Gli attuali sondaggi danno il premier uscente Erdoğan attorno al 43%, dunque sotto lo stratosferico 51% sognato fino a poche settimane fa dagli attivisti dell’Akp. Eppure la certezza del terzo mandato consecutivo resterebbe intonsa perché l’ex sindaco di Istanbul supererebbe di molto il 30% di cui è accreditato il mite Kılıçdaroğlu, vero ossimoro della tradizione kemalista del Partito Repubblicano. Se il leader del Chp, che incarna un nuovo volto del laicismo di Stato, dovrà ancora mostrare l’intero bagaglio di potenzialità, Recep Tayyip Erdoğan nella brillante carriera che lo ha reso politico di levatura mondiale annovera frecce diverse dal kemalismo. Non tutte lusinghiere comunque assolutamente efficaci. Lui ha l’intuito politico del mestierante, il supporto teorico dell’intellettuale-ministro Ahmet Davutoğlu (eminenza grigia dell’Akp) e, secondo alcuni, una buona dose d’opportunismo. In questa chiave i suoi detrattori, non necessariamente laicisti, leggono la svolta islamica moderata degli ultimi anni. Quando l’Unione Europea ha serrato le porte alla Turchia l’Akp ha definitivamente fatto leva su quello che appare lo strumento politico-ideologico migliore per cercare l’egemonia nel Grande Medio Oriente in concorrenza o in coabitazione con l’Iran degli ayatollah e del petrolio. Eppure il realismo del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo è qualcosa che va oltre la propaganda e, sebbene raccolga finora i consensi solo di una parte (un terzo) del popolo turco, appare il disegno politico più consono a interpretare la trasformazione in atto della società anatolica e l’evoluzione dello stesso quadro geopolitico regionale. Ecco qualche esempio che si riflette sulla sfida elettorale.
Molto si parla del ruolo e del voto delle minoranze, curda, alevita, rom presenti nel Paese. Partendo dal sentire di tali minoranze l’attuale governo ha compiuto passi finora insperabili nel considerare l’identità etnica, l’appartenza culturale e religiosa che invece il kemalismo storico non distingueva. Ha evitato anche l’etichettatura che lo stesso Occidente, nel voler denunciare i trascorsi genocidi, dà alle minoranze definendole tali. Chiedete a un curdo o a un alevita se si compiace del concetto di minoranza e riceverete un orgoglioso diniego. I recenti riconoscimenti che l’Esecutivo ha rivolto al ceppo religioso alevita in una nazione dove prevale la componente sunnita indica una maggiore attenzione verso comunità che fanno della conservazione identitaria la principale ragione d’essere. Allargando lo sguardo all’esperienza religiosa e a filosofie di vita complesse il percorso politico dell’Islam rilanciato dall’Akp ritrova quel legame col modello ottomano che poneva in stretta relazione Stato e religione. C’è chi la definisce opportunista, chi coraggiosa, di fatto la scelta di guardare e ascoltare la molteplicità della società turca è un passo di assoluta novità che finora ha pagato elettoralmente e potrà continuare a farlo. Certo all’etnia curda Erdoğan offre integrazioni non concessioni, più volte ha parlato di cittadini curdi della Turchia che non è proprio ciò che i politici del Bdp agognano. Ma quella che è stata definita “un’inclusione passiva” che aggira le richieste di emancipazione del fronte curdo è comunque una posizione che spariglia gli avversari. Sia il Partito curdo cui un politico turco porge per la prima volta la mano, sia i repubblicani che dopo aver abbandonato la neanche tanto lontana pratica dei pogrom propongono non molto più che retorica patriottica. Uno come Ochalan, che non crede né a Erdoğan né a Kılıçdaroğlu, ha fatto sapere dal carcere di Imrali che se l’establishment non affronterà seriamente la questione dell’autonomia curda la Turchia sarà investita da un ampio fronte di rivolte. Una minaccia che pone problemi ma unifica i turchi perché contro il terrorismo islamisti e laicisti fanno pesare la comune repressione.
Sul fronte femminile permettere alle universitarie di frequentare le lezioni velate, nonostante nelle aule spicchi l’immagine del padre della patria che tanto aveva fatto per deottomanizzare il Paese, può sembrare una contraddizione. Tante giovani urbanizzate ci vedono un modo per conciliare e far convivere mondi, non certo lo spettro del fondamentalismo. Non la pensano così le cittadine di mezza età e i laici nazionalisti più tradizionali come il Mhp – di cui si prevede che raggiungano la quota del 10% necessaria per l’ingresso in Parlamento ma non oltre – che temono l’islamizzazione forzata a colpi di divieti crescenti posti ai costumi d’ogni genere, dal sesso all’alcool. Desterebbero maggiori preoccupazioni altri vizi che la politica e ogni versante della società, laico e religioso, manifestano nei confronti della donna. Bassissima, come certo Occidente di cui noi facciamo parte, la percentuale femminile investita di cariche politiche: in Parlamento ci sono 48 deputate su 541 presenze, mentre i sindaci donna sono solo 27 su quasi 3000 (lo 0,9%). Il 12 giugno l’Akp non ha stabilito nessuna quota rosa e propone il 14% di candidate, il Chp ha riservato alle donne il 25% dei posti presentandone 109, l’Mhp non ha stabilito quote e lancia 56 candidate, solo il partito filo curdo Bdp ha riservato al femminile il 40% dei posti nelle liste e ne presenta 13. Ma se si tratta il tema dei servizi alla famiglia come gli asili nido, cui i datori di lavoro dovrebbero contribuire per una quota di lavoratrici pari a 100, si scopre che tante aziende si fermano all’assunzione di 99 donne pur di evitare a provvedere alla struttura per i figli delle dipendenti. Per non parlare della violenza sulle donne e della piaga del delitto d’onore ancora diffusissime nella famiglia media e corroborate non solo dalla fede islamica, ma da uno schema patriarcale che mantiene bloccato ogni sud del mondo.
L’energia dell’Islam e quella del petrolio
Nella battaglia dell’urna, che vede il kemalismo umano di Kılıçdaroğlu provare a insidiare la leadership nazionale all’Islam moderato di Erdoğan, un tema al quale ogni turco presta attenzione è il futuro legato al binomio energia-economia. Intrigante è comprendere quanto i programmi dei due schieramenti si differenzino realmente e quanto siano costretti a seguire vie comuni attorno al fabbisogno di gas e idrocarburi ampiamente accresciuto dal boom produttivo. L’attuale Turchia industriale e artigiana dal Pil roboante (l’8,9% di crescita nel 2010) importa il 93% del petrolio e il 97% del gas che consuma. Dagli anni Ottanta a tutti i Novanta, quando ha iniziato a uscire dall’arretratezza e dall’autarchia, gli approvvigionamenti predisposti dall’allora kemalismo di governo seguivano rispettivamente la via araba e quella sovietica. Al di là del sogno nucleare, che è rimbalzato anche sulle rive del Bosforo ma che dopo Fukushima è diventato un incubo da accantonare, il Paese cerca l’energia seguendo il piano elaborato da tempo dall’establishment politico. Piano che vuole avvantaggiarsi della posizione geografica della penisola anatolica posta al centro di un’ampia area di produzione. L’idea dell’hub energetico verrebbe agognata da qualunque premier, certamente è una delle carte che Erdoğan ha giocato a suo favore sin dal primo mandato nonostante quest’obiettivo sia sottomesso all’uso del condizionale, sinonimo delle incertezze della geopolitica. Farsi pagare per l’attraversamento degli oleodotti è un’idea per niente nuova ma sempre redditizia. Col progetto Nabucco, che dal 2002 punta a rifornire l’Europa di gas iraniano e georgiano, tutto sarebbe perfetto. Ma c’è chi ci si è messo di traverso e non è un ingombro da poco.
Un’attenuazione alla centralità dell’hub turco viene da uno dei poteri forti dell’economia russa e dei colossi energetici planetari, la chiacchieratissima Gazprom. L’azienda vezzeggiata e protetta da Putin, non tanto per l’immagine del made in Moscow quanto per i personali interessi del presidente-premier, è stata ampiamente favorita dai rapporti che egli stesso ha creato con alcuni governanti europei, primo fra tutti Silvio Berlusconi. Così a fare concorrenza a Nabucco, in cui Eni è coinvolta, è comparso da quattro anni il progetto South Stream che grazie a Gazprom diventerà la seconda fornitura di gas russo all’Unione Europea. Il governo Erdoğan ha cercato di galleggiare fra i due programmi e nel 2009 ha firmato con Russia e Italia l’accordo per l’utilizzo dei fondali del Mar Nero di giurisdizione turca dove la pipeline dovrà passare, ma è stata più una forzatura che una scelta. Con la diffusione tramite Nabucco del gas iraniano e georgiano la Turchia, oltre a emanciparsi direttamente dai diktat russi, ne ridimensiona lo strapotere fra gli Stati Ue e stabilisce con l’Iran un rapporto che si sposta dal fronte economico a quello dell’egemonia strategica sul Grande Medio Oriente. “Nessun problema coi vicini“ è il motto che il ministro degli esteri Davutoğlu ha mutuato da tattiche millenarie e che usa nella guida comune con Erdoğan. Il conseguente confronto con l’Islam politico degli ayatollah prevede abbracci e sfide aperte, ma sicuramente nessun confronto muscolare. La fede maggioritaria delle due nazioni, sunnita e sciita non importa, ha intessuto uno stretto rapporto col sistema produttivo e mercantile. O viceversa. Per mettere in sintonia credo e capitale c’è chi ricorda come Maometto fosse anche un mercante.
Si dice che la forza politica dell’Akp sia nelle campagne anatoliche. E’ vero. Ma se la cosmopolita e fascinosa Istanbul, dove i seguaci del laicismo kemalista non demordono, vede allargarsi sempre più la presenza fisica dell’islamismo esibito, e non solo dalle donne velate, altri serbatoi di consenso sono nel sud-ovest o nella Cappadocia profonda e ovunque s’è radicata la borghesia dei piccoli e medi imprenditori del cosiddetto ‘calvinismo islamico’. I padroncini che per le proprie maestranze sostituiscono la pausa per la sigaretta con quella per la preghiera. Producono di tutto, dai mobili al tessile, anche se con loro il governo deve fare i conti per due peccati mortali: l’infortunistica e l’evasione fiscale. La prima ha percentuali inferiori alle nostre (tre morti al giorno contro il ‘trevirgolaottantasette’ italiano) anche se spesso i dati sono falsati dall’occupazione in nero. Per dar fede al programma di giustizia (adalet) insito nel nome dell’Akp il premier ha perorato alcune leggi e nel 2009 il ministero della salute ha vietato, ad esempio, la pratica della sabbiatura per sbiancare i jeans che faceva ammalare di silicosi gli addetti (5000 i casi accertati). Ma nel distretto industriale di Kayseri, dove ora si creano manufatti per Rifle e Levis e un tempo si costruivano aerei e carri armati, la mortalità da lavoro continua a essere drammaticamente elevata. Gli esperti d’infortunistica accusano la flessibilità, che secondo il dogma della globalizzazione chiede all’operaio di obbedire senza fare domande, e la frammentazione della filiera produttiva che incentiva i subappalti. Chi sta nei cantieri navali a Tuzla o Trebisonda queste storie le conosce bene. Dal canto suo lo Stato non può esimersi dalla responsabilità di controllore e chi vuol governare deve misurarsi con una moderna legislazione e soprattutto con la sua applicazione, visto che in certi casi le normative esistono.
Però su questo fronte le leggi di mercato rischiano di diventare l’unico verbo di certa imprenditoria che orienta la politica. I lavoratori musulmani non avranno sorriso alla notizia delle recenti norme varate per loro dal Parlamento in materia di salute. Esse prevedono la privatizzazione degli istituti preposti ai controlli, un successo per i padroncini islamici visto che nelle loro aziende si verifica il 50% degli incidenti. Finora l’astuto Erdoğan ha giocato a nascondino, da tempo il suo partito afferma di voler predisporre una legge ad hoc per la tutela della salute nei luoghi di lavoro. Ma sostiene di volerlo fare democraticamente e con ampia condivisione insieme alle Confederazioni del lavoro e agli Ordini di categoria di medici, ingegneri, architetti. Finora non è accaduto nulla e di lavoro anche in Turchia si continua a morire senza nessuna benedizione di Allah.
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