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Egitto, la rivoluzione svolta male?

 

«I giovani della rivoluzione devono mantenersi uniti, l’interesse della nazione egiziana viene prima di ogni altra cosa». Provava a lanciare proclami rassicuranti ieri lo sceicco Yusef Qaradawi, noto predicatore televisivo ed uno degli esponenti islamici più noti ed influenti del mondo arabo, mentre pronunciava il suo sermone. Ma al Cairo, Alessandria e in altre città del paese il «Venerdì dell’unità» ha mostrato in tutta la sua ampiezza la frattura esistente tra le forze di vario orientamento che all’inizio dell’anno portarono alla caduta dell’ex raìs Hosni Mubarak. In particolare tra il fronte laico-progressista e i movimenti islamici. Il 29 luglio verrà ricordato come il giorno della prova di forza delle formazioni islamiste, Fratelli musulmani e salafiti coalizzati, per impedire che la «rivoluzione del 25 gennaio» possa compiere altri passi verso la trasformazione dell’Egitto in uno Stato più moderno, con diritti garantiti, equilibrio fra poteri, leggi fondate sull’uguaglianza tra cittadini.
Doveva essere il venerdì dell’alleanza tra i «rivoluzionari», faticosamente ricostruita a tavolino nei giorni scorsi, e del sostegno al presidio permanente sorto l’8 luglio in piazza Tahrir per spingere il Consiglio supremo delle Forze Armate (Csfa) a realizzare gli obiettivi dell’insurrezione popolare di gennaio-febbraio e a processare i personaggi più in vista del regime di Mubarak, a cominciare (il prossimo 3 agosto) proprio dall’ex rais. E’ stata invece la manifestazione più ampia mai organizzata dai religiosi in Egitto dal colpo di stato del 1952 che portò alla fine della monarchia e all’instaurazione della repubblica.
Gli islamisti sono scesi in strada a centinaia di migliaia, da nord a sud, con due obiettivi: sostenere i militari al poter e affermare che la religione sarà l’elemento caratterizzante del prossimo Egitto. Parlavano chiaro gli slogan e gli striscioni in piazza Tahrir al Cairo, ad Alessandria, nella provincia di al Fayoum, a Qena, nell’Alto Egitto. Nella capitale lunghi cortei scandivano «Non vogliamo uno Stato liberale», «Il popolo vuole la shariaa», la legge islamica, «Sono musulmano, nè occidentale nè orientale».
Più in piazza Tahrir aumentava la presenza degli islamici, più si restringeva lo spazio per le forze laiche e di sinistra, con il sit-in di protesta contro i militari chiuso in un angolo. L’avvocato salafita Mohamed Nasser è stato chiaro rispondendo ai giornalisti. «Siamo qui per difendere l’identità del nostro paese e proteggere la volontà del popolo espressa nel referendum costituzionale (di marzo, ndr)… i laici sanno benissimo che non c’è posto per loro perciò cercano di aggirare la volontà del popolo tentando di imporre una nuova costituzione».
Per gli islamisti non servono ulteriori spinte in avanti, va bene così, come stanno procedendo i generali alla guida del paese. L’importante per i Fratelli musulmani e le altre forze islamiche coalizzate è conservare la costituzione attuale e andare quanto prima alle elezioni dove i partiti di ispirazione religiosa, seppur vietati dalle legge, conquisteranno con ogni probabilità almeno il 50% dei seggi dell’Assemblea del popolo. Idem ad Alessandria, con i manifestanti riuniti nella piazza della moschea di Ibrahim per «sottolineare l’identità islamica del paese».
Non sorprende perciò che una trentina di partiti laici e della sinistra, oltre a varie organizzazioni di giovani, ad un certo punto abbiano deciso di lasciare piazza Tahrir denunciando che gli islamisti non hanno rispettato gli accordi affinché la manifestazione fosse unitaria, evitando slogan religiosi. In serata è riesplosa anche la violenza settaria. Due cristiani copti uccisi e altri due feriti in una sparatoria ad Abu Gargas nel governatorato di Minya.

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