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L’Egitto dopo la cacciata di Mubarak

La violenza settaria insidia la rivoluzione
Secondo l’analista Emad Gad nel paese ci sono tremila salafiti armati provenienti da altri paesi Preoccupati i leader della rivolta anti-Mubarak: «Non è stata fatta “pulizia”, le conquiste di piazza Tahrir sono in pericolo». Critiche all’esercito e sospetti sul ruolo del regime saudita

 

Michele Giorgio
«Non è facile raggiungere tutti gli obiettivi della rivoluzione (del 25 gennaio, ndr), gli ostacoli sono tanti ma, nonostante tutto, gli egiziani rimangono uniti e vanno avanti, piano ma vanno avanti tutti insieme». Prova a mostrarsi ottimista Ahmed Maher, uno dei giovani protagonisti della rivolta di Piazza Tahrir contro l’ex presidente Hosni Mubarak e il suo regime.
Maher risponde alle nostre domande con calma ma la sua voce tradisce la preoccupazione per le violenze e gli scontri tra musulmani salafiti e cristiani copti che stanno facendo rimpiombare l’Egitto nel baratro delle tensioni sociali. Il colloquio telefonico non può non toccare il ruolo poco incisivo del governo e delle Forze Armate che controllano il paese dallo scorso 11 febbraio. «Senza dubbio l’esercito e il governo avrebbero potuto e dovuto fare di più per prevenire le tensioni tra musulmani e copti ma, in tutta onestà, credo che non abbiamo avuto neanche il tempo di elaborare una strategia», spiega Maher, tra i leader del movimento anti-Mubarak «6 Aprile» (da settimane scosso da forti tensioni interne).
Scontri davanti alla sede della tv
Mentre il giovane attivista parla, dal Cairo arrivano nuove notizie di scontri violenti tra musulmani e copti e dell’esercito che è dovuto intervenire per contenere la situazione. Un centinaio di persone ieri si sono tirate le pietre a vicenda davanti alla sede della televisione e della radio di Stato, durante un raduno di cristiani a cui partecipavano anche musulmani che protestavano per i 12 morti, i duecento i feriti e il tentativo, nel fine settimana, di militanti salafiti di dare fuoco a due chiese nel quartiere popolare di Imbaba. E a conferma della gravità del quadro settario nell’Egitto post-Mubarak c’è proprio il ritorno in strada avvenuto ieri sera delle forze protagoniste della rivolta con una manifestazione partita da Piazza Talaat Harb e giunta fino alla chiesa dove sono iniziati nei giorni scorsi gli scontri. Una marcia che ha voluto ribadire l’importanza del ruolo che elementi fedeli all’ex raìs Mubarak stanno avendo nell’innescare caos e disordini a sfondo religioso per dimostrare che «si stava meglio quando si stava peggio».
Se ne è parlato molto alla prima convention dalla rivolta. Sabato scorso circa tremila persone fra giovani, blogger, esponenti della società civile, lo scrittore Alaa Aswany – assenti i Fratelli Musulmani e i due possibili candidati alla presidenza, Amr Musa e Mohammed al Baradei – hanno discusso di come «proteggere» la rivoluzione. È stata proposta la costituzione di un consiglio nazionale, incaricato di dare impulso al Consiglio supremo dello Forze Armate, che procede a passo di lumaca verso le riforme e ha mantenuto in piedi l’ossatura del passato regime. «La rivoluzione è in pericolo», ha avvertito Nasser Abdel Hamid, «i segnali che riceviamo non sono di buon auspicio e il minimo è stato fatto, portando a processo qualche rappresentante del vecchio regime. Ma ancora non c’è stata la ristrutturazione e la pulizia necessaria». Il dibattito è stato serrato: dalla Costituzione non riscritta, ai rapporti tra le religioni alle libertà civili. Un coro – «Liberate i detenuti politici» «No alla legge contro lo sciopero» – ha accolto il ministro delle autorità locali Mohsen Noemani che rappresentato il governo alla convention. Fischi, e tanti, per Tahani al-Gebali, primo giudice donna dell’Egitto, che ha insistito sulla sharia (codice coranico) come unica fonte di legge. Alla fine, tra i partecipanti non prevaleva l’ottimismo. «Sono molto preoccupata», ha laconicamente commentato Israa Abdel Fatah, blogger, tra le fondatrici del movimento «6 Aprile».
I regimi arabi ultra-comservatori
E non è detto che a soffiare sul fuoco degli scontri settari che preoccupano la popolazione, siano soltanto alcune parti egiziane che sperano di spostare su altre emergenze l’attenzione di militari, governo e magistratura, ora concentrata sull’allegro banchetto di poteri e fondi pubblici al quale Mubarak ha invitato amici e fedelissimi per i passati trent’anni. Dietro gli scontri fra musulmani e copti ci sono anche regimi arabi ultra-conservatori, come l’Arabia saudita, che usano i salafiti. Principale fautore di questa tesi è l’analista Emad Gad, secondo il quale l’obiettivo è quello di far fallire la rivoluzione egiziana e di scoraggiare altri popoli dal seguirne l’esempio. «I rivoluzionari nel mondo arabo non hanno preso il potere che, invece, resta nelle mani di istituzioni che costituiscono un prolungamento dei regimi caduti», osserva Gad. «I gruppi al potere peraltro sono legati a certi regimi arabi che temono rivoluzioni simili a quelle avvenute in Egitto e in Tunisia», prosegue l’analista, secondo il quale in Egitto ci sono tremila salafiti armati provenienti da altri paesi, oltre a quelli che «lavoravano segretamente con i servizi di sicurezza di Mubarak».
Dietro l’emergere prepotente dalla clandestinità dei salafiti ci sarebbero perciò anche cospicui fondi sauditi e del Golfo (Riyadh già finanzia alcune stazioni tv satellitari che trasmettono incessantemente sermoni di sceicchi salafiti). «L’Arabia saudita sta provando ad influenzare lo sviluppo delle rivoluzione egiziana attraverso le azioni degli estremisti religiosi», afferma il professore Ashraf el Sharif, dell’Università Americana del Cairo. «I salafiti stanno facendo forti pressioni anche sui Fratelli Musulmani affinchè adottino una visione della società più rigida», aggiunge el Sharif, spiegando che il successo e l’esempio di una rivoluzione laica in Egitto, il più importante dei paesi arabi, viene visto come un pericolo dall’Arabia saudita, esportatrice per decenni dell’Islam wahabita, ultraconservatore, tra il Nordafrica, il Medio Oriente e l’Asia centrale.
Ma dietro l’interferenza saudita sono anche interessi strategici di eccezionale importanza, dice da parte sua Hassan Abu Taleb, specialista egiziano dei paesi del Golfo. L’attuale governo egiziano, afferma Abu Taleb, ha modificato, seppur parzialmente, la rotta di politica estera seguita da Mubarak, facendo delle improvvise aperture all’Iran, il «pericolo numero 1» dei Saud. «Riyadh – conclude – infiammando i rapporti tra musulmani e cristiani in Egitto, fa capire al governo Sharaf che il riavvicinamento tra il Cairo e Tehran non potrà in alcun caso avvenire a spese delle priorità saudite».
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Rinascono i partiti della sinistra egiziana, per ora divisa e debole

 

Mi. Gio.
Se tra gli obiettivi di gran parte dei partecipanti alla conferenza di sabato scorso su come «proteggere» la rivoluzione egiziana del 25 gennaio c’è la possibile formazione di un fronte elettorale con buona parte delle forze liberali e laiche (contrapposto al partito dei Fratelli Musulmani), a sinistra invece regna la frammentazione. Partito democratico dei Lavoratori, Partito democratico socialista, Partito socialista rivoluzionario sono solo alcune delle nuove forze politiche nate a sinistra dopo la caduta di Mubarak che vanno ad aggiungersi a quelle già esistenti, come il (morente) Tagammu. Senza dimenticare il riemergere dalla illegalità del Partito comunista egiziano, probabilmente il più organizzato a sinistra, che il primo maggio ha potuto sventolare di nuovo le sue bandiere in Piazza Tahrir (fondato nel 1922, il Pce ha operato clandestinamente tra il 1924 e la metà degli anni ’60, quando venne sciolto. È rinato nel 1975). Nei giorni scorsi inoltre ha tenuto il suo primo congresso l’Alleanza popolare socialista, un partito dal marcato orientamento marxista che chiede, persino più del Pce, un forte ruolo dello Stato, la fine del liberismo in economia e del programma di privatizzazioni svolto da Mubarak e la proprietà collettiva dei mezzi di produzione.
La nuova sinistra egiziana non pare destinata ad ottenere risultati significativi alle elezioni di settembre. Alcuni partiti potrebbero persino fallire l’obiettivo minimo dei 5mila tesserati, obbligatorio per partecipare al voto sulla base dei criteri fissati dalla legge elettorale formulata dal Consiglio supremo delle Forze Armate. L’Alleanza popolare socialista, ad esempio, sino ad oggi ha raccolto poco meno di mille membri. E la presenza di tanti partiti ridurrà inevitabilmente anche le possibilità del Pce di raccogliere consensi. «La riorganizzazione della sinistra egiziana è necessaria per dare un contributo allo sviluppo del paese, costruire ponti tra i vari settori della società e limitare le divisioni alimentate dalle religioni», spiega Abul Ezz el Hariri, un ex deputato del Tagammu, in evidente riferimento agli scontri tra musulmani salafiti e copti che stanno insanguinando le strade dei quartieri popolari del Cairo. «Tuttavia per essere credibili e inseriti nel tessuto sociale – avverte el Hariri – dobbiamo unire le forze politiche con programmi e ideologie simili. Andare al voto di settembre divisi in tanti partiti sarebbe un suicidio»
Lancia un appello ai partiti di sinistra a «rinunciare all’isolamento» e ad unirsi alle forze laiche, l’attivista Mona Zolfaqar, che insiste per la creazione di una «barriera» da opporre alle liste islamiche che, secondo le previsioni di molti, potrebbero ottenere oltre il 50% dei seggi del Parlamento. «I partiti marxisti propongono un Egitto con diritti per tutti, di giustizia sociale e di parità tra uomo e donna, ma questi programmi, che pure sono largamente condivisibili, resteranno dei pezzi di carta se al potere andranno le forze conservatrici, con orientamento religioso. L’unità di laici e socialisti non è solo una possibilità da considerare ma un obbligo». Un discorso che a sinistra raccoglie consensi parziali. Il Pce, ad esempio, non crede allo scontro frontale con i Fratelli Musulmani, al contrario non esclude il dialogo con gli islamisti su temi come la giustizia sociale e il lavoro. «Spero che la sinistra riveda alcune sue posizioni troppo ideologiche e faccia i conti con l’Egitto che abbiamo davanti agli occhi – dice Zolfaqar – non serve a molto avere uno o due deputati nel nuovo Parlamento quando il paese rischia di precipitare all’indietro».
da “il manifesto” del 10 maggio 2011

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