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Ti ricordi (Han Kang)

Il lavoro che facevi da adolescente, però, era diverso. Quelle erano giornate di quindici ore, e avevi solo due giorni liberi al mese. I fine settimana non esistevano. La paga era la metà di quello che davano agli uomini per lo stesso lavoro e gli straordinari non erano retribuiti.

Prendevi delle pillole per tenerti sveglia, ciò nonostante la stanchezza ti si abbatteva addosso come un’onda. I polpacci e i piedi che erano già gonfi all’inizio del pomeriggio. Le guardie che ogni sera pretendevano di perquisire le lavoratrici prima che se ne andassero a casa. Quelle mani, che si soffermavano sempre quando ti sfioravano il reggiseno.

La vergogna. La tosse secca. Il sangue dal naso. Le emicranie. Quei grumi nel catarro che sputavi, qualcosa di simile a dei fili neri. Abbiamo la nostra dignità. Era uno dei motti preferiti di Seong-hee.

Ogni domenica libera che aveva, seguiva sempre le conferenze sul diritto del lavoro negli uffici del sindacato tessile di Cheonggye, e tutto quello che sentiva lì finiva negli appunti che poi usava per le vostre riunioni.

Non avevi particolari timori quando cominciasti a seguire quegli incontri, dato che Seong-hee diceva solo che erano per studiare gli hanja, i caratteri cinesi. E tecnicamente era vero; tu e le altre ragazze studiavate veramente gli hanja ogni volta che vi vedevate. Dobbiamo conoscere milleottocento caratteri se vogliamo saper leggere bene un giornale.

Come primo compito, a inizio serata, tutte dovevate scrivere nel vostro quaderno trenta caratteri e memorizzarli. Poi Seong-hee cominciava la sua lezione. E questo significa che… abbiamo la nostra dignità.

Seong-hee non era un’oratrice nata e, ogni volta che perdeva il filo del discorso o non riusciva a ricordare bene la parola che avrebbe voluto usare, ricorreva a quella frase come a una specie di tappabuchi.

Secondo la costituzione, abbiamo la nostra dignità. Come chiunque altro. E proprio come chiunque altro, abbiamo dei diritti. Lo dice il codice del lavoro. La sua voce dolce e sonora faceva quasi pensare a una maestra di scuola elementare. Ci sono persone che sono morte in nome di questa legge.

Il sindacato riportò una vittoria schiacciante sul sindacato giallo. Il giorno in cui i crumiri e i poliziotti vennero ad arrestare i dirigenti, le centinaia di operaie che stavano lasciando i dormitori per il secondo turno della giornata formarono una muraglia umana. Le più grandi avevano ventuno o ventidue anni; la maggior parte di loro erano ancora adolescenti. Non ci furono veri e propri canti o slogan. Non arrestateli! Non dovete arrestarli!, gridavano le ragazze.

I crumiri le caricarono brandendo mazze di legno. Dovevano esserci un centinaio di poliziotti, pesantemente armati di caschi e scudi. Veicoli antisommossa con i finestrini schermati da reti metalliche. A che gli serve tutto questo equipaggiamento, ti venne da pensare, dato che noi non sappiamo combattere e non abbiamo armi?

«Spogliatevi!» urlò Seong-hee. «Togliamoci i vestiti tutte quante!». Impossibile dire chi fosse stata la prima a rispondere a quel grido di battaglia, ma nel giro di pochi istanti centinaia di giovani donne sventolavano in aria camicette e gonne, urlando: «Non arrestateli!».

Tutti consideravano il corpo nudo di una giovane vergine qualcosa di prezioso, quasi sacro, perciò le operaie credevano che gli uomini non avrebbero mai violato la loro intimità mettendo le mani addosso a delle ragazze in reggiseno e mutandine.

Ma gli uomini le sbatterono a terra e le trascinarono. La ghiaia graffiò la loro carne nuda fino a farla sanguinare. I capelli si arruffarono, la biancheria si strappò. Non dovete farlo, non dovete arrestarli! In mezzo a quelle urla assordanti, il rumore di mazze che si abbattevano su corpi inermi, di uomini che spingevano ragazze sui furgoni antisommossa.

All’epoca avevi diciotto anni. Per sottrarti a due mani che cercavano di agguantarti, scivolasti e cadesti sulla ghiaia. Un poliziotto in borghese arrestò la sua corsa sfrenata giusto il tempo di calpestarti la pancia con un piede e darti un calcio nel fianco.

Stesa faccia a terra, le voci delle ragazze ti sembravano oscillare tra i sussurri e le grida mentre perdevi e riacquistavi conoscenza. Dovettero trasportarti al pronto soccorso dell’ospedale più vicino, dove ti operarono a causa di una perforazione intestinale.

Stesa nel letto d’ospedale, ascoltavi le notizie. Quando ti dimisero avresti potuto riprendere la lotta, fianco a fianco con le tue sorelle. Invece tornasti a casa dei tuoi genitori nel Sud, vicino a Gwangju. Non appena ti rimettesti in forze, tornasti a Incheon e trovasti lavoro in un’altra fabbrica tessile, ma venisti licenziata nel giro di una settimana.

Il tuo nome era finito sulla lista nera. I due anni di esperienza che ti eri fatta in uno stabilimento tessile adesso non avevano alcun valore, e uno dei tuoi parenti dovette adoperarsi per farti avere un impiego come macchinista in una sartoria di Gwangju.

La paga era ancora peggio di quando stavi in fabbrica, ma ogni volta che pensavi di mollare ti tornava in mente la voce di Seong-hee: E questo significa che… abbiamo la nostra dignità.

Le scrivesti, chiamandola onni, «sorella maggiore». Sto bene, «onni». Ma sembra che ci vorrà un po’ di tempo prima che io impari davvero a usare una macchina da cucire. Non è una tecnica particolarmente difficile, solo che nessuno si mi insegna bene. Ma devo avere pazienza, giusto? Per parole come «tecnica» e «pazienza» ti sforzasti di usare gli hanja anziché ricorrere semplicemente all’alfabeto hangŭl.

Scrivesti con cura i singoli tratti di quei caratteri che avevi imparato alle riunioni a casa di Seong-hee. Le sue risposte, quando arrivavano, erano invariabilmente brevi: Sì, certo. Sono sicura che riuscirai bene, qualunque lavoro tu faccia.

Durò un anno o due, poi le lettere poco per volta si fecero meno frequenti, fino a cessare. Ti ci vollero tre anni per diventare finalmente una operaia addetta alla macchina da cucire.

Quell’autunno, quando avevi ventuno anni, un’operaia ancora più giovane di te morì durante un sit-in di protesta alla sede centrale del partito d’opposizione. Secondo il rapporto ufficiale del governo, si era tagliata i polsi con i cocci di una bottiglia di Sprite ed era saltata dal terzo piano. Non credesti a una sola parola.

Come mettendo insieme i pezzi di un puzzle, ti toccò osservare con attenzione le fotografie pubblicate nei giornali controllati dal regime e leggere tra le righe di editoriali dai toni furibondi e veementi.

Non avevi mai dimenticato la faccia del poliziotto in borghese che ti aveva calpestata. Non avevi mai dimenticato che il governo addestrava attivamente e spalleggiava i crumiri, che all’apice di questa piramide di violenza c’era il presidente stesso, Park Chung-hee, un generale dell’esercito che si era impadronito del potere con un colpo di Stato militare.

Capisti benissimo il significato della ‘misura di emergenza numero nove’, che sanzionava severamente non solo gli appelli per l’abrogazione della costituzione Yushin, ma ogni tipo di critica al governo; così come capisti il significato degli slogan scanditi dagli studenti che facevano ressa all’ingresso principale dell’università.

Mettendo assieme elementi sottotraccia di notizie false o tendenziose riportate dai giornali, riuscisti a comprendere gli avvenimenti che si verificarono in seguito a Busan e a Masan.

Eri convinta che le cabine telefoniche spaccate, i commissariati dati alle fiamme, le folle inferocite che scagliavano pietre formassero un disegno. Frasi cancellate che dovevi riempire con la tua immaginazione.

Quando nell’ottobre di quell’anno il presidente Park venne assassinato, ti chiedesti: adesso che il vertice è stato eliminato, crollerà l’intera piramide di violenza? Sarà ancora possibile arrestare delle operaie nude che protestano? Sarà ancora consentito calpestarle e far loro scoppiare l’intestino?

Attraverso i giornali seguisti l’ascesa apparentemente inarrestabile di Chun Doo-hwan, il giovane generale che era stato il favorito dell’ex presidente.

Te lo immaginavi benissimo mentre entrava a Seul su un carro armato, come un imperatore romano portato in trionfo, e si impossessava rapidamente della carica più alta del governo centrale. Ti si accapponava la pelle. Succederanno cose terribili.

Il sarto, un uomo di mezza età, ti prendeva spesso in giro: «Sta attaccata a quel giornale come se fosse il suo nuovo innamorato, signorina Lim. Che bella cosa essere giovani e poter leggere dei caratteri così piccoli senza bisogno degli occhiali». E poi vedesti quell’autobus.

Era una tiepida giornata primaverile e il padrone della sartoria se n’era andato con il figlio, uno studente universitario, da alcuni parenti nella contea di Yeongam. Essendoti ritrovata inaspettatamente con un giorno di libertà, stavi passeggiando per le strade quando lo notasti, un normale autobus diretto verso il centro della città. STOP ALLA LEGGE MARZIALE! GARANTITE I DIRITTI DEI LAVORATORI!

Il pennarello giallo spiccava in maniera vistosa sugli striscioni bianchi appesi fuori dai finestrini. L’autobus era gremito di decine di operaie in uniforme da lavoro provenienti dagli stabilimenti tessili delle città di provincia.

I loro volti pallidi ti fecero venire in mente dei funghi che non avevano mai visto il sole. Tenevano le braccia fuori dai finestrini e cantavano, battendo dei ramoscelli sulle fiancate dell’autobus. Le loro voci giungevano chiare fino a te, che ti eri fermata di botto, e adesso ricordi che assomigliavano al canto di un uccello.

Ci battiamo per la giustizia, sì, sì! Viviamo insieme e moriamo insieme, sì, sì! Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio: ci battiamo per la giustizia! Ogni sillaba nettamente distinta nella tua memoria. Ipnotizzata da quel canto, barcollasti alla cieca nella direzione che aveva preso l’autobus.

Una sterminata folla di gente era scesa per le strade e si dirigeva verso la piazza di fronte all’Ufficio provinciale. Gli studenti, che sin dall’inizio della primavera si radunavano in massa davanti al cancello principale dell’università, non si vedevano da nessuna parte. Le persone che gremivano le strade erano anziani, bambini delle elementari, operai in tuta da lavoro, giovani impiegati – gli uomini in giacca e cravatta, le donne in tailleur e tacchi alti –, uomini di mezza età che indossavano maglioni con il logo del Saemaul Undong, il Movimento del Nuovo Villaggio, che brandivano lunghi ombrelli come se fossero armi.

Proprio alla testa di quella serpeggiante colonna di gente, i cadaveri di due giovani uccisi alla stazione venivano spinti su un carretto a mano verso la piazza.

 * Han Kang (1970), scrittrice sudcoreana, Premio Nobel per la Letteratura 2024, ha scritto pagine poetiche ma veementi sull’insurrezione di Gwangju del 18 maggio 1980, nella Corea del Sud. All’insurrezione popolare, episodio quasi del tutto sconosciuto in Occidente, seguì il “Massacro di Gwangju”, ordinato da Chun Doo-hwan, a capo di una giunta militare sostenuta dagli Stati Uniti.

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