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Dialettica dell’economia cinese. Per Cheng Enfu i cinesi ricostruiscono il loro percorso

Il testo “Dialettica dell’economia cinese. L’aspirazione originale della riforma”, edito in Italia da Marx XXI, è una raccolta di saggi scritti dal professor Cheng Enfu e da alcuni suoi collaboratori nell’arco di molti anni, dall’inizio degli anni ‘90, fino alla fine degli anni ‘10 del 2000. Cheng Enfu fa parte della prestigiosissima Accademia Cinese delle Scienze Sociali, molto ascoltata ai piani alti del Partito Comunista Cinese, ed è membro dell’Assemblea Nazionale del Popolo.

Il Volume, non sempre di facilissima lettura e fruizione, mira a dare una sistematizzazione teorica, basata sul marxismo, all’economia “socialista di mercato” inaugurata dal Partito Comunista Cinese con la politica di “Riforme e Apertura” del 1978, e proseguita successivamente con la “Nuova Era”, a partire dal 2012.

Quando si parla di marxismo, nel caso dei teorici cinesi, bisogna entrare nell’ottica di quella che loro chiamano “concezione olistica del marxismo”, ovvero una visione del corpus teorico marxista in termini di “sviluppo organico”, come si diceva da noi in Occidente, da Marx in poi. In pratica, fra Marx, Engels, Lenin e chi li ha seguiti, compresi i leader cinesi, non vi è distinzione fra coloro che hanno teorizzato il marxismo e coloro che lo hanno applicato, come siamo abituati a pensare in occidente negli ultimi 40 anni: fa parte tutto di un corpus unico in continuo sviluppo.

Così, ad esempio, s’invita a non considerare dogmaticamente le affermazioni di Marx secondo cui nuovi e più avanzati rapporti di produzione non emergono mai finché le condizioni non saranno maturate all’interno della vecchia società, altrimenti non si può concepire l’emergere e l’affermarsi della rivoluzione in Cina, avvenuta in un paese arretrato e che vede tutt’oggi la compresenza di forme di produzione e distribuzione diverse.

Inoltre, in luogo della classica definizione della contraddizione fra la natura privata della proprietà dei mezzi di produzione e la natura sociale dello delle forze produttive, viene data la seguente definizione della contraddizione che attanaglia i paesi a capitalismo maturo: “la contraddizione di base dell’economia capitalista contemporanea si manifesta nella contraddizione tra, da un lato, la costante socializzazione e globalizzazione dell’economia con i suoi fattori di produzione sotto la proprietà privata, collettiva o statale, e, dall’altro, il disordine o l’anarchia della produzione all’interno delle economie nazionali e nell’economia mondiale”.

Ciò che differenzia la Cina dai paesi capitalistici, dunque, è la sua capacità di tenere sotto controllo politico i fattori di produzione e le varie forme di proprietà esistenti, non la costruzione di rapporti di proprietà alternativi.

In generale, nell’opera di teorizzazione, l’autore si pone come portavoce delle esigenze politico-economiche della “Nuova era”, ovvero l’era in cui la Cina decide di cessare gradualmente la funzione di “fabbrica del mondo” di prodotti a scarso valore, per proporsi come polo più centrale nelle catene del valore.

Il corollario è il sorgere di esigenze nuove che mettano in secondo piano la crescita quantitativa in termini di PIL, a favore di un modello di sviluppo che metta al centro il benessere delle persone, la tutela ambientale e le alte tecnologie. Un cambiamento epocale in tutti gli aspetti politici, pratici e di mentalità, che ha dato luogo a pesanti svolte nel partito, nell’accademia e nella società.

Per quanto riguarda il periodo il 1949–1978, precedente alle “Riforme e Apertura”, la visione del modello di sviluppo adottato in quel trentennio è sorprendentemente positiva, se la si confronta alla versione ufficiale del partito che, se da un lato lo definisce “al 70% positivo, al 30% negativo”, dall’altro mette fortemente in evidenza gli “errori” del Grande Balzo in Avanti e i “disastri” della Rivoluzione Culturale.

Ebbene, nei vari testi, Cheng Enfu reputa il modello di pianificazione in uso in quegli anni quasi come una fase necessaria, che ha avuto la funzione di garantire grandi tassi di crescita medi e la formazione di un’industria di base in vari settori; senza tale fase, non sarebbe state possibile quella successiva di Riforme e Apertura. Le critiche al Grande Balzo in Avanti e alla Rivoluzione Culturale non sono quasi presenti e derubricati a piccole deviazioni.

La fase attuale di sviluppo del socialismo in Cina viene definita fase primaria del socialismo, in cui i rapporti di proprietà hanno come elemento centrale la proprietà pubblica, mentre la proprietà privata e le altre forme di proprietà hanno una funzione ausiliaria; sul versante dell’allocazione delle risorse, invece, il mercato ha ancora un ruolo di primo piano, affiancato alla pianificazione statale, da cui la definizione di “socialismo di mercato”.

La proprietà pubblica è da considerarsi centrale in quanto influisce in maniera decisiva sul mercato, cercando di influenzare domanda e offerta, fornisce le entrate fiscali decisive allo Stato ed ha la funzione di mantenere uno sviluppo equilibrato fra i vari settori.

Man mano che si svilupperà il socialismo, la proprietà pubblica avrà sempre maggiore prevalenza rispetto alle altre forme di proprietà e anche la pianificazione s’imporrà sul mercato, che rimarrà ausiliario, giungendo a quello che viene definito “stato intermedio del socialismo”; mentre nella fase avanzata il mercato esaurirà la sua funzione.

Attualmente, il mercato e l’iniziativa privata vengono giudicati ancora più efficienti della pianificazione, specialmente nei settori in cui si ottiene profitto a breve termine e nell’allocazione a breve termine delle risorse, oltre che nel comparto decisivo dello sviluppo dei settori innovativi, su cui ci si sofferma più volte.

La pianificazione soffre di problemi al momento ritenuti insuperabili, come il coordinamento non perfetto fra gli enti pianificatori, mancanza d’incentivo, tendenze corporative interne, scarsa reattività rispetto ai nuovi settori emergenti. Esso, però, insieme alla proprietà pubblica prevale o ha l’esclusiva nei settori strategici dell’economia, e, in generale, quelli che richiedono grandi investimenti fissi e sono profittevoli a lungo termine (energia, trasporti, difesa, telecomunicazioni, alcuni mezzi di produzione).

Rispetto all’innovazione, come detto, grossa enfasi viene posta, in particolare sulla necessità che lo stato incentivi i brevetti; in tale comparto è necessario creare un ambiente favorevole e rispettoso anche per chi si arricchisce, con un occhio particolare per coloro i quali sono andati a studiare all’estero e sono poi tornati (quindi potrebbero aver “assorbito” valori, abitudini e modi di lavorare differenti).

In ambito accademico, si caldeggia la necessità di favorire la crescita di un ambiente aperto al dibattito e all’ingresso di nuove idee, una sorta di “politica dei cento fiori” in chiave moderna, senza giungere, però, a far penetrare idee occidentali quali la separazione dei poteri, la democrazia liberale, ecc.

Inoltre, si esplicita che il metodo delle joint venture nei settori più innovativi sia da ritenersi superato perché non permette un grado di controllo sufficiente per la pianificazione statale e spesso porta a non sviluppare adeguatamente, se non a smantellare, quando i capitali stranieri subentrano in un secondo tempo, i reparti ricerca e sviluppo delle aziende.

In definitiva, nei settori delle alte tecnologie devono svilupparsi le maggiori sinergie possibili fra stato e privato (cinese), trovando una sintesi superiore nell’interessi di tutti. Un po’ come si sta facendo nel comparto digitale (https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/09/30/cina-prosegue-la-lotta-per-lindipendenza-tecnologica-nel-digitale-0176072).

Un altro aspetto notevole del libro è che l’autore si è assunto il ruolo di tenere la barra dritta, in presenza di molteplici tentennamenti ed idee sbagliate, durante l’epoca di riforme e apertura, rispetto alle molteplici storture che si stavano creando all’interno della società e del tessuto produttivo: una parte rilevante dei testi, infatti, risale proprio agli anni in cui il PIL cinese cresceva a due cifre, trainato dagli investimenti stranieri in produzione a scarso valore aggiunto.

Si trattava, quindi, di un periodo in cui i salari dei lavoratori crescevano a ritmi sottodimensionati rispetto al PIL e ai profitti, come tipico del trickle-down liberista, consegnando un ambiente favorevole alle esternalizzazioni in Cina per le multinazionali straniere, grazie ai bassi costi di produzione; vi era, pertanto, un grande sfruttamento del lavoro e il livello d’inquinamento delle metropoli era insostenibile.

Ebbene, viene effettuata un’analisi meticolosa di quel modello di sviluppo, paragonandolo anche a quello che il capitalismo occidentale impone anche agli altri paesi “in via di sviluppo” (categoria entro cui la Cina è inserita costantemente) e analizzandolo non solo da un punto di vista marxista, ma anche attraverso le categorie delle varie scuole economiche affermatesi in occidente nel dopoguerra, ovvero quelle riconducibili alla “mano invisibile” smithiana e al keynesismo.

Ne vengono, così, elencate tutte le caratteristiche negative, come lo scarso livello di reddito da salario (a fronte di altri tipi di reddito, quali quello da proprietà immobiliare o di prodotti finanziari, che nelle città si andavano affermando), lo scarso livello di consumi interni, lo squilibrio che si andava approfondendo fra le città e le campagne, le quali restavano sostanzialmente a livelli di grande povertà e le estreme disuguaglianze sociali.

Tutti dati, questi ultimi, non propri di paese che ha l’obiettivo della costruzione del socialismo, ma tipici dei paesi in via di sviluppo destinati a cadere nella cosiddetta “trappola del reddito medio”, ovvero a giungere ad un certo livello di sviluppo medio-basso per poi, una volta finito il margine competitivo sul livello dei salari, ristagnare per mancanza di una propria base industriale e tecnologica indipendente.

Pertanto, l’autore combatte alcune idee ben presenti in quegli anni nel dibattito accademico (e nel partito), quali “aprire tanto per aprire” (agli investimenti stranieri) e sviluppare le tecnologia più avanzate semplicemente importandole dall’occidente, per perorare, come già detto, una stretta sul livello di controllo della pianificazione su tali settori, il rafforzamento della proprietà pubblica di essi, nonché la formazione di un capitalismo nazionale più incline a rimanere nell’ambito delle direttive centrali del partito.

Sono questi, insieme all’implementazione della “Belt and Road Initiative”, rivolta prevalentemente ai paesi in via di sviluppo, i tratti della cosiddetta “nuova normalità” economica in Cina, segnata da una maggiore indipendenza dai capitali occidentali e da un modello sviluppo che predilige la qualità rispetto alla quantità, ovvero più alte tecnologie “autoctone”, meno mega investimenti infrastrutturali (per i quali, del resto, c’è fisiologicamente poco spazio) e investimenti stranieri.

I testi si fermano, cronologicamente, agli albori della guerra commerciale inaugurata da Trump e prima della demolizione di alcune bolle finanziarie interne, come quella immobiliare e quella dei giganti di vendite e pagamenti online, Alibaba e Ant Group. Non comprendono, pertanto, l’ultima fase in cui il problema di “aprire tanto per aprire” decisamente non esiste più, bensì, all’opposto, è la Cina che deve farsi garante della globalizzazione, a fronte delle barriere erette dall’Occidente.

Cominciano a porsi in maniera molto stringente problemi nuovi in parte anticipati dal testo con qualche anno di anticipo, quali la creazione di una base tecnologica completamente autonoma dagli USA per gestire il decoupling tecnologico in settori strategici come i chip e il digitale, oltre alla necessità di contenere alcuni “giganti nazionali”, nati e sviluppatisi sotto tutela governativa, che poi, internazionalizzandosi sui mercati finanziari, hanno trasbordato, come il gruppo Alibaba e qualche gigante dell’immobiliare. Ovviamente, sarebbe interessante seguire il dibattito che si sta sviluppando anche su questi temi.

In definitiva, si tratta di un libro che consente di entrare nel merito del dibattito sviluppatosi in Cina lungo diversi decenni e anche di capire come il Partito Comunista Cinese sia giunto a tenere duro su determinati principi socialisti in maniera tutt’altro che lineare e scontata: diversi decenni di riforme e apertura concepiti in quel modo avevano portato all’affermazione di idee, se non liquidazioniste, almeno ideologicamente stagnanti e poco lungimiranti, che si è stati in grado di superare anche grazie all’opera di intellettuali come Cheng Enfu.

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