Ambasciatore Atiyeh, il 23 settembre il presidente Abu Mazen chiederà all’Assemblea Generale Onu di riconoscere lo Stato di Palestina, cosa accadrà?
Accadrà che domanderemo per l’ennesima volta l’ufficializzazione di diritti inalienabili del nostro popolo, gli stessi che valgono per tutte le genti del mondo. A ottobre prossimo scatterà il ventesimo anno di negoziazione con Israele, un periodo lunghissimo che non ha prodotto effetti. I territori di cui chiediamo la restituzione sono quelli occupati con la guerra del 1967, un atto giudicato illegale dalle stesse Nazioni Unite.
Per aggirare il veto statunitense Abu Mazen parlerà come leader dell’Olp, non dell’Anp ma la proposta rischia egualmente di naufragare o d’essere dirottata verso la forma di Stato osservatore.
Abu Mazen parlerà a nome dell’Olp non per tatticismi ma perché quella è la struttura più antica che rappresenta l’intero popolo palestinese.
Alcuni network palestinesi d’America hanno considerato inutile la richiesta perché non riguarderebbe un vero Stato bensì un’entità statale ancora sotto il controllo di Israele.
La condizione che si prospetta potrà essere quella di uno Stato sotto occupazione non di uno Stato conteso. Naturalmente la Comunità Internazionale non può più esimersi dal risolvere un problema che ha creato dal 1948, le sue responsabilità storiche, politiche e morali sono immense. Non stiamo parlando di una nazione con eserciti, aviazione o quant’altro chiediamo di avere a disposizione strumenti civili come ospedali e scuole. Abbiamo un milione di studenti cui manca l’essenziale per svolgere questa fondamentale attività educativa.
Israele e gli Stati Uniti contestano l’unilateralità del gesto sostenendo che qualsiasi riconoscimento deve scaturire da negoziati.
A noi negoziare va benissimo però vogliamo farlo efficacemente, non accettiamo il boicottaggio strisciante perseguito dai politici israeliani. L’Onu è nato per risolvere i conflitti ma non riesce a scardinare gli abusi d’Israele.
Un uomo vicino ad Abu Mazen come Nabil Shaath ha recentemente affermato che in questa o in prossime proposte non sarà barattabile il diritto al ritorno dei profughi. Ma in quali spazi potrebbero vivere altri cinque o sei milioni di palestinesi?
Ho impresso il ricordo di mio padre che mi mostrava il certificato di proprietà della nostra casa che perdemmo quando fummo costretti a lasciare la Palestina. Il popolo palestinese ha perso case e terre, non potrà mai perdere il diritto al ritorno. Un diritto sacro. Quand’ero a Madrid l’ambasciatore israeliano mi rivelò che il 60% degli immigrati in Israele sono cristiano-ortodossi, all’epoca dell’Urss il passaggio da Mosca attraverso Vienna poteva finire solo a Tel Aviv. Sappiamo che Israele non può assorbire sei milioni di palestinesi, concedere il diritto non vuol dire un trasferimento coatto. La comunità palestinese nel mondo è ampia, molti sono radicati in altre nazioni e lì resteranno. Il diritto è una possibilità oltreché un simbolo politico.
Per poter parlare di vera nazione servirebbe pianificare un progetto economico, quali risorse e quale economia sono possibili per una Palestina del domani?
Piccola industria e turismo sarebbero sicuramente possibili, insieme all’agricoltura. Nonostante l’occupazione i nostri contadini continuano a coltivare, certa merce viene gettata via perché non possiamo esportarla. Un insulto. Quest’anno abbiamo ridotto la dipendenza dall’aiuto estero, sarà utile trasformarlo in cooperazione così da non trovarsi in posizione subalterna. La Banca Mondiale ci ha riconosciuto un buon livello di organizzazione. I palestinesi sono creativi non solo nel tradizionale artigianato, pur fra mille difficoltà i nostri figli praticano tutte le professioni e sono in grado di ricostruire il proprio Stato. Siamo ansiosi di essere considerati un popolo autosufficiente.
Nei Territori Occupati si vive coi fondi della Comunità internazionale, quanto tale sostegno condiziona le scelte dell’Anp?
E’ un sistema che vorremmo lasciarci alle spalle anche per evitare i condizionamenti.
I primi nove mesi del 2011 hanno portato nelle casse dell’Autorità Palestinese solo un terzo dei 967 milioni di dollari annuali previsti. Anche i Paesi arabi hanno sensibilmente diminuito i contributi. E’ un segnale contrario alla pacificazione fra Fatah e Hamas?
E’ vero, sia i vertici dei Paesi Arabi sia l’Occidente hanno frenato l’invio dei contributi, non capiamo perché. Non credo per l’ipotesi che lei prospetta, forse incide la stessa crisi internazionale.
L’attuale determinismo di Erdogan, la presa di posizione dell’Egitto, l’auto-isolamento della leadership israeliana possono aiutare la richiesta palestinese?
Non ci illudiamo: la Turchia si muove per i suoi interessi economici e geostrategici, la causa palestinese è entrata da un po’ nel suo orizzonte ma conosco in Europa chi ci sostiene da molto più tempo. Certo le mosse di Erdogan sono importati e mettono in grave difficoltà Israele, seppure ritengo che il maggiore nemico di Israele sia il governo di Tel Aviv. La cecità, l’arroganza, il disprezzo degli impegni e degli stessi accordi firmati fanno di questo Paese un caso unico al mondo. A nessuno è permesso quello che Israele continua a fare. La sua leadership per anni ha creduto che la situazione mediorientale potesse restare congelata. Invece nel presente e futuro dovrà fare i conti con fattori che spiccano prepotentemente nell’area: l’Islam, non necessariamente fondamentalista, e lo spirito nazionale arabo.
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Sabri Atiyeh è dal 2006 ambasciatore della Delegazione Palestinese in Italia. Dal 1982 al ’92 è stato consigliere in Spagna, dal 1992 al ’94 ambasciatore in Perù, poi dal 1996 al 2000 in Colombia e fino al 2005 in Cile. Nel 1991 ha partecipato alla Conferenza per la Pace in Medio Oriente a Madrid.
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