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Il Nobel per l’economia consacra il complesso di superiorità dell’Occidente

Il Nobel per l’economia di quest’anno è stato assegnato a Daron Acemoglu, James Robinson e Simon Johnson per il loro lavoro sul legame tra istituzioni politiche e crescita economica.

Per avere una panoramica generale del loro contributo accademico, si può fare riferimento al loro best-seller “Perché le nazioni falliscono” (“Why Nations Fail”), un caso editoriale del 2012 che riassume per il vasto pubblico vent’anni di attività scientifica dei suoi autori.

Il libro è scritto in maniera accattivante e propone una storia semplice quanto convincente – come del resto si addice a ogni narrazione ben scritta: la chiave del successo o del fallimento di una nazione risiede nelle sue istituzioni politiche ed economiche.

In particolare, gli autori sostengono che istituzioni politiche inclusive, che favoriscono la partecipazione della maggioranza della popolazione alla creazione di ricchezza, incentivando l’innovazione, gli investimenti e la crescita economica, garantiscono il successo di un Paese.

A queste vengono contrapposte le istituzioni politiche cosiddette estrattive, progettate per il beneficio di un’élite, limitando le opportunità per la maggioranza e frenando l’innovazione.

Inevitabilmente, questa dicotomia proposta dagli autori finisce per confondersi e identificarsi con la più classica contrapposizione tra economie di mercato (in cui la tutela della proprietà privata e dello stato di diritto, dicono, rappresentano i valori centrali della comunità politica) e il resto del mondo.

Al di là dell’enfasi sulle conclusioni, si rileva un livello straordinario di pregiudizio occidentale riguardo alle istituzioni che si considerano efficaci. Soprattutto, come molti politologi occidentali, gli autori fanno fatica a integrare nel loro modello la continua ascesa economica della Cina.

Il libro di Acemoglu e Robinson sostiene sostanzialmente tre tesi principali:

  1. Le istituzioni inclusive sono la chiave dello sviluppo: “Paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti sono diventati ricchi perché i loro cittadini hanno rovesciato le élite che controllavano il potere e hanno creato una società in cui i diritti politici erano molto più ampiamente distribuiti, in cui il governo era responsabile e rispondeva ai cittadini, e in cui la grande massa della popolazione poteva approfittare delle opportunità economiche“, come si legge nella Prefazione del libro.
  2. I cambiamenti istituzionali sono irreversibili e tendono a generare circoli viziosi o virtuosi: le istituzioni tendono a essere auto-rinforzanti. In un sistema inclusivo, i cittadini hanno incentivi a mantenere e rafforzare le istituzioni che garantiscono pari opportunità. In un sistema estrattivo, invece, le élite cercano di perpetuare le strutture che le favoriscono, spesso ostacolando le riforme che potrebbero portare alla crescita economica e alla distribuzione delle risorse.
  3. Il ruolo degli snodi critici nella storia: momenti specifici nel percorso di un Paese determinano la convergenza delle istituzioni politiche verso il modello inclusivo o estrattivo. Rivoluzioni, carestie o guerre possono mettere una nazione su un binario o su un altro, in una sorta di “effetto farfalla” dello sviluppo.

 

Il libro è arricchito da esempi storici, aneddoti e casi studio: dal regno del Congo all’impero britannico, dalla divergenza storica tra le due Coree al confronto tra Stati Uniti e Messico.

Il problema di fondo di questo vasto affresco è che tutto funziona davvero solo a posteriori. Ci sono sempre molte piccole differenze ovunque si guardi, e le teorie istituzionaliste hanno sempre avuto difficoltà a indicare in anticipo quali di queste differenze svolgano un ruolo cruciale nel determinare il successo o il fallimento di una società.

Quando una teoria coincide con i nostri stessi pregiudizi, sembra procedere trionfalmente attraverso la storia, fornendo una risposta per ogni nostra domanda. Il problema emerge quando ci si imbatte in un pezzo del puzzle che non si adatta bene agli altri.

Un esempio è la previsione degli autori sulla Cina. Nel 2012, costoro sostenevano che “la crescita sotto istituzioni politiche estrattive, come in Cina, non porterà a una crescita sostenuta ed è probabile che si esaurisca” (Capitolo 15). A dodici anni di distanza, questa previsione non si è verificata.

E anche se la crescita cinese dovesse finalmente rallentare (ancora oggi parliamo di cifre sopra il 4% del PIL annuo, mentre i Paesi ‘inclusivi’ come Giappone o Germania fanno fatica ad arrivare all’1%), non sarebbe semplice stabilire se ciò dipenda da meccanismi naturali di convergenza tipici delle economie sviluppate o da un qualche difetto fondamentale del sistema politico cinese.

Un altro esempio è la Corea del Sud. Secondo Acemoglu e colleghi, il miracolo economico della Corea del Sud dipende dal fatto che, a differenza del Nord, “la Corea del Sud è un’economia di mercato, costruita sulla proprietà privata” (Capitolo 3).

Tuttavia, questa tesi oggi appare piuttosto screditata, poiché minimizza sistematicamente il ruolo della politica industriale e di uno Stato interventista nel decollo economico della Corea del Sud, e delle altre “Tigri Asiatiche“.

Nel complesso, l’affascinante storia istituzionalista di Acemoglu e colleghi sembra funzionare solo quando si è disposti a crederci, ignorando o minimizzando gli elementi che non si adattano al quadro.

In altre parole, ci troviamo di fronte a una “Storia proprio così“, per citare la raccolta di racconti per bambini di Rudyard Kipling: una teoria speculativa, costruita ad hoc e di dubbia validità.

In mancanza di un controfattuale, del resto, per i paladini del libero mercato è facile interpretare i fatti al contrario. Nella loro testa, quando un’economia con chiare tendenze stataliste ha successo, lo fa sempre malgrado l’intervento della politica, mai grazie ad esso.

Sebbene sia indiscutibile che un legame tra sistema politico e crescita economica debba necessariamente esistere – e chi, del resto, lo ha mai messo in dubbio? –, la pretesa che la ricetta dello sviluppo occidentale neoliberale sia la Risposta con la ‘R’ maiuscola rappresenta un esempio lampante di pregiudizio culturale.

Oggi, con un’Europa in difficoltà e un mercato globale sempre più frammentato, tale tesi risulta ancora meno credibile di quanto lo fosse dieci o vent’anni fa.

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