Sia le «confessioni» televisive, come quelle rese da alcuni dimostranti arrestati in Siria che hanno detto di essere stati pagati per alimentare le tensioni, sia le accuse di «cospirazione» lanciate da Assad e dai media statali sono poco credibili. Ma non si può non tenere conto del fatto che Jamal Jarrah e Okab Sakr, deputati libanesi entrambi membri di Mustaqbal (il partito dell’ex premier sunnita Saad Hariri) vengono ripetutamente chiamati in causa come gli «sponsor» che starebbero dietro a provocatori infiltrati tra i manifestanti che chiedono diritti e la fine del dominio dei servizi segreti.
Mustaqbal in particolare offrirebbe appoggio logistico agli uomini di Rifaat Assad, lo zio di Bashar costretto alla fuga e all’esilio dopo aver tentato un golpe fallito miseramente. Dalla sua base nel quartiere londinese di Mayfair, Rifaat dirige un nebuloso network di esuli siriani che hanno ben poco in comune con i giovani che stanno protestando nelle piazze di Daraa e di altre città.
Hariri e il suo partito respingono seccamente le accuse. Da anni però i sunniti libanesi sono molto interessati alle vicende interne siriane. I cablogrammi pubblicati da WikiLeaks hanno rivelato che nel 2006 Hariri chiese agli Stati Uniti di rovesciare il regime siriano e di sostituirlo con una coalizione che comprenda i Fratelli musulmani e alcuni ex esponenti del regime di Damasco, come l’ex vice presidente Abdul Halim Khaddam (dal 2005 in Francia). Quest’ultimo dopo aver condiviso tutte le scelte più sanguinarie del regime, ora si candida come interlocutore credibile per il futuro della Siria, facendo pesare il fatto di essere un sunnita, come la maggioranza della popolazione, e non alawita (la corrente islamica alla quale appartengono Assad e diversi esponenti del regime).
Certo da un anno a questa parte Saad Hariri aveva cambiato tono nei confronti di Damasco, tanto da arrivare ad affermare che «fu un errore» accusare la Siria dell’attentato in cui, nel febbraio 2005, fu assassinato il padre Rafiq. Ma è evidente che l’indebolimento del regime siriano o addirittura la sua caduta, avrebbe conseguenze dirette sull’alleato Hezbollah, rendendolo più vulnerabile alle pressioni delle formazioni libanesi filo-occidentali, a cominciare proprio da Mustaqbal, che insistono sul disarmo della guerriglia sciita libanese.
Un altro attore sulla tormentata scena politica siriana sarebbe il principe saudita Bandar Bin Sultan, segretario generale del Consiglio per la sicurezza nazionale del suo paese, già accusato di aver costruito a tavolino la vicenda dei «falsi testimoni» nell’inchiesta sull’attentato contro Hariri. Per una parte della stampa araba Bandar è lo sponsor di gruppi radicali islamici. In casa saudita si lavora all’isolamento del potente avversario iraniano e, sebbene l’eventuale caduta di Assad metterebbe a rischio la stabilità della regione, a Riyadh si ritiene che per Tehran i margini di movimento si farebbero più stretti con la perdita del regime siriano, del quale è alleata da trent’anni. In questo quadro i più cauti appaiono gli Stati Uniti che, pur minacciando sanzioni, si sono guardati dall’attaccare frontalmente Assad. Per Washington e l’alleato israeliano, il presidente siriano è un nemico ma anche un garante della stabilità della regione. Come suo padre Hafez, anche Bashar reclama con forza la restituzione del Golan occupato da Israele nel 1967, ma sulle linee d’armistizio tra Stato ebraico e Siria non si spara un colpo dal 1974.
Mustaqbal in particolare offrirebbe appoggio logistico agli uomini di Rifaat Assad, lo zio di Bashar costretto alla fuga e all’esilio dopo aver tentato un golpe fallito miseramente. Dalla sua base nel quartiere londinese di Mayfair, Rifaat dirige un nebuloso network di esuli siriani che hanno ben poco in comune con i giovani che stanno protestando nelle piazze di Daraa e di altre città.
Hariri e il suo partito respingono seccamente le accuse. Da anni però i sunniti libanesi sono molto interessati alle vicende interne siriane. I cablogrammi pubblicati da WikiLeaks hanno rivelato che nel 2006 Hariri chiese agli Stati Uniti di rovesciare il regime siriano e di sostituirlo con una coalizione che comprenda i Fratelli musulmani e alcuni ex esponenti del regime di Damasco, come l’ex vice presidente Abdul Halim Khaddam (dal 2005 in Francia). Quest’ultimo dopo aver condiviso tutte le scelte più sanguinarie del regime, ora si candida come interlocutore credibile per il futuro della Siria, facendo pesare il fatto di essere un sunnita, come la maggioranza della popolazione, e non alawita (la corrente islamica alla quale appartengono Assad e diversi esponenti del regime).
Certo da un anno a questa parte Saad Hariri aveva cambiato tono nei confronti di Damasco, tanto da arrivare ad affermare che «fu un errore» accusare la Siria dell’attentato in cui, nel febbraio 2005, fu assassinato il padre Rafiq. Ma è evidente che l’indebolimento del regime siriano o addirittura la sua caduta, avrebbe conseguenze dirette sull’alleato Hezbollah, rendendolo più vulnerabile alle pressioni delle formazioni libanesi filo-occidentali, a cominciare proprio da Mustaqbal, che insistono sul disarmo della guerriglia sciita libanese.
Un altro attore sulla tormentata scena politica siriana sarebbe il principe saudita Bandar Bin Sultan, segretario generale del Consiglio per la sicurezza nazionale del suo paese, già accusato di aver costruito a tavolino la vicenda dei «falsi testimoni» nell’inchiesta sull’attentato contro Hariri. Per una parte della stampa araba Bandar è lo sponsor di gruppi radicali islamici. In casa saudita si lavora all’isolamento del potente avversario iraniano e, sebbene l’eventuale caduta di Assad metterebbe a rischio la stabilità della regione, a Riyadh si ritiene che per Tehran i margini di movimento si farebbero più stretti con la perdita del regime siriano, del quale è alleata da trent’anni. In questo quadro i più cauti appaiono gli Stati Uniti che, pur minacciando sanzioni, si sono guardati dall’attaccare frontalmente Assad. Per Washington e l’alleato israeliano, il presidente siriano è un nemico ma anche un garante della stabilità della regione. Come suo padre Hafez, anche Bashar reclama con forza la restituzione del Golan occupato da Israele nel 1967, ma sulle linee d’armistizio tra Stato ebraico e Siria non si spara un colpo dal 1974.
* da “il manifesto” del 28 aprile 2011
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L’analista egiziano Hani Shukrallah: Bashar mente
«Non è islamista il motore della rivolta»
Michele Giorgio
Gli islamisti recitano un ruolo importante nell’Egitto post-Mubarak e nella Tunisia post-Ben Ali. Si preparano ad interpretarlo anche in Siria? A dar credito alle denunce del regime del presidente Bashar Assad, i Fratelli Musulmani e alcune organizzazioni islamiche più radicali starebbero soffiando sul fuoco delle proteste a Daraa e in altre città siriane. Ne abbiamo parlato con l’analista egiziano Hani Shukrallah, esperto di movimenti islamici.
Come valuta il peso e il ruolo degli islamisti dopo quasi quattro mesi di rivolte e proteste in Nordafrica e Medio Oriente?
Per anni, talvolta decenni, gli islamisti sono stati repressi da regimi brutali, proprio come le forze laiche e quelle di sinistra. Da qualche mese si sono aperti spazi di democrazia e di libertà di azione politica senza precedenti in questa regione ed è normale che anche le formazioni islamiste, notoriamente ben organizzate e inserite nella società, siano scese in campo a giocare la loro partita. Ma queste rivolte erano e rimangono popolari, spontanee, e soprattutto non sono islamiche perché vedono protagoniste forze di ogni orientamento.
Quindi anche in Siria il ruolo degli islamisti è marginale?
Marginale è troppo riduttivo, direi non centrale, certamente molto meno rilevante rispetto a quanto affermano le autorità siriane. Senza dubbio anche gli islamisti scendono in strada a Daraa e nelle altre città protagoniste delle proteste di questi giorni ma escludo che siano il motore della rivolta. Le informazioni dicono che a manifestare contro il regime sono comuni cittadini, in gran parte non affiliati ad alcuna forza politica o religiosa. Non è strano peraltro che le autorità stiano accusando soprattutto gli islamisti in queste ore perché sono, anche in Siria, la formazione politico-sociale meglio strutturata ed organizzata tra le opposizioni. Ma questo è accaduto prima in Egitto e in Tunisia con Mubarak e Ben Ali, anche (il colonnello libico) Gheddafi ha parlato di un complotto di al Qaeda.
E se cade Assad?
I Fratelli musulmani saranno importanti ma non dominanti, proprio come qui in Egitto. La ricchezza dell’orizzonte politico siriano non permette ad una sola forza di monopolizzare il dibattito e il rapporto con la popolazione. È difficile prevedere come si concluderà la protesta (in Siria) ma in ogni caso entreranno in scena molti attori, laici e religiosi, conservatori e di sinistra. Nessuno vorrà fare la comparsa.
Gli islamisti recitano un ruolo importante nell’Egitto post-Mubarak e nella Tunisia post-Ben Ali. Si preparano ad interpretarlo anche in Siria? A dar credito alle denunce del regime del presidente Bashar Assad, i Fratelli Musulmani e alcune organizzazioni islamiche più radicali starebbero soffiando sul fuoco delle proteste a Daraa e in altre città siriane. Ne abbiamo parlato con l’analista egiziano Hani Shukrallah, esperto di movimenti islamici.
Come valuta il peso e il ruolo degli islamisti dopo quasi quattro mesi di rivolte e proteste in Nordafrica e Medio Oriente?
Per anni, talvolta decenni, gli islamisti sono stati repressi da regimi brutali, proprio come le forze laiche e quelle di sinistra. Da qualche mese si sono aperti spazi di democrazia e di libertà di azione politica senza precedenti in questa regione ed è normale che anche le formazioni islamiste, notoriamente ben organizzate e inserite nella società, siano scese in campo a giocare la loro partita. Ma queste rivolte erano e rimangono popolari, spontanee, e soprattutto non sono islamiche perché vedono protagoniste forze di ogni orientamento.
Quindi anche in Siria il ruolo degli islamisti è marginale?
Marginale è troppo riduttivo, direi non centrale, certamente molto meno rilevante rispetto a quanto affermano le autorità siriane. Senza dubbio anche gli islamisti scendono in strada a Daraa e nelle altre città protagoniste delle proteste di questi giorni ma escludo che siano il motore della rivolta. Le informazioni dicono che a manifestare contro il regime sono comuni cittadini, in gran parte non affiliati ad alcuna forza politica o religiosa. Non è strano peraltro che le autorità stiano accusando soprattutto gli islamisti in queste ore perché sono, anche in Siria, la formazione politico-sociale meglio strutturata ed organizzata tra le opposizioni. Ma questo è accaduto prima in Egitto e in Tunisia con Mubarak e Ben Ali, anche (il colonnello libico) Gheddafi ha parlato di un complotto di al Qaeda.
E se cade Assad?
I Fratelli musulmani saranno importanti ma non dominanti, proprio come qui in Egitto. La ricchezza dell’orizzonte politico siriano non permette ad una sola forza di monopolizzare il dibattito e il rapporto con la popolazione. È difficile prevedere come si concluderà la protesta (in Siria) ma in ogni caso entreranno in scena molti attori, laici e religiosi, conservatori e di sinistra. Nessuno vorrà fare la comparsa.
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Damasco, la paura non abita più qui
M. I.
DAMASCO
Sembra passato un secolo dal 18 marzo scorso, quando a Daraa (cittadina rurale e conservatrice al confine con la Giordania) è esplosa la protesta per chiedere libertà – sull’esempio dei moti tunisini ed egiziani – e la scarcerazione di 15 ragazzini arrestati per aver dipinto graffiti contro il regime siriano. L’ondata di proteste senza precedenti si è ormai allargata ad altre città del paese. Il regime di Damasco, governato dal 1963 dal partito Baath e dal 1970 dalla famiglia Assad, ha provato ad arginare la rivolta con un misto di concessioni (nuovo governo, fine della legge d’emergenza, promesse di dar vita a un regime multipartitico, libertà di stampa annunciata) e di repressione (secondo gli attivisti le vittime sono già oltre quattrocento, tra le quali un centinaio di persone uccise soltanto nell’ultimo venerdì).
La «svolta» è arrivata tre giorni fa, con l’invio dei carri armati a Daraa. «Il regime ha chiaramente scelto la risposta militare e accantonato il dialogo: prima la stabilità e poi le riforme» sostiene un diplomatico europeo. Secondo Al Jazeera 30 tank sono transitati anche per l’autostrada urbana di Damasco, con l’obiettivo di isolare i sobborghi popolari «ribelli» dalla capitale, Douma e Moadamaya, dove testimoni riferiscono di cecchini appostati sui tetti e centinaia di arresti effettuati dai servizi di sicurezza..
«Il regime ha risposto con la polizia e la paura alle proteste che chiedono la fine di questo stato di polizia e paura» denuncia Rami Nakleh, il cyberattivista che dal suo rifugio di Beirut diffonde video e informazioni sulle proteste in Siria utilizzando le reti sociali Facebook e twitter e avvalendosi dello pseudonimo «MalathAumran», una sorta di «Wael Ghonim», simbolo della rivoluzione egiziana.
«Siamo un network informale di attivisti provenienti da organizzazioni per i diritti umani, alcuni hanno dovuto lasciare il paese come me, ma altri sono ancora in Siria. Il nostro compito principale è diffondere informazioni, vista l’assenza dei media internazionali e la censura e repressione del regime. È in questo modo che appoggiamo i comitati locali che animano le proteste». Il gruppo Facebook «Syrian revolution 2011» pubblica i video delle proteste e ha superato i 130.000 iscritti, anche se molte adesioni arrivano dall’estero. Wissam Tarif, dell’ong Insan, si occupa di pubblicare su twitter i nomi delle vittime e degli arrestati.
Se da un lato c’è la rete, dall’altro c’è la realtà della comunità locale. «Queste proteste non sono animate dai partiti, l’opposizione organizzata in Siria è stata decimata da decenni di arresti e intimidazioni. Per anni gli unici assembramenti autorizzati sono stati nelle moschee» racconta Munif, militante dell’illegale partito comunista del lavoro, con 17 anni di prigione alle spalle. «Sono soprattutto giovani, sottoccupati, arrabbiati, che chiedono libertà e dignità, ragazzi impoveriti dalla crescita dei prezzi e dalla siccità, mentre la borghesia urbana e la classe mercantile di Aleppo e Damasco stanno a guardare».
Girando per la capitale non si vedono le manifestazioni riprese dai filmati amatoriali, non esiste una piazza «Tahrir» damascena. «Le proteste sono animate da comitati a livello di città, quartiere, paese, ci si conosce, ci si dà appuntamento il venerdì alla fine della preghiera nel tal luogo, ognuno partecipa nella propria area» dice Ahmad, un impiegato.
La Siria è un caleidoscopio geografico, etnico e religioso, con una maggioranza (75%) sunnita, e minoranze (13%) alauita (una setta sciita a cui appartiene la famiglia Assad ed i clan che detengono il potere politico e militare), cristiana (8%), druzi, ismailiti e un 10% di curdi ai quali Bashar ha recentemente concesso la cittadinanza.
Le autorità e i media siriani accusano gruppi armati islamisti «sponsorizzati dall’estero» (si parla di Arabia Saudita, Libano, Iraq) di voler destabilizzare la Siria. Secondo gli attivisti, sui manifestanti sparano le forze di sicurezza o milizie pro-governative come la «shabiha» (fantasmi), gruppo armato alauita e la milizia del partito Baath.
«Distribuiranno armi ai cittadini, inizieranno gli scontri tra gruppi e poi sarà il popolo stesso a chiedere l’intervento dell’esercito per garantire la sicurezza» prevede Adel, giovane imprenditore turistico. «Qui la situazione non è chiara come in Egitto, non sai di chi fidarti. Non voglio che la Siria finisca come l’Iraq» gli ribatte Muntaher, cristiano che vuole un cambiamento democratico ma ha paura di un eventuale dopo Assad.
«I nemici della Siria stanno approfittando della situazione di caos ma le proteste sono alimentate da domande a cui non sono state date risposte. Il presidente dovrebbe aprire una fase di dialogo nazionale coinvolgendo l’opposizione, esponenti religiosi, intellettuali, per disegnare insieme la Siria del futuro. Il cambiamento arriverà, perché tutti queste morti?» si chiede addolorato Walid, giovane militante del Ssnp, partito che fa parte del Fronte progressista dominato dal partito Baath.
Assad gode ancora di largo credito e supporto, visibile nei raduni popolari organizzati a suo sostegno un mese fa. «Il presidente è una brava persona, ma è circondato da una cerchia di ladri e corrotti» si sentiva spesso dire dai tassisti. Ma col passare delle settimane diventa più difficile sostenere la sua estraneità alle politica repressiva e aumenta la polarizzazione tra i pro ed i contro Assad. In città sono aumentati i poster del presidente, la televisione pubblica manda interviste che lo esaltano e chiamano traditori i manifestanti.
L’opposizione, pur frammentata, si sta organizzando formulando richieste di riforme democratiche attraverso un dialogo nazionale. Un appello di 102 intellettuali siriani chiede la fine delle violenze. In un mese in Siria l’aria è cambiata totalmente, e non solo perché è arrivata la primavera. Si è incrinato il muro della paura, si avverte confuso desiderio di libertà, ma sono anche cresciute preoccupazione e tensione. L’economia è ferma, pesando sui bilanci di un paese in cui il 30% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, con meno di due dollari al giorno. Le prossime settimane saranno decisive: la repressione fermerà o alimenterà le proteste? E le proteste riusciranno a rimanere pacifiche?
Sembra passato un secolo dal 18 marzo scorso, quando a Daraa (cittadina rurale e conservatrice al confine con la Giordania) è esplosa la protesta per chiedere libertà – sull’esempio dei moti tunisini ed egiziani – e la scarcerazione di 15 ragazzini arrestati per aver dipinto graffiti contro il regime siriano. L’ondata di proteste senza precedenti si è ormai allargata ad altre città del paese. Il regime di Damasco, governato dal 1963 dal partito Baath e dal 1970 dalla famiglia Assad, ha provato ad arginare la rivolta con un misto di concessioni (nuovo governo, fine della legge d’emergenza, promesse di dar vita a un regime multipartitico, libertà di stampa annunciata) e di repressione (secondo gli attivisti le vittime sono già oltre quattrocento, tra le quali un centinaio di persone uccise soltanto nell’ultimo venerdì).
La «svolta» è arrivata tre giorni fa, con l’invio dei carri armati a Daraa. «Il regime ha chiaramente scelto la risposta militare e accantonato il dialogo: prima la stabilità e poi le riforme» sostiene un diplomatico europeo. Secondo Al Jazeera 30 tank sono transitati anche per l’autostrada urbana di Damasco, con l’obiettivo di isolare i sobborghi popolari «ribelli» dalla capitale, Douma e Moadamaya, dove testimoni riferiscono di cecchini appostati sui tetti e centinaia di arresti effettuati dai servizi di sicurezza..
«Il regime ha risposto con la polizia e la paura alle proteste che chiedono la fine di questo stato di polizia e paura» denuncia Rami Nakleh, il cyberattivista che dal suo rifugio di Beirut diffonde video e informazioni sulle proteste in Siria utilizzando le reti sociali Facebook e twitter e avvalendosi dello pseudonimo «MalathAumran», una sorta di «Wael Ghonim», simbolo della rivoluzione egiziana.
«Siamo un network informale di attivisti provenienti da organizzazioni per i diritti umani, alcuni hanno dovuto lasciare il paese come me, ma altri sono ancora in Siria. Il nostro compito principale è diffondere informazioni, vista l’assenza dei media internazionali e la censura e repressione del regime. È in questo modo che appoggiamo i comitati locali che animano le proteste». Il gruppo Facebook «Syrian revolution 2011» pubblica i video delle proteste e ha superato i 130.000 iscritti, anche se molte adesioni arrivano dall’estero. Wissam Tarif, dell’ong Insan, si occupa di pubblicare su twitter i nomi delle vittime e degli arrestati.
Se da un lato c’è la rete, dall’altro c’è la realtà della comunità locale. «Queste proteste non sono animate dai partiti, l’opposizione organizzata in Siria è stata decimata da decenni di arresti e intimidazioni. Per anni gli unici assembramenti autorizzati sono stati nelle moschee» racconta Munif, militante dell’illegale partito comunista del lavoro, con 17 anni di prigione alle spalle. «Sono soprattutto giovani, sottoccupati, arrabbiati, che chiedono libertà e dignità, ragazzi impoveriti dalla crescita dei prezzi e dalla siccità, mentre la borghesia urbana e la classe mercantile di Aleppo e Damasco stanno a guardare».
Girando per la capitale non si vedono le manifestazioni riprese dai filmati amatoriali, non esiste una piazza «Tahrir» damascena. «Le proteste sono animate da comitati a livello di città, quartiere, paese, ci si conosce, ci si dà appuntamento il venerdì alla fine della preghiera nel tal luogo, ognuno partecipa nella propria area» dice Ahmad, un impiegato.
La Siria è un caleidoscopio geografico, etnico e religioso, con una maggioranza (75%) sunnita, e minoranze (13%) alauita (una setta sciita a cui appartiene la famiglia Assad ed i clan che detengono il potere politico e militare), cristiana (8%), druzi, ismailiti e un 10% di curdi ai quali Bashar ha recentemente concesso la cittadinanza.
Le autorità e i media siriani accusano gruppi armati islamisti «sponsorizzati dall’estero» (si parla di Arabia Saudita, Libano, Iraq) di voler destabilizzare la Siria. Secondo gli attivisti, sui manifestanti sparano le forze di sicurezza o milizie pro-governative come la «shabiha» (fantasmi), gruppo armato alauita e la milizia del partito Baath.
«Distribuiranno armi ai cittadini, inizieranno gli scontri tra gruppi e poi sarà il popolo stesso a chiedere l’intervento dell’esercito per garantire la sicurezza» prevede Adel, giovane imprenditore turistico. «Qui la situazione non è chiara come in Egitto, non sai di chi fidarti. Non voglio che la Siria finisca come l’Iraq» gli ribatte Muntaher, cristiano che vuole un cambiamento democratico ma ha paura di un eventuale dopo Assad.
«I nemici della Siria stanno approfittando della situazione di caos ma le proteste sono alimentate da domande a cui non sono state date risposte. Il presidente dovrebbe aprire una fase di dialogo nazionale coinvolgendo l’opposizione, esponenti religiosi, intellettuali, per disegnare insieme la Siria del futuro. Il cambiamento arriverà, perché tutti queste morti?» si chiede addolorato Walid, giovane militante del Ssnp, partito che fa parte del Fronte progressista dominato dal partito Baath.
Assad gode ancora di largo credito e supporto, visibile nei raduni popolari organizzati a suo sostegno un mese fa. «Il presidente è una brava persona, ma è circondato da una cerchia di ladri e corrotti» si sentiva spesso dire dai tassisti. Ma col passare delle settimane diventa più difficile sostenere la sua estraneità alle politica repressiva e aumenta la polarizzazione tra i pro ed i contro Assad. In città sono aumentati i poster del presidente, la televisione pubblica manda interviste che lo esaltano e chiamano traditori i manifestanti.
L’opposizione, pur frammentata, si sta organizzando formulando richieste di riforme democratiche attraverso un dialogo nazionale. Un appello di 102 intellettuali siriani chiede la fine delle violenze. In un mese in Siria l’aria è cambiata totalmente, e non solo perché è arrivata la primavera. Si è incrinato il muro della paura, si avverte confuso desiderio di libertà, ma sono anche cresciute preoccupazione e tensione. L’economia è ferma, pesando sui bilanci di un paese in cui il 30% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, con meno di due dollari al giorno. Le prossime settimane saranno decisive: la repressione fermerà o alimenterà le proteste? E le proteste riusciranno a rimanere pacifiche?
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