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I David e la colonizzazione del simbolico

La 69esima edizione dei David di Donatello conferma la oramai acclarata subalternità del mondo del cinema – non solo italiano, beninteso – alle logiche produttive e distributive. Che vuol dire al botteghino e al profitto.

A parte il meritatissimo premio a Elio Germano come miglior attore non protagonista (Palazzina Laf) capace di costruire un personaggio laido e subdolo, servile col padrone e spietato con i lavoratori; e a Michele Riondino, operaio lacerato e compromesso, ignorante e colmo di risentimento, nella stessa pellicola di cui firma anche la regia… il resto è puro conformismo in salsa “sinistrese” (nel senso “liberal-democratico”, insomma).

Le statuette alla Cortellesi per il miglior esordio alla regia (C’è ancora domani), per la miglior sceneggiatura originale e come miglior attrice sono uno schiaffo all’intelligenza registica e alle giovani generazioni, alla capacità drammaturgica e all’arte attoriale.

Riporto dalla recensione che scrissi per questo giornale: «L'”opera prima” dell’attrice romana risulta, sin dai primissimi quadri, un irritante concentrato di cliché senza alcuna potenza espressiva.

Enfatico nella proposizione delle scene topiche, prontamente appesantite da sottolineature recitative e registiche, finisce coll’apparire stucchevole nel suo quasi arrogante didascalismo “di sinistra”. Un film banale sul versante drammaturgico e slabbrato su quello stilistico.

Incapace di dosare commedia, cifra grottesca e dramma sociale, la regista/attrice romana sbanda paurosamente nell’impostazione linguistica, mandando fuori giri la pellicola anche sul terreno recitativo.

Dalla palude della mediocre caratterizzazione e dell’enfasi mimico-gestuale che coinvolge un po’ tutti i protagonisti, si salvano solo alcune figure comprimarie e Romana Maggiora Vergano (la figlia Marcella)».

Non restava che il miglior film dunque, fortunatamente non premiato.

Statuetta che invece viene attribuita, ahimè con ben altre sei, al Garrone di Io capitano – l’altro acclamato fenomeno dell’italica stagione cinematografica – cui viene tributato anche il David come miglior regista.

Anche in questo caso riporto quanto scrissi per Contropiano: «Durante le due ore di Io Capitano, la tortura non tormenta, la morte non atterrisce e non provoca rabbia, le prigioni non hanno il sapore indecente della vergogna e della claustrofobia, i trafficanti sono figure caravaggesche e il viaggio avviene sicuro sulle acque di un Mediterraneo petrarchesco. Chiaro e mansueto.

L’apice dell’ipocrisia nella costruzione del film, Garrone lo tocca tuttavia occultando opportunamente il livello politico delle responsabilità nella gestione dell’immigrazione clandestina.

Non si può trattare infatti un argomento tanto delicato e drammatico pensando di girare uno spot della TripAdvisor o dell’Alpitour.

Si prenda ad esempio quella che dovrebbe essere la pericolosissima e massacrante traversata del deserto.

Il nostro Garrone la gira con un glamour estetizzante che utilizza colori sgargianti da cartolina. Uno spot, appunto. Arricchito vieppiù dall’immagine onirica, in salsa felliniana (il riferimento è all’incipit di 8 1/2) o addirittura chagalliana, di una donna morta di stenti che si libbra in volo. Una cifra onirico-fiabesca che si ripeterà altre volte nel corso del film.

Nondimeno è proprio la fiaba il codice narrativo e linguistico che determina l’ambiguità di questa pellicola[… ]

Film ambiguo girato per non turbare troppo gli animi della borghesia. Per suscitare una clericale compassione. Una contenuta commozione (le facce dei ragazzi sono strepitose in tal senso). Ma non indignazione. Non rabbia. Non orrore».

L’aspetto più farsesco e allo stesso tempo avvilente riguarda però la produzione della pellicola in questione, prodotta da Rai Cinema.

Rai Cinema che poi premia sé stessa (è istituzione organizzatrice dei David, sic!) come appunto miglior produttore.

Emblema tragicomico, grottesco e surreale di questi David. Ma potremmo anche dire una barzelletta, che oramai viene ripetuta spesso nell’ambito dei Festival o dei Premi.

Purtuttavia, una cosa bella questi David e il film di Garrone ce l’hanno regalata. Il discorso di ringraziamento del ragazzo dal cui racconto è tratta la pellicola. Unico che abbia avuto il coraggio di chiedere “basta morti nella Striscia“.

Gli intellettuali e gli artisti italiani, notoriamente piuttosto vili, se ne sono guardati bene…

E allora, giusto per chiudere, alcune annotazioni in ordine sparso.

Qui non si premiano più i film (o gli spettacoli o i libri, o i quadri o la musica), quindi la creatività, l’urgenza, la sincerità artistica, l’analisi sociale e il pensiero divergente. Tutt’altro.

Qui è il mercato che premia sé stesso. La borghesia che contempla soddisfatta la sua immagine allo specchio. Lo star system che si autocelebra.

Capirai che scoperta“, griderà qualcuno. Sì è vero, ma io il “critico” faccio. E per giunta con un background decisamente marxista.

Quindi dovrei essere in grado di inquadrare l’opera nel tessuto culturale, sociale, economico, politico, linguistico, immaginario, simbolico di riferimento.

Altrimenti me ne sto a casa. O mi lascio trascinare dalle placide acque del fiume e mi prendo comodamente il sole. È questione di coscienza. Innanzitutto politica.

Mi fanno ridere quelli che inneggiano al De André di “in direzione ostinata e contraria” e poi si accomodano alla mensa padronale del conformismo.

Per farla breve. Il premio come miglior attrice alla Cortellesi rappresenta un pericoloso ridimensionamento del lavoro attoriale sulla costruzione del personaggio.

Il suo – la pur simpatica e, in altre circostanze, convincente attrice romana – lo imbastisce di espressioni sovraccariche, sbigottite e fanciullescamente meste mentre il marito la gonfia; con contorno di imbarazzanti e ridicoli emoticon mimico-facciali.

Di ben altro spessore risulta certamente la Ronchi di Rapito, ma anche lei viziata dall’enfasi del contesto filmico.

L’unica che avrebbe meritato quindi è Linda Caridi (L’ultima notte di Amore), capace di far vivere un personaggio denso di verità, asciutto, in sottrazione, sfaccettato e rotto dall’ansia. Una contemporanea Lady Macbeth.

Mentre per il miglior attore, pur contento per chiari motivi di partigianeria del premio assegnato a Riondino (Palazzina Laf ha il non piccolo merito di riportare al centro del discorso filmico il tema del lavoro e di attaccare senza ambiguità le logiche dello sfruttamento neoliberista), sconcerta non leggere nella cinquina Fausto Russo Alesi (Rapito) al posto ad esempio dell’incongruente e impalpabile Mastandrea, o dell’ormai leggero quanto l’insostenibilità dell’essere, Pierfrancesco Favino.

Russo Alesi è attore solido, meticoloso, cesellatore di personaggi cui scava dentro con ossessione e precisione. Capace di coglierne sfumature e toni cui dare spessore emotivo.

Ma nulla. Il David del profitto e delle corporation produttive non lo nomina.

Come del resto il contemporaneo panorama cinematografico italiano non prende in considerazione pellicole e registi fuori dallo strangolante sistema distributivo e produttivo, che pure rianimerebbero l’asfittico panorama dell’italietta cinematografica.

Due esempi su tutti: Luna Gualano e Marco Proserpio, che hanno presentato in passato pellicole selezionate ai Festival di Roma e Torino.

In definitiva, se piace il conformismo, ci si tenga stretti i premi e il gossip che irrimediabilmente li connota.

Noi preferiamo il cinema, e l’arte in generale, come espressione e linguaggio del pensiero critico e affondo nella carne viva della borghesia.

È la battaglia delle idee per reinventare una cultura antagonista. Tuttavia per adesso vincono i padroni. Che hanno colonizzato reale, immaginario e persino la struttura simbolica.

Il ruolo di una critica che voglia dirsi quantomeno in opposizione agli ormai aridi diktat del mercato dev’essere, pertanto, chirurgico, senza mai indulgere alla convenzionalità e al lassismo del giudizio. Perché un cinema morto può soltanto meritare recensioni funerarie.

Attendiamo con ansia la Rivoluzione!

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

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5 Commenti


  • Oigroig

    «
    1 / 5
    Valerio Evangelisti, Alla periferia di Alphaville, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2000:

    … et mourir de plaisir [1995]:

    Colonizzare l’immaginario. Sembrava impossibile, eppure basta disporre degli strumenti opportuni. Televisioni, mass-media, una stampa docile, un trend culturale. Finisce che intere generazioni si trovano immerse in un sogno, e lo scambiano per realtà. Ora, quali sono le caratteristiche di un sogno? Che si vive una vicenda priva di antecedenti e di conseguenze nel futuro. Esiste il presente e basta.
    In un sogno analogo siamo immersi ormai da un decennio, con un’accentuazione negli ultimi anni. Sotto gli occhi ci scorrono immagini senza origine e senza spessore. Esalazioni di gas nervino uccidono o mandano all’ospedale migliaia di persone nella metropolitana di Tokyo? La notizia ci viene data in tempo quasi reale, eppure pare che accada su un altro pianeta. Nessuno si scompone più di tanto, se non per un tempo misurabile in minuti, o addirittura in secondi. Nella ex Jugoslavia si susseguono i massacri? Anche qui la commozione è legata ai singulti di un qualche telecronista, analoghi a quelli che accompagnerebbero una qualsiasi calamità naturale. Perché quella gente si massacra? Non lo sa nessuno, forse nemmeno i diretti interessati. Questione genetica, di razza, di religione. Ciò che importa è che la versione corrente faccia appello a eventi incontrollabili, in cui la volontà e la logica non abbiano parte alcuna. Così la notizia perde tutti i suoi contenuti nel momento stesso in cui viene diramata.
    […]
    Il neoliberismo ha saputo, attraverso un uso quasi scientifico dei mass media, penetrare nei cervelli e svuotarne gli angoli più riposti di ogni contenuto non funzionale. In pochi anni ha condotto un assalto senza precedenti alla sfera dell’immaginario, infettandola di non-valori, false certezze, distorsioni ottiche ispirate a una logica mortifera, che vede il più forte avere non solo il diritto di vincere la gara per la vita, ma anche quello accessorio di calpestare lo sconfitto, ignorandone l’umanità.» (Valerio Evangelisti, nel lontano1995 quando la radicalità non era solo una posa…)


  • Tiberio

    L’Istituto Luce, in sintesi.
    Le aspettative queste erano.


  • Fabio Matteo

    Bravo caro!


  • Vincenzo Morvillo

    Grazie Fabio!


  • Penazzi Maria Letizia

    finalmente un critico che dice ke cose come stanno.Bravo.Condivido tutto, ma,soprattutto,la bravura DA ANNI di Russo Alesi,da tempo attore per Bellocchio

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