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La sfida iraniana agli USA e all’Unione Europea continua

Domenica 7 luglio le autorità iraniane hanno annunciato che avrebbero ripreso l’arricchimento dell’Uranio al di là del limite consentito del 3,67%, fissato dall’accordo 5+1 (i cinque membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU più la Germania), sottoscritto il luglio del 2015 a Vienna, e da cui un anno fa circa sono usciti unilateralmente gli Stati Uniti, nel maggio del 2018, riprendendo la politica sanzionatoria contro la Repubblica Islamica.

Sei giorni prima di domenica, il Ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, aveva annunciato che lo stock di uranio impoverito aveva oltrepassato il limite dei 300 kg imposto dall’accordo di Vienna.

L’accordo era la risoluzione di una difficile equazione politico-diplomatica, ma che in sostanza aveva portato, da una parte, alla fine dei progetti nucleari di tipo militare dell’Iran – che non ha rinunciato comunque ai suoi progetti di difesa balistica come alcuni avrebbero voluto – e, dall’altra, alla fine delle decennali sanzioni dell’ONU, permettendo così in nuce uno sviluppo economico che avrebbe proiettato l’Iran come potenza economica regionale, al centro di una ampia rete di scambi di cui avrebbero potuto giovarsi anche alcuni paesi della UE, tra cui l’Italia.

Peccato che il “greggio iraniano” sia diretto concorrente della rinnovata capacità estrattiva statunitense, e che l’Iran sia lo storico nemico di Israele e Arabia Saudita nell’area.

Bisogna ricordare infatti che l’Iran è una potenza militare regionale alla testa della cosiddetta “Mezza Luna Sciita”, che ha dato un contributo fondamentale alla sconfitta dell’ISIS e che sostiene attraverso i consolidati legami con “l’arcipelago sciita” rapporti che vanno dalla penisola arabica (lo Yemen), fino all’Asia (Afghanistan e Pakistan), passando per la Siria, l’Iraq e il Libano.

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L’amministrazione Trump, allineandosi con i paesi che l’avevano osteggiato – in primis Israele e Arabia Saudita – e ai falchi della sua amministrazione (Bolton e Pompeo), era uscita da questo accordo negoziato per ventun mesi e sottoscritto da Obama: un capolavoro diplomatico, con tutti i chiaroscuri dei compromessi di grande respiro, in grado di fare avanzare il processo di pace ed un ordine di relazioni internazionali paritetiche.

L’Iran ha accettato l’accordo e si è sottoposto ai più “invasivi” controlli da parte dell’autorità preposta: gli ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. I cui standard vanno ben al di là di quelli riservati agli altri paesi che hanno firmato trattati di non proliferazione. Tehran ha garantito all’Aiea l’accesso a tutti i siti (tranne le installazioni militari), l’installazione di telecamere, con relazioni dettagliate che venivano inviate a Vienna ogni tre mesi.

Le parole di Yukiya Amano, patron dell’Agenzia dal 2009 sono chiarissime:

Noi registriamo tutto e analizziamo centinaia di migliaia di immagini prese giorno per giorno, che rappresentano più della metà delle immagini raccolte dalla nostra agenzia nel mondo”.

Appare chiaro che chi, come Trump, denuncia l’insufficienza dei controlli, mente sapendo di mentire e che è praticamente impossibile per la Repubblica Islamica aver aggirato finora l’accordo.

Prima dell’accordo l’Iran disponeva di uno stock di 10.000 kg di uraniano impoverito e di 19.000 centrifughe, oggi non sono che 5.060. Prima del luglio 2015 sarebbero state necessarie appena alcune settimane per raggiungere la quantità e gli standard di uranio arricchito – il break out time – in grado di passare alla produzione nucleare, mentre oggi con le attuali capacità produttive, come spiega Benjamin Hautecouverture – capo-ricercatore della Fondation pour la recherche stratégique: “l’oltrepassamento del limite dei 300 kg di uranio scarsamente arricchito non è ancora grave sul piano del rischio militare. Questa soglia è stata fissata perché, tenuto conto dei mezzi di cui dispone l’Iran dopo essersi conformata all’accordo, ci vorrà almeno un anno per arrivare a possedere 25 kg di uranio di qualità militare, altamente arricchito al 90%, necessario per la fabbricazione di un’arma nucleare rudimentale

Non c’è quindi ad oggi nessun pericolo “imminente” rispetto al nucleare iraniano, e chi afferma il contrario sa di creare una fake news utile solo alla propaganda di guerra di USA e soci.

Se l’Iran non rispetta l’Accordo rischia di essere soggetto alle sanzioni economiche internazionali, “sepolte” con la Risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 20 luglio 2015. Si tratta della conseguenza “automatica” – snap-back – imposta dai governi occidentali, in particolare quello francese, che aveva premuto affinché l’accordo comprendesse anche la capacità balistica iraniana.

Per ristabilire le sanzioni non è indispensabile una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e questo annulla di fatto la capacità di veto di Russia e Cina.

L’iter dovrebbe essere questo: un report degli ispettori dell’Agenzia che confermano la violazione del contenuto dell’accordo, la creazione di una commissione dei membri firmatari (tranne gli Stati Uniti) per trovare una soluzione con Teheran. Se questa non arrivasse, allora la Commissione congiunta o un singolo stato può chiedere di “investire” il Consiglio di Sicurezza; si tratterebbe di una decisione del tutto politica.

Nonostante la preoccupazione espresse, il presidente francese E. Macron ha dichiarato, alla fine del vertice G20 di Osaka, che “non opteremo direttamente per una ripresa delle sanzioni”.

La Francia aveva infatti in via di realizzazione – prima dell’uscita unilaterale statunitense – un serie di ingenti progetti che riguardavano alcune delle maggiori mulrinazionali dell’Esagono.

Per ora, comunque, l’Iran alza l’asticella, anche affermando di essere intenzionata a riprendere la costruzione del reattore ad “acqua pesante” di Arak, e quindi di poter produrre plutonio a fini militari, dichiarando che oltrepasserà gli stock di “acqua pesante” di cui dispone, andando oltre le 130 tonnellate autorizzate…

L’accordo del 2015 prevede un rapido ritorno allo status quo ante, permettendo delle rappresaglie massicce, con il ristabilimento delle sanzioni economiche internazionali, mentre non è stata prevista alcuna risposta graduale in risposta ai sotterfugi di una ipotetica risposta iraniana – di svuotamento “dall’interno” dell’accordo – che si profila all’orizzonte.

L’Iran aveva dato una sorta di “ultimatum” ai Paesi dell’Unione Europea e della Comunità Internazionale che scadeva proprio questa domenica, considerata l’incapacità di rendere veramente operativo il sistema INSTEX che avrebbe permesso di aggirare le sanzioni statunitensi, rendendo possibile lo sviluppo di una rete di rapporti commerciali basati, da un lato, essenzialmente sulla vendita del greggio iraniano  e dall’altro su investimenti stranieri, oltre alle possibilità di importazione.

Veniamo all’Italia: l’interscambio tra i due paesi, anche nei periodi “peggiori”, era stato sempre notevole, arrivando ai 5 miliardi di euro nel 2017. Le sanzioni USA e la vocazione “atlantista” del governo grigio-verde hanno cambiato le cose, tanto da non aderire a INSTEX – che è stata una creazione franco-tedesco-britannica.

L’Italia aveva ricevuto una esenzione dalle sanzioni per sei mesi ma, come ha ricordato l’ambasciatore iraniano a Roma al “Messaggero”, “l’ENI poteva acquistare il nostro petrolio, ma per sue considerazioni ha preferito non farlo”.

Allo stesso tempo il sistema di piccole e medie imprese non ha avuto accesso al sistema di credito necessario per poter investire in Iran.

Un duro colpo al sistema-paese, dopo l’efficacia delle contro-sanzioni russe, di cui è responsabile innanzitutto l’incapacità politica del “governo del cambiamento”.

L’Iran ha quindi guardato sempre più a Est, prosegue Pietro Piovani nell’articolo citato: “russi e soprattutto cinesi stanno concludendo ottimi affari; nei mesi scorse le raffinerie della Cina hanno fatto massiccia scorta di greggio a buon prezzo, e in cambio l’Iran è diventato grande importatore di prodotti cinesi, acquista dal colosso asiatico tecnologia e commissiona alle imprese di Pechino grandi opere infrastrutturali”.

Alla luce della cooperazione strategica firmata tra Cina e Russia, che ha avuto precisi riflessi sul dossier coreano, la politica levantina dell’Iran sembra essere un primo significativo passo nella costituzione di un blocco economico trans-asiatico destinato a mutare alcuni connotati strutturali del mondo multipolare.

Come ha detto un Oil Facility iraniano, al “Financial Times” del 26 giugno, che ha riportato i movimenti delle petroliere iraniane in Cina: “abbiamo ancora molti modi per vendere petrolio, anche alle stesse raffinerie europee attraverso il re-routing che permette triangolazioni in grado di far ricevere il greggio nel cuore del Vecchio Continente“.

Come ha ribadito l’ambasciatore a Roma: “in questa partita, per l’Europa appoggiare l’Iran significa appoggiare l’Europa stessa”. Purtroppo, però, l’Unione Europea non è affatto l’Europa, ma un dispositivo economico-politico strutturalmente incapace di stabilire legami di cooperazione paritetica, a causa del suo DNA, che mescola l’antica tara coloniale con la tradizionale subordinazione ai diktat atlantici (a far data dalla fine della Seconda guerra mondiale).

Dopo la “sconfitta” del golpe in Venezuela, l’interrotta escalation militare verso l’Iran e la partenza dei “dazi commerciali” con la Cina (persa da Trump), oltre al fallimento della Conferenza di Manama sulla Palestina, andrebbe fatta una riflessione sull’accumulo di verifiche empiriche della crisi dell’Impero statunitense nel determinare un piano politico, partendo da quelle forzature che ne hanno sempre caratterizzato la storia contemporanea, “mutando gli equilibri”.

In Iran ne sono bene consci e stanno giocando la partita, forti di un rinnovato protagonismo regionale che ha contribuito a mettere in scacco nell’area  i piani dell’ex super-potenza e dei suoi alleati, dell’accelerazione della configurazione di un mondo effettivamente multipolare e della necessità dell’Unione Europea di trovare una politica commerciale meno subordinata a quella di Washington, alle imminenti elezioni politiche.

E non è detto che non siano proprio gli Stati Uniti a mollare in questo braccio di ferro, magari “allentando” in sordina le sanzioni in maniera certo meno spettacolare del solito gesticolare di Trump.

Forse, oltre le “lenti deformanti” dell’ideologia con cui gli apparati culturali ci costringono a vedere il mondo, dovremmo sforzarci di relazionarci in maniera paritetica con quei mondi che stanno ridisegnando le mappe del XXI secolo: nulla di nuovo, era l’intuizione – che dovremmo riadattare al mondo attuale – di un vecchio ex-partigiano socialista durante la Prima Repubblica, scomparso in un “incidente” aereo che le malelingue suppongono essere frutto di un sabotaggio…

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