dal sito “il Dialogo”
Scusateci fratelli e sorelle musulmani
Giovanni Sarubbi
Lo abbiamo già visto, lo abbiamo già letto, e lo abbiamo rifiutato. Questa è in estrema sintesi l’idea che ci siamo fatti leggendo oggi tutti i quotidiani nazionali del nostro paese in merito a ciò che è successo ieri in Norvegia, con una strage in un campeggio dei giovani laburisti norvegesi ed un attentato ad edifici governativi che hanno provocato, al momento in cui scriviamo queste note, 91 morti.
Il già visto sono le immagini terribili dei morti e dei feriti, delle distruzioni immani di vite umane, della natura e di ciò che l’umanità ha realizzato. Abbiamo già visto persone in fuga dalla morte e le tragiche conseguenze dell’esplodere di bombe o dell’uso delle armi che ci si ostina a chiamare “leggere”, quasi si trattasse di innocui gingilli da gioco per ragazzi.
Il già letto riguarda invece il modo univoco con il quale la stampa italiana ha presentato l’attentato affibbiandone la responsabilità alla religione islamica. Lo hanno fatto tutti i quotidiani da “Il Manifesto – quotidiano comunista” all’ultra destro “Libero”, passando per “Il Giornale”, “Il Fatto”, “La Repubblica”, “Il Corriere della sera”, “L’Unità”, “La Stampa” e scusate se ne dimentichiamo qualcuno.
“Sociologi”, “politologi”, “intellettuali” (permetteteci le virgolette giusto per mettere in discussione le loro qualifiche) di vario ordine e grado si sono lanciati in spericolate analisi a senso unico, a cominciare dalla Fiamma Nirenstein su “Il Giornale”, secondo la quale «Ciò che importa è che la guerra dell’islamismo contro la nostra civiltà, se verrà confermata l’ipotesi che nel corso della giornata è diventata sempre più robusta, è feroce e aggressiva», a finire al professor Renzo Guolo, che sull’Unità viene descritto come uno dei più autorevoli studiosi dell’Islam radicale, secondo il quale «Vi sono diversi motivi che fanno della Norvegia un obiettivo agli occhi dei jihadisti» insieme all’Europa che potrebbe «essere tornata nel mirino qaedista per il suo impegno a fianco degli Stati Uniti o in ambito Nato su fronti caldissimi, dall’Afghanistan alla Libia».
Commenti e ipotesi conditi con affermazioni piene di “se” messi li giusto a futura memoria, per poter smentire se stessi nel caso in cui l’ipotesi affermata con enfasi si dimostrasse infondata.
Il tutto prendendo spunto da una fantomatica rivendicazione di un gruppo islamico di cui nessuno sa nulla ma di cui ci vengono invece fornite ampie notizie, probabilmente confezionate da chi ha interesse a diffondere bugie su bugie affinché nessuno capisca come stanno effettivamente le cose. E anche questo fa parte del già visto, già letto e già rifiutato da parte nostra. E’ un gioco semplice: qualcuno fa un attentato con morti feriti e distruzioni; immediatamente giunge alle redazioni dei giornali una rivendicazione di un gruppo islamico sconosciuto ai più ma di cui i giornali forniscono notizie non verificabili; la notizia della rivendicazione finisce su tutti i mass media e gli “intellettuali” di cui sopra ci ricamano su ed il gioco è fatto. L’islam, nel nostro caso, ma lo schema è stato usato anche con altre religioni, viene messo sul banco degli accusati e da quel momento in poi tutto può succedere, visto che in tutto il mondo sono molto attivi e prolifici gruppi, sia politici sia di matrice religiosa, che sono ferocemente anti-islamici. I più scalmanati si sentono autorizzati a dar vita a pestaggi o violenze nei confronti dell’islamico della porta a fianco e la guerra trova nuovo carburante per andare avanti.
Significativo, a tale proposito, la conclusione dell’articolo di Carlo Panella, uno degli “intellettuali” (le virgolette qui sono d’obbligo) anti-islamici di punta del quotidiano Libero. Panella chiude il suo articolo con la frase «La guerra continua», e anche questo fa parte del già visto, già letto e già rifiutato da parte nostra. Gli attentati fanno sempre il gioco dei guerrafondai, dei militaristi di ogni ordine e grado, delle industrie di armamenti che controllano migliaia di miliardi di finanziamenti statali finalizzati alle guerre e che hanno il potere di condizionare uomini politici, mass-media e anche Chiese. E i “sociologi”, “politologi”, “intellettuali” con i loro commenti non fanno altro che rendersi complici della guerra, strumenti nelle mani di chi dalla guerra trae profitto e ricchezza ai danni dei popoli.
Significativi anche le citazioni dei dispacci dell’ambasciatore Usa a Oslo che descrivevano la Norvegia come impreparata al terrorismo in documenti diplomatici diffusi da WikiLeaks non molti mesi fa. E anche questo è un classico, un già visto, già letto e già rifiutato, della politica internazionale degli ultimi decenni: si sceglie il paese più libero, meno militarizzato, meno ossessionato dalla paura del diverso e dello straniero per colpirlo a morte in modo da consentire una escalation della violenza non solo a livello di quel paese ma a livello globale. “Ora i partiti di estrema destra – ha affermato la scrittrice norvegese Holt in una intervista su La Repubblica – avanzeranno soffiando con prepotenza sul sentimento anti-islamico. Il fatto di essere un Paese pacifico e con poca criminalità ci rende un obiettivo facile per il terrorismo”. Ma non vanno trascurati le paure diffuse da chi, come Libero, dice che ora “Rischia anche l’Italia”, perché “Da Mohammed Game a Times Square: per anni i fondamentalisti ci hanno provato. E lo rifaranno”. Verrebbe voglia di far convocare questi “giornalisti” in una procura della Repubblica come “persone informate sui fatti” di cui parlano con tanta sicurezza, diffondendo paura e odio per difendere i loro padroni.
Il già rifiutato, con cui abbiamo iniziato queste riflessioni, riguarda sia la guerra, la violenza, il militarismo e le armi di tutti i tipi, sia soprattutto un giornalismo come quello che abbiamo fin qui descritto. Un giornalismo che, nel suo complesso, dall’estrema destra all’estrema sinistra, ha scritto oggi la pagina più vergognosa della sua storia perché l’islam non c’entra nulla con gli attentati di Oslo.
Si perchè su quasi tutti i siti internet dei quotidiani italiani, infatti, oggi possiamo leggere che l’autore degli attenati di Oslo «è un cristiano fondamentalista» legato all’estrema destra e per di più ferocemente anti-islamico. Esattamente il contrario di quello che oggi sulla carta stampata è stata accreditata come verità.
Rifiutiamo un giornalismo che scrive articoli di cronaca basati sui “se” invece che su fatti certi ed incontrovertibili, impegnandosi nella loro ricerca ove le autorità costituite dovessero negarle. Rifiutiamo un giornalismo che sui “se” costruisce i commenti più spericolati e violenti, veri e propri strumenti di istigazione all’odio razziale e alla violenza. Rifiutiamo un giornalismo che non rispetti il principio della veridicità dei fatti raccontati e che trasforma le perversioni mentali di qualcuno in fatti o in commenti su fatti inesistenti.
Un giornalismo serio avrebbe cercato di capire e verificare innanzitutto la dinamica dei fatti per come essi sono effettivamente avvenuti. Avrebbe cercato di capire se sia vera l’ipotesi dell’autobomba (dalle immagini viste non c’è traccia di un qualche cratere a livello di strada che invece avrebbe dovuto esserci nel caso di autobomba mentre si sono viste immagini di incendi al 5 piano di un edificio); avrebbe cercato di fare l’elenco dei danni, di coloro che materialmente sono stati investiti dall’esplosione, e via di questo passo. Invece abbiamo potuto leggere notizie dozzinali e di nessun valore insieme a violenti requisitorie contro l’islam.
Se il giornalismo italiano avesse un minimo di serietà, dovrebbe chiedere scusa, con titoli cubitali, a tutti i musulmani italiani e del mondo per le pagine vergognose di odio scritte oggi.
Non crediamo che ciò accadrà ed è per noi amaro constatare come l’amore per la verità non faccia parte del bagaglio morale di quanti fanno il mestiere di giornalista per professione.
Ma noi facciamo i giornalisti per passione, forse è questa la differenza ed il motivo della nostra indignazione.
Allora scusateci fratelli e sorelle musulmani, non sarà per sempre così, ne siamo convinti, almeno è la nostra speranza ed è quello per il quale siamo impegnati.
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da “il manifesto”
Bruno Amoroso
Un massacro made in Norvegia
Il dramma norvegese di un attacco terroristico è iniziato alle 15,20 dell’altro ieri con una gigantesca esplosione nel centro di Oslo, accanto all’edificio che ospita gli uffici del primo ministro Jens Stoltenberg, la TV2 e numerose redazioni di giornali. Un’esplosione che ha ridotto una vasta area in zona di guerra, con almeno sette morti e 15 feriti. Dopo poco più di un’ora un giovane di 32 anni, Anders Behring Breivik, norvegese, arriva in uniforme della polizia nell’isola di Utøya, a 40 chilometri da Oslo, dove da giorni 560 ragazzi e ragazze sono raccolti per il campo estivo dei giovani del Partito del lavoro norvegese.
L’ipotesi delle prime ore, quella di un «attentato islamico», si è rapidamente sgretolata quando è stata resa nota l’identità del terrorista, Anders Behring Breivik: bianco, cristiano e anticomunista. Gli esperti hanno messo in relazione l’attentato, per ispirazione e mezzi tecnici adottati, con quello di Oklaoma negli Stati Uniti del 1995. L’attacco richiama alla memoria anche il terrorismo di stato sperimentato in Europa in passato. Terroristi lucidi, che non si fanno saltare in aria come gli islamisti, ma pianificano e osservano la morte delle loro vittime.
Anders Behring Breivik è stato membro del Partito del Progresso norvegese, presidente e membro della direzione della sezione di Oslo Vest per due anni. La sua adesione al Partito del Progresso risale al 1999 ed è stato attivo nel movimento giovanile di questa organizzazione dal 1997 al 2007. I rappresentanti del partito del Progresso norvegese (Behring Breivik) e danese (Pia Kjærsgåd) hanno espresso la loro ferma condanna per l’attentato.
L’obiettivo dell’attacco è il governo norvegese, l’unico dei tre paesi dove il Partito del Lavoro, contrariamente ai partiti socialdemocratici svedese e danese, ha conservato il potere politico. Tensione politica e rischio di coinvolgimento in atti terroristici hanno suscitato preoccupazioni nei paesi scandinavi nel corso degli ultimi anni, sommandosi alle conseguenze sociali prodotte dalla crisi europea e alla crescente partecipazione dei paesi scandinavi alle operazioni di guerra.
Rispetto ai suoi vicini, la Norvegia è il paese che presenta politiche economiche e sociali di maggiore equilibrio, politiche migratorie di maggiore apertura, e maggiori riserve verso le avventure militari. L’ipotesi islamica non ha perciò fondamento mentre sono possibili tentativi di destabilizzazione politica verso un paese che in Europa è «un’isola felice». D’altronde, la memoria del «caso Palme», che ebbe l’effetto di eliminare la socialdemocrazia dal governo della Svezia, non è del tutto scomparsa. Per persone di una destra neoliberista e xenofoba, come nel caso dell’attentatore, le politiche del governo norvegese appaiono un tradimento della crociata dell’Occidente.
E la polizia norvegese sta effettuando controlli per verificare se si tratti di un gesto isolato o se vi sia la presenza di altri complici come varie testimonianze e il carattere complesso dell’attentato sembrano suggerire.
I servizi di sicurezza norvegesi (Pst) segnalano che i movimenti di destra hanno di recente reagito alla loro debolezza interna stabilendo contatti con la criminalità organizzata acquisendo così anche più facile accesso alle armi. Contatti sono stati rilevati con ambienti estremisti di destra russi, non estranei a varie forme di assassinio politico. Un fenomeno questo riscontrato anche in Danimarca, secondo i servizi di sicurezza danesi (Pet), e che è tra le ragioni dell’aumento della violenza e della criminalità organizzata nel paese, della diffusione delle armi tra i giovani e della recente decisione di introdurre maggiori controlli alle frontiere.
Delirio islamofobico sui giornali italiani Ma c’è poco da ridere
Colleghi, un po’ di prudenza. Se non altro per evitare le brutte figure del giorno dopo. Si capisce che l’occasione era troppo ghiotta. Che «la pista islamista» – citata, per carità, anche dal manifesto, fosse all’inizio la più «evocata». Che gli orari di chiusura sono tiranni. Però, via, qualche dubbio buttato lì, qualche certezza meno granitica, qualche furbizia.
Figurarsi se noi del manifesto non capiamo la forza e l’importanza dell’ideologia. A volte però, quando l’ideologia eccede, acceca. Fino al ridicolo. Fior da fiore.
Strepitoso il Giornale con un editoriale flamboyant di Fiamma Nierenstein contro tutto ciò che nell’universo mondo puzza di islam: «… ciò che importa è che la guerra dell’islamismo contro la nostra civiltà, se verrà confermata l’ipotesi che nel corso della giornata è diventata sempre più robusta, è feroce e aggressiva», mentre «noi»… «la strada che seguiamo per combattere il terrorismo (islamico, ça va sans dire) al tempo di Obama è diventata ideologicamente incerta» (con Bush, cara la mia signora, era tutto diverso). La musica continua all’interno con l’affiatato duo Biloslavo-Micalessin. «Un cellula di al Qaida annidata nel nord Europa, con appoggio nella galassia della guerra santa in Iraq e Afghanistan», attacca Biloslavo, poi entra Micalessin, che offre ben «quattro ragioni che hanno spinto inizialmente a ipotizzare l’esistenza di una regia al qaidista… anche se in serata prende quota la pista di politica interna». Bravo, infine un po’ di circospezione. No. La pista interna non è quella dei nazi norvegesi biondi e dagli occhi azzurri ma quella del rapporto della intelligence di Oslo che «puntava il dito sui cittadini di origine islamica con passaporto norvegese in tasca…».
Favoloso Libero. «Con l’Islam il buonismo non paga». E dentro: «Terrore islamico a Oslo», poi: «Fine dell’illusione: è ancora l’11/9. Rischia anche l’Italia», dove l’ottimo Carlo Panella (ai tempi della rivoluzione iraniana, che copriva per Lotta continua, nel giro era soprannominato «l’imam Panella» per il suo zelo khomeinista) scrive stentoreo: «Un solo commento: alla fine, ai terroristi islamici è riuscito il colpo».
La sa lunga il Foglio: «… secondo fonti d’intelligence, l’attacco sarebbe stato organizzato a Malmö, in Svezia, dove c’è una cellula di al Qaida composta per lo più da yemeniti».
Più prudente ma non abbastanza il Messaggero. Scrive lo storico Ennio di Nolfo, «… tutto questo spinge a indicare nel terrorismo di matrice islamica la prima fonte dell’azione che ha provocato tante vittime».
L’Unità si affida a una «fonte italiana» che accompagna Umberto De Giovannangeli «in questo viaggio nel jihadismo homegrown», fatto in casa e fai-da-te ma sempre indefettibilmente islamico. Tanto che nella pagina seguente lo stesso U.D.G. intervista il professor Renzo Guolo, «esperto di geopolitica e movimenti islamici», che gli spiega come e perché l’Europa «è nel mirino per il ruolo in Libia e in Afghanistan».
Bisogna dire che i giornali più grossi – Corriere, Repubblica, Stampa, Sole -, in questo caso, hanno preso meno cantonate islamofobiche. Forse hanno commentatori più acuti, forse hanno avuto più tempo per le ribattute notturne. Però almeno non fanno ridere. Per una volta, chapeau.
Behring Breivik iscritto a un sito di nazisti svedesi
La verità che non vediamo
Antonio Scurati
I giornali si chiamano così perché durano solo un giorno. Leggendoli ieri, abbiamo pensato che l’Occidente fosse di nuovo sotto attacco da parte del terrorismo islamico mediorientale, suo acerrimo nemico esterno dell’ultimo decennio. Leggendoli oggi scopriamo, invece, che a colpire l’Occidente, devastando il centro di Oslo, è stato l’Occidente stesso, maleficamente incarnatosi in Anders Behring Breivik, giovane, alto, biondo, appassionato di caccia, videogiochi di guerra e di John Stuart Mill, single, cristiano fondamentalista e conservatore per sua stessa definizione, fanatico, xenofobo e stragista per tragica deduzione. Ieri, dunque, a colpirci pareva esser stato l’islamismo, oggi, soltanto ventiquattro ore dopo, appare certo sia stato invece l’antislamismo. Ieri l’arabo musulmano basso, olivastro e segaligno, oggi il bianco caucasico massiccio e imponente. Ieri il nemico esterno, oggi quello interno. E domani? Chi ci colpirà domani?
La risposta dipende molto dalle forme che vanno assumendo le nostre paure.
Come si è potuti passare, nel volgere di una notte e di un mattino, dalla fuorviante quasi certezza riguardo alla matrice qaedista – «Era naturale che sarebbero arrivati fino a qui», dichiarava ieri, riferendosi a fantomatici terroristi islamici, Stale Ulriksen, capo di un’agenzia governativa per la sicurezza – alla agghiacciante smentita?
Che cosa significa il fatto che, da molto tempo a questa parte, ogni volta che udiamo un’esplosione ci voltiamo istintivamente verso Oriente come il fedele che si rivolga alla Mecca? Quale avvenire riserva il destino a un popolo che cerchi sempre e ossessivamente l’origine del male oltre i propri confini? Dove ha condotto e dove condurrà l’Occidente la paranoia mediorientale?
Saranno oramai dieci anni a settembre che viviamo sotto l’oppressione di una muta da panico. Nelle prime pagine del romanzo di Marcel Beyer, «Le forme originarie della paura», si suggerisce un paragone etologico per la paura umana: spesso i cardellini, quando odono uno sparo, anche se non colpiti lasciano cadere cospicui ciuffi di penne imitando gli effetti della ferita. Qualunque sia la provenienza, la traiettoria e la destinazione del proiettile, la loro risposta è sempre la stessa: il trauma, la ferita. Talora, sebbene incolumi, non sopravvivono alla muta. Ecco, noi negli ultimi dieci anni abbiamo vissuto proprio così: cardellini scossi da ripetute mute da panico. Ogni volta che è risuonato uno sparo nel cielo, la psiche collettiva ha risposto con il trauma da attacco terroristico mediorientale. Il nemico esterno, straniero, estraneo, ci stava dando la caccia.
Non abbiamo sempre reagito così in passato. Tutti gli Anni 50 e 60 sono stati dominati da questa stessa forma di paura esternalizzante. Il mondo suddiviso in blocchi induceva a proiettare ogni male sul nemico comunista esterno, applicando il paradigma proiezione-esclusione (tutto il male viene da fuori, nessuno deve venire da fuori) e paventando l’invasione (da qui anche la fortuna della fantascienza). Ma già a cominciare dai ’70 quel paradigma è stato scalzato da quello del «nemico in casa».
I feroci comunisti oramai crescevano nelle nostre dimore, erano i nostri figli ideologicamente traviati, i terroristi nostrani. Di questo passo la paura si «internalizzava». Tramontato il terrorista autoctono, a subentrargli nell’immaginario del terrore furono altri nemici interni: i serial killer psicopatici alienati dalla vita metropolitana iperconsumista (oppure ancora i nostri figli adolescenti alienati da quella stessa vita ma in cerca della nostra eredità). La vergognosa menzogna con cui la destra spagnola cercò di strumentalizzare le stragi di Atocha attribuendole all’Eta segnò l’ultima occasione in cui si cercò di riesumare il paradigma introiezione-eliminazione a discapito di quello proiezione-esclusione. Non funzionò. La mossa fallì anche perché cadeva nel pieno di un decennio tutto consacrato al «nemico esterno».
La reazione psico-mediatica all’attentato di Oslo ci dice che, purtroppo, non siamo ancora usciti da quel decennio. E allora torna l’interrogativo di prima: che effetti sta producendo sulla nostra comunità il perdurare di questa forma di paura? L’effetto principale va ricercato nella rimozione di una verità inconfessabile che il paradigma proiezione-esclusione porta sempre con sé. A volte questa rimozione si spinge fino alla denegazione: la verità è lì, davanti agli occhi di tutti, eppure ci si ostina a non vederla. In questo caso, la verità denegata è che buona parte del sentimento e del pensiero reazionario della destra europea – soprattutto quella nordica ma non solo – è fortemente tentato da una deriva violenta, xenofoba e razzista. E’ questo il nemico interno occultato e alimentato dal fantasma del nemico esterno. Diciamolo chiaramente: la guerra tra le razze, che afflisse la parte centrale della storia europea del XX secolo, si affaccia di nuovo all’orizzonte del XXI. Lo spettro del neonazismo si aggira ancora per l’Europa.
Anders Behring Breivik, l’estremista cristiano norvegese arrestato per la duplice strage perpetrata venerdi a Oslo in cui almeno 92 persone sono rimaste uccise, davanti alla polizia si è assunto la responsabilità del suo gesto ed ha spiegato che il suo «è stato un atto atroce ma necessario».
Lo ha riferito ieri sera alla Tv norvegese Geir Lippestad, il legale che lo rappresenta, aggiungendo che il suo assistito lunedi comparirà davanti a un magistrato che dovrà decidere se rilasciarlo o se trattenerlo in carcere. Davanti al giudice, ha detto l’avvocato, «spiegherà tutto». Il legale ha aggiunto anche che, secondo lui, «la strage era stata pianificata» da tempo. Le dichiarazioni del legale, chiudono in modo drammatico una giornata che la pacifica e progressista Norvegia, all’indomani dello sconvolgente attentato, aveva iniziato in uno stato di vero e proprio shock.
Ieri mattina infatti il paese ha scoperto con angoscia che i morti non erano stati 17, come era sembrato in un primo momento, ma molti di più. E che a provocare la strage non era stato il terrorismo islamico, come era stato ipotizzato, ma il fanatismo di un connazionale, il 32enne Anders Behring Breivik, bianco, biondo, cristiano fondamentalista con simpatie di estrema destra, iscritto a una loggia massonica e con avversione per l’islam e la società multiculturale.
Due i massacri, che hanno suscitato condanna e cordoglio in tutto il mondo, da Barack Obama a Angela Merkel, dalla Russia ai palestinesi di Fatah, al Papa. Il primo nel centro di Oslo, dove un’autobomba è esplosa nel primo pomeriggio di venerdi vicino alla sede del governo e alla redazione del tabloid Vg, provocando la morte di almeno 7 persone; il secondo, efferato, compiuto circa due ore più tardi, sull’isoletta di Utoya, dove si teneva un campo estivo annuale dei giovani del partito laburista e dove un uomo, in uniforme da poliziotto, armato di una pistola, di un fucile a canne mozze e di un’arma automatica, ha ucciso almeno 85 persone, per lo più adolescenti, imperversando per quasi un’ora e mezza indisturbato prima di arrendersi alla polizia.
Fra le molte persone che si sono lanciate in acqua per salvarsi ci sono almeno 4 o 5 dispersi, che vengono cercati anche con l’ausilio d’un piccolo sommergibile. Se saranno trovati morti, potrebbe salire a 97-98 il bilancio delle vittime, non ancora definitivo per le gravissime condizioni di almeno una ventina fra i feriti. La polizia ha detto di non poter ancora escludere che l’assassino abbia avuto dei complici ma di non avere neppure elementi di conferma. Ha però fatto sapere che Breivik, ha confessato la strage di Utoya, l’isoletta su un lago a 40 km da Oslo, dove è stato arrestato «senza opporre resistenza» dopo il massacro. Non ha ancora accertato ufficialmente la responsabilità dell’uomo nella strage di Oslo, anche se quanto riferito dal suo legale non lascia spazio a ulteriori dubbi.
Gli indizi contro Breivik (ribattezzato con le iniziali ABB dai media) sono comunque tanti: l’esplosivo trovato sull’isola; la bomba fabbricata nella fattoria in cui si era trasferito e dove aveva «tonnellate» di concime chimico utilizzabile anche per confezionare ordigni esplosivi; testimoni che l’hanno visto nella zona dell’esplosione a Oslo. I sopravvissuti, radunati in un albergo nel villaggio di Sundvollen, vicino all’isoletta, hanno raccontato l’inferno, l’assassino che si muoveva con calma sparando sulla folla di giovani, colpendo alla testa i feriti o coloro che si fingevano morti, mitragliando chi si lanciava in acqua per fuggire a nuoto.
«Ho sentito urla. Ho visto gente che chiedeva pietà, ho sentito tanti spari, anch’io ero sicuro che sarei morto», racconta Kursetgjerde, 18 anni, che si è nascosto fra le piante, è fuggito a nuoto ed è stato soccorso da una barca. L’ideologia di ABB, che è stato anche iscritto al partito del progresso (conservatore) negli anni passati, è esposta su vari forum, fra cui il norvegese Document.no, ma anche su uno neonazista svedese, Nordisk. Si descrive come «single, cristiano e conservatore», che odia Islam, multiculturalismo, marxismo, accomunandoli al nazismo come ideologie fondate sull’ odio. Accusa la laburista Gro Harlem Brundlandt, primo ministro per tre mandati tra il 1981 e il 1996, di aver «assassinato il Paese».
Il giovane risulta anche membro della loggia massonica norvegese di San Giovanni Olaus dei Tre Pilastri, che ora ha preso le distanze da lui. Iscritto a Facebook e a Twitter, ha riassunto la sua filosofia in una citazione del filosofo inglese John Stuart Mill: «Una persona con una fede ha la forza di 100.000 che coltivano solo i loro interessi». È proprietario della Breivik Geofarm, che produceva coltivazioni biologiche a 150 chilometri da Oslo, dove teneva i fertilizzanti. La polizia ha anche perquisito il suo appartamento di Oslo e ora sta setacciando il suo computer per accertare eventuali collegamenti con una non meglio precisata ‘rete del terrore’.
Il Re di Norvegia, Harald, la regina Sonia e gran parte della famiglia reale, insieme al capo al premier laburista Jens Stoltenberg e diversi ministri, hanno fatto visita al luogo della strage e ai sopravvissuti. E il premier, che ha definito gli attacchi una «tragedia nazionale» che non farà piombare nel terrore la «società aperta» che è il «marchio di fabbrica» della Norvegia, ha fatto sapere che il livello di allerta terrorismo non è stato elevato.
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Un fanatico dietro due stragi
Eliana Di Caro
Il palcoscenico di internet
Anders Behring Breivik, 32 anni (nella foto in basso), si definisce «single, cristiano e conservatore», con idee di estrema destra, anti-islamico. Ha confessato di essere l’autore della strage sull’isola di Utoya. Membro di una loggia massonica norvegese, su Facebook si descrive interessato alla caccia e a videogiochi come “World of Warcraft” e “Modern Warfare 2”. È proprietario della Breivik Geofarm, nel cuore agricolo della Norvegia. Su Twitter cita John Stuart Mill: «Una persona con una fede ha la forza di 100mila che hanno solo interessi». Breivik è stato iscritto al Progress Party, conservatore, dal 2004 al 2006: «Non ne fa più parte – ha precisato Siv Jensen, leader del secondo partito norvegese – e mi rende molto triste il fatto che lo sia stato in passato»
«Brundtland assassina»
Breivik amava attaccare il multiculturalismo e l’Islam sul sito www.document.no, criticando le politiche europee che cercano di favorire le culture di diversi gruppi etnici. Un anno fa definì «assassina del Paese» Gro Harlem Brundtland, premier laburista in Norvegia per tre mandati, tra il 1981 e il 1996 (nella foto), attiva a livello internazionale per promuovere lo sviluppo sostenibile, oggi rappresentante speciale per l’Onu sui cambiamenti climatici. Potrebbe non essere una coincidenza il fatto che la leader laburista fosse intervenuta al meeting dei giovani proprio venerdì pomeriggio. Al momento della strage aveva già lasciato l’isola
L’estrema destra in Europa
Razzisti, islamofobi, spesso con venature anti-global, ostili agli organismi comunitari: sono le caratteristiche dei movimenti di estrema destra che in Europa fanno leva sulle paure e le inquietudini dei cittadini, dagli immigrati alla globalizzazione. Le formazioni neo-naziste raccolgono la tradizione dell’estrema destra anti-semita e sono concentrate per lo più nell’Est europeo; altri gruppi xenofobi sono invece nati per combattere la «minaccia» islamica, come il partito olandese della Libertà di Geert Wilders, che peraltro ieri ha manifestato il proprio «disprezzo» per Breivik
I neonazi d’Europa
traslocano su Internet
Dai razzisti ungheresi ai populisti francesi, è una rete unita
ALESSANDRO ALVIANI
Le motivazioni della strage di venerdì in Norvegia restano tutte da verificare. Eppure, se dovesse trovare conferma l’immagine del trentaduenne Anders Behring Breivik che la Rete sta lentamente restituendo, le autorità di sicurezza norvegesi potrebbero aver avuto drammaticamente ragione. A febbraio, nel loro ultimo rapporto, avevano lanciato l’allarme su un’«accresciuta insicurezza» nel Paese e avevano pronosticato per quest’anno un aumento delle attività interne dell’estrema destra.
Dal 2009 Anders Behring Breivik era membro di un forum neonazista svedese, chiamato Nordisk, che si autodefinisce un portale su «identità, cultura e tradizioni nordiche» e conta circa 22.000 iscritti. La scena neonazista norvegese è piuttosto debole, quella svedese «è molto più forte», spiega il professor Hajo Funke, esperto di estremismo di destra presso la Freie Universität di Berlino. Eppure, ricorda, in Norvegia si assiste alla diffusione del populismo di destra incarnato dal Partito del Progresso, che ha superato il 20% dei consensi. Non che tale partito sia corresponsabile dell’attentato, precisa, eppure la sua propaganda fornisce un «terreno fertile» per la diffusione di idee e risentimenti anti-islam e anti-immigrati. Sembra che lo stesso Breivik avesse preso la tessera, salvo poi abbandonare la formazione perché la considerava troppo moderata.
Sebbene deboli dal punto di vista organizzativo e numerico, «gli estremisti di destra norvegesi sono in contatto tanto con quelli svedesi, tanto con altri gruppi di estrema destra in Europa», si legge nel rapporto diffuso a febbraio dalle autorità norvegesi. La scena dell’estrema destra europea è molto frastagliata e i passaggi sono a volte fluidi. Ci sono i populisti alla Le Pen, i neonazisti ungheresi, la Npd tedesca, «il più radicale partito di estrema destra» nell’Europa occidentale, come la definisce il professor Funke. Non esiste un coordinamento centralizzato, una sorta di «regia» a livello europeo, spiega Funke, eppure i contatti personali a livello sovranazionale sono all’ordine del giorno. E si sviluppano attraverso canali multipli, non da ultimo la musica. I concerti di «white power music» rappresentano una piattaforma di incontro e scambio per gli estremisti e «attirano centinaia di militanti da tutta Europa», scrive l’Europol nel suo ultimo rapporto. Le performance si svolgono in località segrete e vengono annunciate soltanto su Internet. Non a caso: il Web – soprattutto il Web 2.0 – si sta trasformando nel megafono privilegiato dei neonazisti.
«Gli estremisti di destra sono sempre più attivi nei social network, per raggiungere le generazioni più giovani», nota l’Europol. Ciò rappresenta «una nuova dimensione» della minaccia che l’estremismo di destra può costituire in futuro per l’Europa. Secondo uno studio presentato giovedì, ad esempio, in Germania nel 2010 sono stati caricati su Facebook, Youtube e altri social network 6000 post dal contenuto di estrema destra, il triplo rispetto all’anno prima. Il potenziamento delle attività sul Web è però soltanto un aspetto che contraddistingue tali ambienti. I neonazisti puntano a metter sempre più piede nella società, provando a sfruttare un insidioso mix fatto di paure xenofobe, reazioni anti-islam e preoccupazioni economiche. E sono pronti a cambiar volto, pur di diventare più «presentabili». È quanto avviene in Germania, un Paese che conta 219 organizzazioni di estrema destra con un totale di 25.000 membri e in cui si osservano due fenomeni concentrici. Il primo: negli ambienti neonazisti cresce la presenza delle donne, usate come esche per far passare richieste che, se fossero strillate da una testa rasata, verrebbero subito respinte. Il secondo: una trasformazione nel modo di presentarsi. In passato lo skinhead era immediatamente riconoscibile dalla testa rasata e dagli stivali. Oggi, invece, lo stile classico degli skinhead «è ormai obsoleto», scrivono i servizi segreti tedeschi nel loro ultimo rapporto annuale. In pubblico i neonazisti preferiscono «capi di abbigliamento o marche orientate ai trend comuni della moda giovanile e che segnalano in modo meno evidente l’appartenenza alla scena» dell’estrema destra. A prendere sempre più piede, specie tra i più giovani, sono i cosiddetti «Autonomi nazionalisti», che riprendono abbigliamento e forme di azione dai gruppi di estrema sinistra.
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