invece cade la morte, il sopruso», afferma il regista, «tutti hanno cominciato a ragionare sui soprusi sia quotidiani che epocali o sociali, e ognuno ha portato delle istanze».
Il risultato è uno spettacolo autogestito e creato insieme, in cui «parte della scrittura sono le loro dichiarazioni», sottolinea Michelangelo Ricci, permettendo così di «ascoltare le urgenze di una generazione».
Il risultato è uno spettacolo-manifestazione di rara potenza.
Spettacolo-manifestazione appunto, e non spettacolo-intrattenimento, come presa di parola pubblica antimilitarista e punto di caduta di una ideologia bellicista che non fa presa, in specie tra le nuove generazioni, nonostante la perpetua propaganda di guerra.
Per i membri del laboratorio le ultime settimane sono state particolarmente intense, con uno sforzo premiato dall’afflusso di pubblico.
La prima dello spettacolo ha visto circa 400 spettatori in sala, mentre la seconda (probabilmente complice un passaparola dopo la prima riuscitissima) ha riempito la sala gialla del DLF con quasi 650 persone. In entrambe le sere sul finale è scattata la standing ovation sul coro per la Palestina, seguita da una festa.
Il circolo Granma ha coordinato la difficile logistica, e si è dimostrato ancora una volta un pezzo vitale per chi vive nel quadrante Nord della città.
Uno schiaffo in faccia a quell’universo culturale della “città più progressista d’Italia” incapace di incarnare quello spirito critico e quella spinta all’azione, ma esprime solo una sostanziale subordinazione all’“artwashing” delle scelte di una giunta guerrafondaia, ecocida e che da la letteralmente la caccia a chi non può permettersi di vivere nell’ipotetico paradiso per le classi abbienti ed il turismo mordi-e-fuggi in cui vorrebbero trasformare il capoluogo emiliano.
Come scriveva Dario Fo: “C’è una regola antica nel teatro. Quando hai concluso, non c’è bisogno che tu dica una parola. Saluta e pensa che quella gente, se tu l’hai accontentata nei sentimenti e nel pensiero ti sarà riconoscente”.
E al laboratorio del teatro dell’assedio siamo profondamente riconoscenti.
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