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Libia: si bombarda per dividere il paese

Questa forza aerea, in barba al compito di “far rispettare la no fly zone” agli aerei di Gheddafi (ammesso che ne abbia ancora), attacca sistematicamente le forze di terra (carriarmati, cisterne, “tecniche” e quant’altro. Come notava un generale ieri, in realtà è una “no drive zone”.

Le truppe martellate dal cielo non possono far altro che ritirarsi, se pure ci riescono. E a questo punto i “ribelli” possono avanzare, come delle “truppe di terra” della stessa Nato (o dei francesi, più probabilmente).

Oggi perciò è stata “liberata” Ajdabiya. Le foto che arrivano ai media mondiali chiarissime. Mostrano cadaveri di soldati del Colonnello, calcinati dai missili sparati dagli F16 e dai Rafale, nella sabbia del deserto. Almeno un ventina. E altrettanti carri armati distrutti, casse di munizioni di ogni calibro; jeep pesantemente danneggiate e abbandonate sulla strada all’ingresso della cittadina. E si scopre anche che la città “distrutta” non è affatto tale. Dai video si capisce che non c’è gente in giro, ma le case stanno in piedi, l’ospedale ha subito danni ma funziona.

nche Brega, cittadina importante perché terminale petrolifero, è tornata in loro possesso. Protetti dal cielo, puntano ora sull’altro terminale petrolifero, Ras Lanuf.

 

Se dal punto di vista politico gli obiettivi della guerra sembrano poco chiari, visto l’aperto disaccordo che regna tra i paesi della “coalizione dei volenterosi”, sul terreno le cose appaiono – ripetiamo – chiare.

Se i bombardamenti si fermeranno nel giro di pochi giorni, le forze occidentali avranno determinato una divisione di fatto del territorio libico. A ovest la Tripolitania, controllata dalle tribù alleate con Ghedafi, ma relativamente più povera di petrolio e gas. A est le tribù della Cirenaica, quelle che giornali di estrema destra italiani – come Libero di Feltri – danno per sobillate (documenti segreti alla mano, pare) dai francesi giò da molto tempo, e sedute sulla pare più ricca di giacimenti.

Evidente anche a un cieco, ma non a tanti “democratici” di casa nostra, che questa soluzione garantirebbe due entità “statali” decisamente più deboli di una Libia unita. Da un lato avrebbero degli “alleati” pronti a firmare contratti assai più generosi di quelli del Colonnello (che tratteneva per il suo paese, o magari anche per sé, fino al 90% del prezzo). Dall’altra qualcuno sotto schiaffo, sospettato di essere solo l’erede di Gheddafi, e che non avrebbe grandi scelte su quali “clienti” privilegiare per il non moltissimo che ha da vendere.

La divisione dei paesi aggrediti è una costante delle coalizioni occidentali. E’ stato così per il Kosovo (separato dalla Serbia e dal Montenegro, poi sollecitato a sua volta staccarsi da Belgrado). E’ stato così per l’Iraq, di fatto spartito tra zone kurde, sciite e sunnite. A questi ultimi, che avevano dominato il paese con Saddam, è stata lasciata la parte con meno risorse petrolifere. E’ stato così anche per il Sudan, a sua volta diviso in due (nord e sud) e in procinto di veder attuarsi la separazione del Darfour. Se si è in crisi sistemica, ma si vuol continuare a dominare il mondo, insomma, è preferibile trovarsi davanti “nemici” sempre più deboli. L’unica guerra possibile diventa quella “asimmetrica”, preferibilmente contro avversari disarmati.

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qui di seguito proponiamo

– l’analisi di Alain Joxe, apparsa su “il manifesto” del 27 marzo 2011

– l’intervista rilasciata all’Espresso dal generale Fabio Mini, strategicamente “seria”, ma in ottica “nazionalista”

– in allegato, il rapporto di Massimo Zucchetti sui sommergibili nucleari; con l’avvertezna da lui postata in questi giorni: “Tre sommergibili nucleari vanno e vengono dal porto di Augusta in Sicilia verso la Libia, durante le allegre operazioni militari pacificatrici e democratiche.Peccato che ogni sommergibile contenga un REATTORE NUCLEARE a tutti gli effetti, e che anzi sia molto ma molto piu’ rischioso di un impianto civile di terra. Io denunciai questa cosa anni fa, scaricatevi qui il mio Rapporto”.

 

Euro-protettorato o rivoluzione democratica?
Alain Joxe *
Il consiglio di sicurezza dell’Onu, il 17 marzo ha adottato prima dell’assalto di Bengasi, con dieci voti a favore e 5 astensioni, senza veto russo o cinese, una risoluzione che autorizza azioni aeree contro le milizie e l’esercito di Gheddafi. Questa risoluzione fa sparire il «preambolo» della zona d’interdizione di volo e autorizza, in sostanza, ad entrare in guerra contro Gheddafi, il che sembrava escluso all’inzio del mese di marzo. Resta poi vaga sugli obiettivi politici. Certo deve quasi tutto a un’iniziativa francese e a un coordinamento franco-britannico.
Ma l’ascesa dei due stati militari, si spiega anche con la decisione americana di non farsi carico di un ruolo preminente in Mediterraneo in modo che la responsabilità incomba sugli alleati. Una responsabilità euroNato senza dubbio, nello spirito degli Stati Uniti; ma staremo a vedere: la Germania di fatto ha votato contro (con la sua astensione, la sua costituzione l’obbligherebbe a un precedente voto parlamentare); d’altra parte, la Turchia oppone il veto a una piena conversione Nato dell’operazione; questo è un segnale di indebolimento degli Stati Uniti nel Grande Medio Oriente che si manifesta anche come problema con Israele. «La Nato può intervenire militarmente solo se un paese alleato è attaccato», ricorda il premier turco Erdogan. Questo non ha impedito una coalizione ad hoc di formarsi fra membri della Nato e della Lega araba. E di decidere un’azione coordinata.
Con il nuovo ministro degli esteri Juppé, il governo francese ha potuto cancellare l’immagine disastrosa dell’offerta di cooperazione poliziesca rivolta dalla precedente ministra a Ben Ali. Con l’improvvisazione volontarista, mimata da Sarkozy, mentre gli stati maggiori preparavano diverse opzioni, si è quindi riconstituita l’immagine di cui la Francia beneficiava in passato nelle opinioni arabe. Per fare cosa? La decisione della coalizione sembra corrispondere a un rapporto di forza ragionevole: le armi di Gheddafi, all’infuori dei suoi 41 missili Scud, non sono per nulla pericolose; ha un’armata privata (personale) di mercenari dotata d’artiglieria di carri armati, di qualche aviatore (tentato dalla diserzione). L’avanzata dei carri e dei miliziani assassini, lungo la strada sino a Bengasi, e i massacri scatenati nelle città riprese agli insorti all’ovest, non possono fargli recuperare il consenso del popolo. È quindi condannato. Cercando di imbrogliare le carte, lo stesso giorno ha proclamato il cessate il fuoco e l’ha immediatamente violato assediando Bengasi.
Dopo la decisione d’urgenza che salva questa città, è l’obiettivo finale della guerra e del suo comando militare centrale che resta impreciso. Questa configurazione richiama la confusione militare dell’inizio dell’assedio di Sarajevo o lo scontro «tutto aereo» della Nato con l’esercito serbo, inquadrando l’espulsione violenta della popolazione civile kosovara. Ma ricordiamo che è la critica franco-britannica del «tutto aereo» americano che fu giustamente all’origine del riavvicinamento detto “di San Malo”.
Il trattato recente deriva in parte da una critica tattica delle dottrine americane in Medio Oriente. La difficoltà che si intravede, per il comando militare della coalizione, è che un capo banda terrorista può ben prendere in ostaggio una città intera per negoziare la sua sopravvivenza politica. Ma salvare degli ostaggi é fuori dalle competenze tattiche di un attacco aereo, anche di alta precisione. In effetti, la migliore difesa dei carnefici è sempre di essere in contatto stretto con le vittime, facendosene scudo. In assenza di una forza militare addestrata dalla parte degli insorti, l’Onu senza uomini a terra, dovrà quindi sperare unicamente sullo sbandamento delle milizie e dello stato maggiore del dittatore sotto l’effetto degli attacchi aerei; ma nella «guerra difensiva genocida» iniziata, delle azioni terrestri saranno verosimilmente necessarie, se si vuole ritornar al cessate il fuoco e non rischiare l’impasse di un «modello Costa d’Avorio». Il peso degli Stati Uniti e delle azioni decisive rapide daranno il tono dell’andamento a venire. Dei bombardamenti troppo massicci possono rovesciare l’opinione pubblica. Un comando Nato di fatto distruggerà la credibilità di un sostegno ai movimenti democratici. Questa «guerra di liberazione» è lanciata da governi occidentali, fedeli sostegni delle dittature durante decine di anni e improvvisamente convertiti ai diritti umani. Il suo sbocco politico resta ambiguo e rischierà di sfuggire al popolo libico che, sebbene assai mobilitato, manca d’organizzazioni politiche e militari. La Libia cadrà allora in un regime di protettorato? È ciò che Gheddafi cerca di dire per fare l’eroe. È finito, ma solo un sostegno politico deliberato e durevole delle forze politiche democratiche europee potrà assicurare l’autonomia del movimento democratico libico ed evitare che l’intervento militare approdi a una ripresa in mano «neo-imperiale» che già minaccia, altrove, i movimenti democratici arabi.
* direttore dell’EHESS di Parigi

 

 

Guerra, l’Italia ha già perso

di Mauro Munafò

«I bombardamenti sono stati decisi per gli interessi privati delle compagnie energetiche. Ma sarà un conflitto più lungo del previsto. Quanto al nostro governo, ha sbagliato tutto dall’inizio: e ora i vertici militari sono allo sbando perché non capiscono che cosa vuole la politica». Intervista al generale della Nato Fabio Mini

(23 marzo 2011)

 Il generale Fabio MiniUna guerra motivata dagli interessi delle compagnie energetiche, che durerà più del necessario per colpa dell’incapacità dei politici, e che mette a nudo tutte le ambiguità e il dilettantismo della classe dirigente italiana. Non conosce mezze misure il generale Fabio Mini, già comandante delle forze Nato in Kosovo, intervistato dall’Espresso sull’evoluzione del conflitto libico.

Che cosa sta succedendo in Libia? Si può parlare di guerra?
«A livello giuridico non si può parlare di guerra, ma dal punto di vista militare le somiglia molto. Di sicuro una missione che doveva concludersi in pochi giorni sta andando avanti in maniera statica. E non è certo per le difficoltà incontrate sul campo che questo avviene, quanto per le indecisioni della politica. Doveva finire in un paio di giorni e invece non sarà possibile prevedere quanto durerà».

Quali indecisioni?
«I litigi e le beghe per il comando e per il controllo. Non ci sono problemi organizzativi, perché in Europa esistono delle procedure consolidate e le forze militari ricevono addestramenti simili, anche se provengono da Paesi diversi. Nasce tutto dalle vere ragioni del conflitto».

E quali sarebbero?
«Io sono convinto che le ragioni non siano umanitarie o di rimozione del regime di Gheddafi. Si stanno decidendo i nuovi equilibri energetici dell’area nordafricana e degli Stati che la controllano. Gheddafi da parte sua ha sbagliato nel credere di poter sedare la rivolta come fosse un movimento del pane, e questo perché i movimenti sono stati solo un innesco di un procedimento ben più grande. Ci sono in gioco gli interessi delle compagnie energetiche e tutti gli Stati vogliono dire la loro nella nuova spartizione».

Una corsa alla colonizzazione, insomma?
«Si può parlare di una “guerra coloniale”, è vero, tenendo questo termine tra virgolette. Il riassetto del Nord Africa può seguire solo due vie: la ricerca di un equilibrio e di una stabilità che permettano degli investimenti futuri, oppure la balcanizzazione dell’area. La seconda soluzione è quella che è stata applicata più spesso negli ultimi anni in tutti gli scenari di guerra: nei Balcani certamente, ma anche in Afghanistan. Se non si riesce a trovare un punto di accordo, allora si destabilizzano le istituzioni e si frammentano, in modo che il potere vada nelle mani di chi ha degli interessi diversi, come le compagnie private energetiche».

In tutto questo, l’Italia che fa?
«La posizione italiana è un enigma. Ogni giorno vengono fatte dichiarazioni dai politici che non fanno che aumentare la confusione o mettere in mezzo degli obblighi che sono in realtà inesistenti e si usano per minare il successo dell’operazione. E’ un po’ come se qualcuno desiderasse che la missione fallisca o si concluda con una vittoria di circostanza, con Gheddafi che resta al potere e il rispetto formale della no fly zone. Tanto non gli servono gli aerei per sedare le rivolte».

Ma noi per chi tifiamo in questo momento?
«L’Italia sarà sconfitta in entrambi i casi e questo è sicuro, però ci converrebbe comunque puntare alla caduta di Gheddafi che, ricordiamolo, ha detto solo a noi che siamo dei traditori. Una volta che si è baciato la mano una volta lo si può fare anche una seconda certo, ma con lui abbiamo chiuso. Forse la prossima volta bisognerà baciargli i piedi».

Non è che i ribelli ci vedano troppo di buon occhio però.
«Questo perché non siamo ancora riusciti a trovare un interlocutore alternativo a Gheddafi, mentre i francesi hanno riconosciuto subito la legittimità del consiglio dei ribelli. Faremmo meglio a lasciar fare alle compagnie private ormai».

Cioè?
«Nella logica degli estremi e della provocazione, visto che la politica italiana si è dimostrata inefficace, tanto vale lasciar andare avanti l’Eni e stare a guardare».

Qual è lo stato d’animo dei militari italiani di fronte a questa situazione?
«I piloti sono usciti in missione una volta e appena sono tornati è successo un pandemonio politico, con ministri della Difesa che finiscono per prendersela con i maggiori. Credo che in questo momento i vertici militari siano allo sbando perché non capiscono che cosa vuole la politica da loro e così anche chi è sul campo non capisce. E magari ci penserà due volte prima di eseguire gli ordini e rischiare di vedersi condannato per crimini di guerra.

Rapporto sui sommergibili atomici

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