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La prima strage impunita

Il 18 agosto 1946 una tremenda esplosione scuoteva la spiaggia di Vergarolla, vicino a Pola, città lungo la frontiera italo-jugoslava il cui status doveva ancora essere definito. Decine di vittime, per un crimine su cui non è mai stata fatta luce.

La mattina del 18 agosto 1946 una tremenda esplosione scuoteva la spiaggia di Vergarolla, a pochi chilometri da Pola, affollata da giovani bagnanti. I morti sono forse un centinaio, ma perfino questo è ancora un dato insicuro. Per alcuni si tratta della prima strage dell’Italia del dopoguerra, per altri dell’ultimo drammatico episodio di violenza della Seconda guerra mondiale lungo la frontiera italo-jugoslava. Ma cosa è realmente accaduto? Chi ha compiuto quella terribile carneficina e perché?

Una cosa su Vergarolla la sappiamo con certezza: nessuno è mai stato processato per quella strage, che rimane misteriosa anche per gli studiosi, dato che le fonti disponibili non permettono di attribuirne la responsabilità con ragionevole sicurezza. Ciononostante nel discorso politico-mediatico mainstream sembra esserci un accordo assoluto: si tratta di un crimine comunista, commesso dalle autorità jugoslave per indurre la comunità italiana a lasciare Pola. Ma è davvero così? E perché si continua a diffondere questa versione come se fosse indiscutibile, pur senza prove?

Ripartiamo dall’inizio, dai fatti e dal contesto in cui avvengono. Nell’agosto del 1946 Pola è amministrata dal governo militare alleato (Gma), in attesa che il congresso di Parigi, che si è aperto pochi giorni prima, il 29 luglio, ne stabilisca l’attribuzione alla Jugoslavia o all’Italia. La guerra è terminata da poco e l’Italia sconfitta ha già dovuto cedere Fiume e gran parte dell’Istria: territori acquisiti da solo vent’anni e a maggioranza croata. Sono ancora in discussione Gorizia, Trieste e soprattutto Pola, enclave italiana in territorio jugoslavo. Che la città resti italiana è considerato da tutti altamente improbabile, per ragioni storiche, geografiche e politiche.

La comunità italiana ha peraltro già espresso la sua volontà di andarsene, firmando una sorta di dichiarazione di «opzione» prima ancora che questa diventi ufficiale. Ma alcuni attivisti nazionalisti non si danno per vinti e si organizzano militarmente, in un tentativo estremo di resistenza armata, cercando di provocare scontri e tensioni con la popolazione jugoslava e le autorità britanniche. Sono ex partigiani anticomunisti insieme a ex fascisti, tra cui spicca Maria Pasquinelli: la donna che, il 10 febbraio 1947, il giorno della firma del trattato di pace che attribuisce la città alla Jugoslavia, uccide a revolverate il governatore britannico di Pola.

Ma nell’estate del 1946 il destino della città è ancora in bilico e le tensioni nella zona sono fortissime. È in questo clima cupo che avviene il massacro.

Della strage in sé, l’abbiamo detto, sappiamo molto poco. Dopo anni di ricerche gli storici hanno solo appurato che non si tratta di un incidente: qualcuno ha innescato volutamente le mine navali abbandonate da mesi sulla spiaggia e mai svuotate del loro contenuto. Chi l’ha fatto sapeva di provocare un massacro, visto che quella mattina erano in corso alcune competizioni sportive a cui partecipavano, da spettatori o da atleti, molti giovani polesani.

In assenza di prove, possiamo dunque solo avanzare ipotesi, congetture, sulla base delle conoscenze che abbiamo e della logica del cui prodest. Ovviamente il responsabile potrebbe essere chiunque: un pazzo invasato, un sadico assassino, un amante rifiutato…

Ma è anche logico pensare che un atto del genere, complesso da realizzare e moralmente spregevole, potesse essere compiuto solo da chi aveva i mezzi e una forte motivazione ideologica, o comunque un obiettivo percepito come supremo. Per questo fino a oggi le ipotesi si sono concentrate sulle due forze ideologicamente contrapposte e politicamente attive in quello scenario: gli ex fascisti e nazionalisti italiani e le autorità del nuovo stato comunista jugoslavo.

La tesi di chi accusa gli jugoslavi, quella che trovate ovunque, si basa sull’ipotesi che il governo di Tito volesse espellere tutti gli italiani della zona: tale obiettivo sarebbe stato raggiunto con maggiore efficacia terrorizzando la comunità con questa strage, in perfetta continuità, si dice, con i massacri delle foibe.

Tutte le fonti disponibili smentiscono però proprio l’ipotesi di partenza: l’esodo italiano non era nei piani jugoslavi; anzi, le nuove autorità avrebbero voluto impedire una partenza massiccia, soprattutto da parte delle classi popolari, contadini e operai, presenti in gran numero proprio a Pola. Inoltre la repressione di fine guerra (le cosiddette «foibe giuliane») non colpisce una specifica comunità, né masse indistinte di persone, ma avversari militari (ex collaborazionisti dei nazisti) e politici (avversari ideologici). Dunque perché cambiare improvvisamente metodo e obiettivi, e solo in quello specifico episodio?

L’unica ipotesi credibile, pur se debole e non suffragata da alcuna fonte, è che le autorità jugoslave volessero con un gesto eclatante annichilire l’opposizione armata che si stava costituendo in quei mesi in Istria. In ogni caso una motivazione ben diversa da quella data per scontata da tutti i media italiani.

Resta però da valutare anche l’altra ipotesi, ovvero che a compiere la strage siano stati i nazionalisti italiani, in particolare gli estremisti armati già attivi in zona da qualche mese, tra cui la terrorista Maria Pasquinelli. In questo caso l’obiettivo sarebbe molto più chiaro e immediato: convincere la diplomazia internazionale, allora riunita a Parigi, della brutalità jugoslava e ottenere il mantenimento di Pola all’Italia. In subordine, il terrore provocato avrebbe spinto gli ultimi cittadini titubanti a lasciare la città passata alla Jugoslavia, mostrando così quel «plebiscito di italianità» tante volte evocato dalla propaganda neofascista nei decenni successivi.

Il metodo adottato (una strage di civili innocenti) sarebbe poi perfettamente in linea con il modus operandi del terrorismo nero, prima e dopo quell’evento. Lo scopo sarebbe stato, come negli eccidi compiuti dagli stessi fascisti negli anni Settanta, diffondere paura, rabbia, insicurezza. È la «strategia della tensione», una lunga campagna di terrore che ha insanguinato l’Italia da Piazza Fontana (1969) alla stazione di Bologna (1980), dimostrando come i fascisti non abbiano mai avuto remore a uccidere italiani inermi per un obiettivo che consideravano supremo: impedire una libera evoluzione progressista nel nostro paese.

Se  fosse stata compiuta dai fascisti, la strage di Vergarolla sarebbe dunque la prima di una lunga striscia di eventi analoghi, coi quali avrebbe altri due elementi in comune: una strage impunita, come quasi tutte le altre successive, per di più attribuita ingiustamente alla parte politica avversa, cioè ai comunisti.

Intendiamoci: questa ipotesi non può essere al momento confermata né smentita. Fino a quando non saranno prodotte prove inconfutabili, restiamo nell’ambito delle illazioni. Ma fra le due ipotesi, la seconda è senza dubbio la più convincente e credibile per metodi, strumenti e obiettivi. Per questo, continuare a ripetere ostinatamente la prima versione dei fatti, quella che accusa le autorità jugoslave, come se fosse una verità assoluta è non solo scorretto ma anche in totale malafede.

Naturalmente resta auspicabile una ricerca approfondita della vicenda, in particolare grazie alle fonti segrete ancora non accessibili agli studiosi che riguardano le attività di spionaggio condotte dagli ex fascisti italiani nell’area di confine nell’immediato dopoguerra. Sarà possibile giungere un giorno alla verità? O questa resterà la prima delle tante stragi impunite che hanno condizionato la nostra democrazia durante tutta la prima Repubblica?   

* Eric Gobetti è uno studioso di Seconda guerra mondiale, Resistenza e storia della Jugoslavia. Autore di documentari e monografie, è un esperto di divulgazione storica, viaggi e politiche della memoria. Sui partigiani italiani in Jugoslavia ha realizzato il film Partizani (2015) e il libro La Resistenza dimenticata (Salerno editrice, 2018). Ha scritto, entrambi per Laterza, E allora le foibe? (2021) e I carnefici del Duce (2023). L’articolo è apparso su Jacobin Italia il 10 febbraio 2025.

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