Nelle settimane precedenti l’avvìo della seconda Freedom Flotilla il suo Esecutivo aveva fatto pressione perché l’associazione islamica IHH, nel 2010 pesantemente colpita sulla Mavi Marmara dal blitz marino di Israele, evitasse di partecipare alla seconda azione umanitaria. Occorre tener presente che quella struttura era il pilastro della missione anche per le sue capacità economica e organizzativa. A giugno la Turchia, che pure richiedeva le scuse per l’assalto omicida, teneva un basso profilo sul mantenimento del blocco marino a Gaza. L’estate è però risultata particolarmente calda nella penisola anatolica. Le questioni interne: il braccio di ferro coi vertici delle Forze Armate sostituiti in toto a fine luglio e il rilancio di una campagna del Pkk e dei combattenti curdi nel sud-est del Paese con 41 soldati uccisi hanno suggerito allo staff erdoganiano di mutare tattica. Naturalmente anche lo sviluppo degli ultimi eventi mediorientali ha avuto il suo peso. Sia l’obbligo, per una nazione come la Turchia che ha mire egemoniche nell’area, di esprimersi sugli eccidi che Assad perpetua sul popolo siriano, le ragioni di diritto internazionale s’uniscono all’emergenza profughi. Sia l’accrescersi delle contraddizioni della linea del governo Netanyahu contestata da un blocco sociale interno e in aperta crisi con l’Egitto dopo l’incidente di frontiera nel Sinai.
Quindi alla comparsa del rapporto Palmer sulla vicenda della Mavi Marmara e all’ennesimo rifiuto israeliano di porre scuse ufficiali Erdogan ha scelto di spingere sull’acceleratore col ritiro dei diplomatici da Tel Aviv, la sospensione dei rapporti strategico-militari, la messa in discussione degli stessi scambi commerciali che colpiscono Israele pur penalizzando il business di casa. Industriali e mercanti turchi sono il 6° partner commerciale di Israele, fra le due nazioni ballano tre miliardi e mezzo di dollari l’anno. Ma l’ambizioso leader dell’Akp sa che quella metà Turchia che lo vota è con lui e con una linea estera che rivendica egemonia e grandezza potrà trovare assenso anche fra gente che offre il voto all’opposizione. La crescita economica è per lui calamita di consenso e le statistiche anche nel secondo trimestre dell’anno rivelano un Pil turco all’8.8%. Percentuali cinesi. La stampa locale esalta il passo del premier parlando di “esempio per la regione” e lo stesso entusiasmo riscontrato fra le masse egiziane, orgogliose di mostrare il proprio Islam fuori da derive qaediste, testimoniano la bontà e la prontezza dell’azione erdoganiana. Coordinata certamente dal mentore Davutoglu che, come fanno notare alcuni analisti, già nelle passate settimane mentre pianificava le mosse s’era esposto in prima persona con un cambio di linea. Era passato dall’accattivante “zero problemi coi vicini” a un possibile “parecchi problemi coi vicini” quando contestava la repressione di Assad. In queste ore ipotizza addirittura un intervento frontaliero con l’Iraq per scovare nei rifugi oltreconfine i combattenti curdi.
Intuito o azzardo Davutoglu ha compreso che il Paese non poteva restare inerte di fronte a certi eventi e la minaccia muscolare intrapresa (verso Israele) e praticata (verso i curdi) hanno dato slancio alla politica governativa rinsaldando la decennale diarchia. Nel passaggio fra le fasi di mediazione e determinazione c’è sempre il ministro degli esteri mentre il volto di questo fare è quello dell’ex sindaco di Istanbul che accresce una popolarità personale e con le parole d’ordine di “giustizia e sviluppo” si pone come interlocutore e guida per i Paesi della primavera araba. Il messaggio giunge sino a quell’Unione Europea che lo tiene ai margini e agli Stati Uniti che osservano in silenzio.
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