GERUSALEMME
Ci sono anche l’ex presidente della Knesset Avraham Burg e il premio Nobel Daniel Kahneman tra i firmatari dell’appello a riconoscere la dichiarazione unilaterale di indipendenza palestinese, elaborato da un gruppo di 21 personalità d’Israele e intellettuali vicini al «Movimento di Solidarietà con Sheikh Jarrah» (Gerusalemme est), rivolto all’Europa e alla comunità internazionale. Il documento, che verrà diffuso oggi dai media locali e che il manifesto ha ottenuto ieri in anticipo, è una risposta ai discorsi pronunciati nei giorni scorsi negli Stati Uniti dal presidente Barack Obama e dal premier israeliano Benyamin Netanyahu, contrari all’iniziativa annunciata dal presidente palestinese Abu Mazen di rompere l’impasse facendo ricorso all’Assemblea Generale dell’Onu il prossimo settembre.
«La dichiarazione palestinese d’indipendenza è allo stesso tempo una sfida e una opportunità per entrambe le parti. È un momento decisivo», scrivono i firmatari dell’appello. «Il fallimento della comunità internazionale e in primo luogo degli Stati uniti – proseguono – di rilanciare i negoziati evidenzia una realtà innegabile e sconcertante: la pace è stata presa imprigioniata dal «processo di pace». L’edificazione in corso di insediamenti (colonici israeliani) in Cisgiordania e a Gerusalemme Est e il rifiuto (di Netanyahu) di congelare le costruzioni nell’interesse del negoziato, indica che l’attuale leadership di Israele usa il processo di pace come una manovra diversiva e non come un mezzo per la soluzione del conflitto». Pertanto – aggiungono Burg, Kahneman e gli altri firmatari tra i quali tre vincitori del Premio d’Israele: Avishai Margalit, Yirmiyahu Yovel e Menachem Yaari – «di fronte al continui rinvii e alla sfiducia reciproca, la dichiarazione palestinese di indipendenza non solo è legittima ma rappresenta anche un passo positivo e costruttivo per entrambe la nazioni». I firmatari non si dicono contrari a scambi territoriali tra Israele e Palestina nel quadro di un accordo fondato sul ritiro israeliano alle linee del 1967 (antecendenti all’occupazione dei Territori) e sono favorevoli alla proclamazione di Gerusalemme come capitale dei sue Stati e anche al riconoscimento di Gaza come parte integrante della Palestina. Chiedono però che la «leader palestinese nella Striscia», ossia Hamas, accetti Israele (possibilità che il movimento islamico esclude).
Da parte sua Burg – per decenni alto dirigente del movimento sionista (è stato anche responsabile dell’Agenzia Ebraica) ma che qualche anno fa ha rotto con l’establishment politico israeliano – aggiunge che «Netanyahu sta trascinando la regione in un periodo di intransigenza e di spargimento di sangue ed è sottomesso agli elementi più estremisti della società israeliana». L’ex presidente della Knesset perciò invita i leader mondiali a fare l’unica cosa che può aiutare la pace: riconoscere la dichiarazione d’indipendenza palestinese il prossimo settembre.
L’appello delle 21 personalità israeliane, che chiederanno di incontrare gli ambasciatori europei, verrà certamente accolto con favore alla Muqata di Ramallah anche se Abu Mazen e il suo entourage, pur confermando di voler andare a settembre all’Onu, hanno accusato il colpo dei ripetuti «no» di Obama ad una dichiarazione unilaterale d’indipendenza. Il presidente dell’Anp mercoledì aveva denunciato il discorso di Netanyahu, dinanzi al Congresso Usa come un «passo indietro». Il documento riceverà ben altra accoglienza dal governo israeliano ma in ogni caso non pare destinato a turbare più di tanto Netanyahu. Il primo ministro ha trovato il consenso in ascesa al rientro dagli Usa. Un sondaggio pubblicato ieri dal giornale Haaretz, indica che la popolarità complessiva di Netanyahu – precipitata al 38% negli ultimi mesi – ora è vicina al 50%. Anche Obama recupera molte posizioni nella classifica del gradimento degli israeliani. Il proseguimento dell’occupazione militare dei Territori palestinesi e della colonizzazione di Cisgiordania e Gerusalemme Est sembrano andare bene alla maggioranza del paese. D’altronde perché questi cittadini dovrebbero preoccuparsi di mettere fine dopo 44 anni all’occupazione quando gran parte della comunità internazionale, a partire da Obama, evita di fare la voce grossa con Netanyahu? Applaudono il premier persino gli incontentabili coloni che se da un lato criticano la disponibilità manifestata da Netanyahu al Congresso sulla possibile evacuazione di un paio di colonie in Cisgiordania, all’altro esprimono una «una sostanziale comunanza di vedute».
Ci sono anche l’ex presidente della Knesset Avraham Burg e il premio Nobel Daniel Kahneman tra i firmatari dell’appello a riconoscere la dichiarazione unilaterale di indipendenza palestinese, elaborato da un gruppo di 21 personalità d’Israele e intellettuali vicini al «Movimento di Solidarietà con Sheikh Jarrah» (Gerusalemme est), rivolto all’Europa e alla comunità internazionale. Il documento, che verrà diffuso oggi dai media locali e che il manifesto ha ottenuto ieri in anticipo, è una risposta ai discorsi pronunciati nei giorni scorsi negli Stati Uniti dal presidente Barack Obama e dal premier israeliano Benyamin Netanyahu, contrari all’iniziativa annunciata dal presidente palestinese Abu Mazen di rompere l’impasse facendo ricorso all’Assemblea Generale dell’Onu il prossimo settembre.
«La dichiarazione palestinese d’indipendenza è allo stesso tempo una sfida e una opportunità per entrambe le parti. È un momento decisivo», scrivono i firmatari dell’appello. «Il fallimento della comunità internazionale e in primo luogo degli Stati uniti – proseguono – di rilanciare i negoziati evidenzia una realtà innegabile e sconcertante: la pace è stata presa imprigioniata dal «processo di pace». L’edificazione in corso di insediamenti (colonici israeliani) in Cisgiordania e a Gerusalemme Est e il rifiuto (di Netanyahu) di congelare le costruzioni nell’interesse del negoziato, indica che l’attuale leadership di Israele usa il processo di pace come una manovra diversiva e non come un mezzo per la soluzione del conflitto». Pertanto – aggiungono Burg, Kahneman e gli altri firmatari tra i quali tre vincitori del Premio d’Israele: Avishai Margalit, Yirmiyahu Yovel e Menachem Yaari – «di fronte al continui rinvii e alla sfiducia reciproca, la dichiarazione palestinese di indipendenza non solo è legittima ma rappresenta anche un passo positivo e costruttivo per entrambe la nazioni». I firmatari non si dicono contrari a scambi territoriali tra Israele e Palestina nel quadro di un accordo fondato sul ritiro israeliano alle linee del 1967 (antecendenti all’occupazione dei Territori) e sono favorevoli alla proclamazione di Gerusalemme come capitale dei sue Stati e anche al riconoscimento di Gaza come parte integrante della Palestina. Chiedono però che la «leader palestinese nella Striscia», ossia Hamas, accetti Israele (possibilità che il movimento islamico esclude).
Da parte sua Burg – per decenni alto dirigente del movimento sionista (è stato anche responsabile dell’Agenzia Ebraica) ma che qualche anno fa ha rotto con l’establishment politico israeliano – aggiunge che «Netanyahu sta trascinando la regione in un periodo di intransigenza e di spargimento di sangue ed è sottomesso agli elementi più estremisti della società israeliana». L’ex presidente della Knesset perciò invita i leader mondiali a fare l’unica cosa che può aiutare la pace: riconoscere la dichiarazione d’indipendenza palestinese il prossimo settembre.
L’appello delle 21 personalità israeliane, che chiederanno di incontrare gli ambasciatori europei, verrà certamente accolto con favore alla Muqata di Ramallah anche se Abu Mazen e il suo entourage, pur confermando di voler andare a settembre all’Onu, hanno accusato il colpo dei ripetuti «no» di Obama ad una dichiarazione unilaterale d’indipendenza. Il presidente dell’Anp mercoledì aveva denunciato il discorso di Netanyahu, dinanzi al Congresso Usa come un «passo indietro». Il documento riceverà ben altra accoglienza dal governo israeliano ma in ogni caso non pare destinato a turbare più di tanto Netanyahu. Il primo ministro ha trovato il consenso in ascesa al rientro dagli Usa. Un sondaggio pubblicato ieri dal giornale Haaretz, indica che la popolarità complessiva di Netanyahu – precipitata al 38% negli ultimi mesi – ora è vicina al 50%. Anche Obama recupera molte posizioni nella classifica del gradimento degli israeliani. Il proseguimento dell’occupazione militare dei Territori palestinesi e della colonizzazione di Cisgiordania e Gerusalemme Est sembrano andare bene alla maggioranza del paese. D’altronde perché questi cittadini dovrebbero preoccuparsi di mettere fine dopo 44 anni all’occupazione quando gran parte della comunità internazionale, a partire da Obama, evita di fare la voce grossa con Netanyahu? Applaudono il premier persino gli incontentabili coloni che se da un lato criticano la disponibilità manifestata da Netanyahu al Congresso sulla possibile evacuazione di un paio di colonie in Cisgiordania, all’altro esprimono una «una sostanziale comunanza di vedute».
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