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Libia: fugge il ministro degli esteri, Cia in azione

 

I raid aerei sulla capitale libica hanno provocato decine di vittime civili, in particolare un bombardamento ha fatto crollare un’abitazione, uccidendo 40 persone. E’ questa la denuncia del vicario apostolico di Tripoli, monsignor Giovanni Martinelli in un’intervista rilasciata all’agenzia cattolica Fides. “I raid cosiddetti umanitari hanno fatto decine di vittime tra i civili in alcuni quartieri di Tripoli”, ha detto Martinelli in un articolo dalla capitale libica. “Ho raccolto diverse testimonianze di persone degne di fede al riguardo”. “In particolare nel quartiere di Buslim, a causa dei bombardamenti, è crollata un’abitazione civile, provocando la morte di 40 persone”, ha detto Martinelli.

Un numero imprecisato di agenti della Cia da diverse settimane sta operando in Libia per “aiutare i ribelli” anti-Gheddafi. Lo scrive il New York Times dopo la diffusione della notizia che lo stesso Barack Obama avrebbe autorizzato missioni segrete di intelligence in territorio libico. Tra questi agenti ce ne sono alcuni che già da tempo si trovavano a Tripoli e altri che sono arrivati più di recente. Secondo il giornale, durante i loro incontri con gli insorti, questi agenti stanno cercando di capire meglio chi sono i loro leader e soprattutto se godono di alleanze con altre forze arabe. Con loro operano, secondo il giornale, anche uomini dell’MI6 britannico.

Negli Usa si teme che i terroristi di Al Qaida si si siano infiltrati tra i “ribelli”. Questa presenza apre un problema “giuridico”, perché l’Onu non ha autorizzato “operazioni di terra” in Libia. E lo stesso Obama aveva garantito che “nessun soldato americano” sarà coinvolto in operazioni di terra contro le milizie di Gheddafi. Il ricorso ad agenti segreti, insomma, è il tentativo – per ora – di ottenere gli stessi obiettivi senza impegnare “forze regolari”.

 

Mussa Kussa, il ministro degli esteri di Muammar Gheddafi che ieri sera è volato in Inghilterra ed ha annunciato la sua defezione, è sempre stato un fedele servitore del Colonnello, di cui era consigliere e stretto collaboratore, ed è stato uomo-chiave del regime come artefice della rete diplomatica che un decennio fa permise a Tripoli, dopo decenni di isolamento, di essere riaccolto nella comunità internazionale.

Di modeste origini, originario della Tripolitania, 59 anni, dopo un master nel 1978 all’Università del Michigan, negli Usa, nel 1980 è nominato ambasciatore a Londra, da dove viene espulso lo stesso anno dopo aver affermato l’intenzione di «liquidare i nemici della rivoluzione». Dal 1984 dirige la Mathaba, una fondazione che finanzia movimenti di liberazione e guerriglia in tutto il Mondo, in particolare in America Latina e in Africa. Dopo due anni come viceministro degli esteri, diventa capo dei servizi segreti libici, incarico che mantiene dal 1994 al 2009.

È l’uomo forte dei Comitati rivoluzionari, spina dorsale del regime. È lui, alla fine degli anni ’90, a gestire diplomaticamente lo smantellamento del programma di armamento nucleare di Gheddafi e a maneggiare il delicato dossier degli indennizzi alle vittime delle due stragi, attribuite ai servizi segreti libici, di Lockerbie nel 1988 (270 morti) e del Dc-10 della compagnia francese Uta esploso nei cieli del Niger (1989, 170 morti), le due vertenze-chiave che aprono la strada alla fine delle sanzioni e dell’isolamento di Tripoli.

Ha infine un ruolo chiave nella liberazione nel luglio 2007 delle suore bulgare, accusate dal regime di aver diffuso l’Aids in Libia. Nel 2009, dopo 15 anni a capo dei servizi segreti, viene nominato da Gheddafi ministro degli esteri al posto di Abdulrahman Shalgham. Quest’ultimo viene contestualmente nominato ambasciatore presso l’Onu e solo qualche settimana fa ha defezionato anche lui.

Non sembra fermarsi la controffensiva delle forze fedeli a Gheddafi e gli aerei della Nato tornano a bombardare per aiutare i ribelli

La Nato ha intanto assunto ieri il comando delle operazioni in Libia, finora rimasto formalmente in mano statunitense. Oltre l’80% delle operazioni militari (in codice ‘Transfer of Authority’)
è già stato trasferito sotto il comando unificato della Nato”, nell’ambito della missione “Unified Protector”.

L’operazione, ha sottolineato l’ambasciatore italiano presso la Nato durante un incontro con i giornalisti oggi pomeriggio a Bruxelles, “sarà Nato, solo Nato e tutta Nato”. L’Alleanza, insomma, si farà carico con le proprie strutture di tutte le operazioni militari che riguardano la Libia, ha affermato l’ambasciatore Sessa e questo vuol significa che la “coalizione dei volenterosi”, sta piano piano scomparendo per essere sostituita direttamente dalla Nato, che dunque avrà sia la responsabilità delle operazioni militari che della direzione politica. Il Comando Operativo sarà sempre quello di Napoli Capodichino.
Nel pomeriggio ha fatto sentire la sua voce anche il segretario della Nato, il danese Anders Fogh Rasmussen, il quale ha ribadito l’impossibilità per l’Alleanza di armare i ribelli come invece avevano lasciato trapelare Francia e Stati Uniti. Formalmente infatti la Libia – tutta la Libia, inclusa quella in mano ai ribelli – sono sotto embargo per quanto riguarda le armi.
In compenso oggi le forze della Nato sono tornate ad aiutare militarmente i ribelli, ormai in ritirata verso Bengasi perché incapaci di fronteggiare le truppe fedeli a Gheddafi. Gli aerei della coalizione internazionale – ormai a comando Nato – sono tornati in azione dopo due giorni, bombardando le truppe del fedeli a Gheddagi a poche decine di chilometri dalla città di Ajdabiya.

in ritirata. Da oggi la “coalizione dei volenterosi” è passata nelle mani del Comando Nato.

 

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riportiamo qui l’interessante articolo di Alberto Negri, da “IlSole24Ore” di oggi

 

Gheddafi avanza verso Bengasi – Assad in Siria annuncia timido piano di riforme

 

BENGASI. Per capire come combattono gli shebab Nouri Founas, 32 anni, mi fa salire sul suo Land Cruise con un lanciatore da 12 colpi di missili Grad. Sul cruscotto sono montati i pulsanti per il lancio. «Nella battaglia di Bin Jawad, prima che le milizie riprendessero Ras Lanuf e Brega, ho esaurito tutta la riserva che avevo: 60 missili. Ma non è bastato. Gheddafi usa l’artiglieria pesante e mentre i miei Grad russi hanno una gittata di 9 chilometri i suoi sono più potenti, con un raggio d’azione di 20 e di 40 chilometri: ieri sparavano ad alzo zero e ci hanno fatto fuori».

Forse non occorreva venire in Cirenaica per scoprire che le guerre si sa come cominciano ma non come continuano (e tanto meno come finiscono). Le milizie del Colonnello incalzano e con loro gli interrogativi. Gheddafi perde uno dei suoi uomini, il ministro degli esteri Mussa Kussa, considerato una figura chiave del regime, fuggito in Gran Bretagna. Si parla di armare i ribelli, di addestrarli e forse non è così remota l’ipotesi di un intervento sul campo. Intanto ieri telefonata del presidente degli Stati Uniti al capo dello Stato Napolitano per esprimere apprezzamento per l’appoggio dell’Italia alla missione in Libia.

Ma la campagna di logoramento con i raid per abbattere il regime, condannato dalla diplomazia nei corridoi londinesi, potrebbe durare ancora e le guerre più si prolungano e meno diventano convincenti. Founas è tornato a Bengasi di sua iniziativa. «Non c’è un comando, andiamo allo sbaraglio, non hanno neppure pensato a distribuire targhette di riconoscimento agli shebab, sto facendo il giro degli ospedali per cercare cinque della mia squadra che ho perso in battaglia e rifornirmi di missili. Davanti, sulla linea del fuoco, la logistica non funziona».

Le milizie gheddafiane, dopo aver intrappolato i ribelli nel deserto della Sirte, si sono di nuovo impadroniti dei terminali petroliferi e minacciano Ajdabiyah: ci sono volute sei notti di bombardamenti francesi e britannici per riconquistarla e in due giorni l’esercito rivoluzionario rischia di perderla. La ritirata è stata più fulminea dell’avanzata: 300 chilometri di affannosa marcia indietro dei ribelli in 24 ore. Ad Ajdabiyah ieri notte si aspettavano non soltanto un attacco da ovest, alle porte delle città, ma anche da sud: le milizie di Gheddafi stanno arrivando dal deserto, un tentativo evidente di infiltrarsi tra le linee e di confondere gli obiettivi ai raid aerei della coalizione internazionale.

Gheddafi è a 200 chilometri da Bengasi. «Se cadesse Ajdabiyah il nostro fronte di difesa è a 50 chilometri ma non credo che si spingeranno fin qui, dovranno passare sui nostri corpi», dice Nouri, alto, magro, con i baffi e una storia interessante: suo nonno è stato il concessionario della Fiat, Gheddafi ha incamerato le proprietà immobiliari di famiglia e lui si è messo a girare il mondo a piedi. «Il mio diario di viaggio, 12 anni tra l’Europa, l’Asia e l’Africa, doveva uscire a Tripoli due settimane fa con un titolo in swahili: “Hakuna Matata”, nessun problema». Di problemi qui invece ce ne sono diversi: con la caduta di Ras Lanuf la Cirenaica rivoluzionaria perde un terminale petrolifero e il suo confine storico con la Sirte.

Ad Ajdabiyah il confortevole Afrika Amal, l’hotel dei giornalisti, improvvisamente diventa un fortino assediato dalla confusione degli shebab, mentre all’Uzu di Bengasi hanno piazzato quatto pick up con mitragliatrici per rassicurare le troupe. È qui che ho un appuntamento con lo “sceicco marxista”, Idris Tayeb Lamin, un intellettuale e poeta noto per i studi sull’Islam e le simpatie politiche a sinistra. «Fu Gheddafi – racconta Idris – a volermi incontrare più di una volta per fondare una rivista, intitolata “No!” che contrastasse ideologicamente gli islamisti. Io invece scrivevo articoli sulla libertà di opinione e di stampa: irritato mi fece arrestare con una dozzina di persone alla scuola Nasser durante un reading di poesia. Fui condannato a morte e poi all’ergastolo.

In un nuovo processo il mio avvocato difensore, per la sua arringa difensiva, venne incarcerato per quattro anni: così, per colpa di Gheddafi e ironia della sorte, siamo usciti insieme dalla prigione di Tripoli». Idris è uno degli autori della “Carta” presentata a Londra del Consiglio transitorio, ex addetto culturale dell’ambasciata libica in Italia, amico di Giulio Andreotti, rivela che la leadership di Bengasi ha già chiesto da tempo agli americani di essere riforniti di armi: «Magari russe, sono quelle che conosciamo meglio e possiamo fare a meno anche degli addestratori occidentali». Un paradosso, ma l’epilogo di questo regime, che stenta a liquefarsi, forse riserverà altre sorprese.

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