“Quell’anno, solo nella regione del Gyeongbuk, sono stati uccisi circa diecimila membri della Lega Bodo. E in tutta la Corea i morti sono stati almeno centomila, lo sai, vero?”
Annuisco, dicendomi: “Non erano di più?”
Conosco quell’organizzazione. Dopo la costituzione del governo, nel 1948, chiunque fosse stato schedato come simpatizzante di sinistra veniva iscritto alla Lega Bodo per essere “rieducato“.
Bastava che chiunque avesse anche solo assistito a un raduno politico, perché tutti i membri della sua famiglia finissero nelle liste.
C’erano anche molte persone iscritte arbitrariamente dai rappresentanti di quartiere o di villaggio per rispettare le quote stabilite dal governo, e altre che entravano a far parte di propria volontà dietro la promessa di riso e fertilizzanti.
Venivano registrati interi nuclei familiari per volta, inclusi donne, anziani e bambini.
Quando era scoppiata la guerra, nell’estate del 1950, sulla base di quelle liste erano state messe agli arresti preventivi e poi giustiziate innumerevoli persone.
Si stima che in tutto il paese ne fossero state uccise e seppellite in gran segreto tra le duecentomila e le trecentomila. […]
Non è una coincidenza che trentamila persone siano state massacrate a Jeju quell’inverno, e altre duecentomila nel resto del paese l’estate successiva.
C’era un ordine ben preciso del governo militare americano: bisognava fermare l’avanzata del comunismo, anche a costo di uccidere tutti e trecentomila gli abitanti dell’isola (di Jeju, ndr).
E quell’ordine aveva trovato i suoi volenterosi esecutori nella Gioventù del Nord-Ovest, associazione dei giovani estremisti di destra formata dai transfughi nordcoreani, mossi da un pesante carico di rancore e ostilità.
Dopo due settimane di addestramento, erano sbarcati qui con indosso un’uniforme dell’esercito o della polizia. Poi era stato bloccato ogni accesso alla costa e messo il bavaglio alla stampa; la follia di puntare un’arma alla testa di un neonato era stata non solo autorizzata ma premiata, tanto che millecinquecento bambini sotto i dieci anni erano stati uccisi in questo modo; e, prima ancora che il sangue seccasse sulle loro nefandezze, era scoppiata la guerra e lo stesso modello applicato sull’isola era stato ripetuto altrove.
Duecentomila persone erano state rastrellate in città e villaggi di tutto il paese, caricate sui camion, imprigionate, fucilate e seppellite in fosse comuni, e anche in seguito era stato proibito a chiunque di reclamare o recuperare le spoglie.
Perché la guerra non era finita, c’era stato solo un armistizio. Perché avevano ancora un nemico oltre il trentottesimo parallelo. Perché nessuno parlava, né le famiglie delle vittime, già bollate, né gli altri che sarebbero stati etichettati come simpatizzanti del nemico se avessero aperto bocca.
Sono dovuti passare decenni per poter riesumare quei piccoli teschi con un foro di proiettile e le montagne di biglie – nelle valli, nella miniera, sotto la pista di atterraggio. E ancora oggi ci sono ossa seppellite, mischiate fra loro.
* da Han Kang, premio Nobel 2024 per la letteratura, “Non dico addio”, Adelphi – segnalato da Marco Ferri, in Beh Buona Giornata
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