Giornata con pochi scontri – qualcuno di breve durata solo nella prima mattinata – tra manifestanti e forze di polizia in una piazza Tahrir che ha ripreso l’aspetto dei giorni seguiti al 25 gennaio, quando sbocciò la ‘rivoluzione del giovanì che portò alla caduta del regime Mubarak. Centinaia di migliaia di persone, se non un milione, sono assiepate in modo inverosimile stasera, dopo che nel pomeriggio si era temuto il peggio per l’approssimarsi dei carri armati destinati – è stato poi chiarito – solo a proteggere il ministero dell’interno, meta di numerose spedizioni dei manifestanti andate a vuoto tra ieri e stamane. Si erano subito alzate barricate metalliche nelle strade interessate ed erano stati incendiati copertoni, in falò spenti poco dopo.
«È la seconda rivoluzione», dice una parola d’ordine raccolta sui blog in Internet, «dopo il tentativo di militari e governo di far fallire la prima». Di questo fallimento verso la democratizzazione del paese ed il rispetto dei diritti umani i militari sono stati accusati anche in un rapporto diffuso oggi da Amnesty International. E la denuncia non sembra infondata, specie dopo la proposta nei giorni scorsi del viceprimo ministro, Ali Selmi, per una modifica alla costituzione che aveva irritato tutte le forze politiche, specie i Fratelli Musulmani, candidati a raccogliere ampi consensi nelle elezioni legislative in calendario dal 28 novembre. La proposta, che prevede di dare una speciale immunità ai militari e di sottrarre i loro bilanci ai controlli del parlamento, aveva provocato il grande raduno di venerdì scorso, il venerdì «per la protezione della democrazia», come al solito nell’arcinota piazza Tahrir.
Gli sviluppi drammatici di sabato e domenica, con scontri sanguinosi a base di lanci di pietre da una parte, con risposte di lacrimogeni e proiettili di gomma, ma anche proiettili veri, da parte della polizia, affiancata ieri anche da polizia militare, oggi non hanno avuto ulteriori gravi seguiti, se non all’inizio della giornata. Man mano che le ore passavano si sono susseguite le notizie di bilanci di vittime di sabato e domenica progressivamente più alti. Dalla morgue lo stillicidio di informazioni ha portato prima il numero di oltre 40 vittime e poi la richiesta di auto e di bare perchè non ce n’erano abbastanza. Più tardi i medici degli ospedali da campo intorno a piazza Tahrir hanno chiesto ai loro colleghi di arrivare in forza, dato l’alto numero di feriti e hanno invitato a donare sangue ed a portare generi di conforto a chi si prepara a passare la notte in piazza. Canti e balli si sono alternati a momenti di preghiera collettiva, mentre dagli ambienti del potere e da quelli dei manifestanti sono arrivati messaggi opposti.
Un generale arrivato in piazza ha dichiarato che è diritto dei manifestanti quello di fare sit-in, purchè non sia danneggiata la proprietà pubblica, ed ha rassicurato che i generali non intendono rimanere al potere, ma vogliono cederlo a civili appena possibile. Considerata insufficiente, questa rassicurazione non è servita a fugare i dubbi innescati dalla proposta di modifica costituzionale che mirava a porre i militari al di sopra della costituzione e dei controlli parlamentari. «Chiedono di rimanere intoccabili proprio a noi che abbiamo mandato a casa il vecchio regime del militare Mubarak?» chiedeva insistentemente un gruppo di giovani manifestanti vicino alla sede della Lega Araba, sottolineando che comunque i militari hanno le loro responsabilità nelle morti dei «martiri di piazza Tahrir». Anche per questo per domani i giovani hanno sollecitato un nuovo maxiraduno, ancora nella «piazza della rivoluzione».
Poi, in serata, la decisione delle dimissioni.
Ad Alessandria, però, si sono verificati altri ascontri; un poliziotto è morto, mentre cinque manifestanti e altri sei agenti della polizia sono rimasti feriti. Secondo notizie del ministero dell’interno, gli incidenti sono scoppiati quando la polizia si è schierata per impedire ai manifestanti di invadere la sede del Dipartimento della Sicurezza, nel centro della città, dov’era già morto un manifestante sabato sera durante scontri con la polizia.
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da “il manifesto” del 23 novembre 2011
IL CAIRO
È il terzo giorno di guerriglia urbana nel centro del Cairo, e ora dopo ora la scena è pressoché identica. Sull’asfalto sconnesso, coperto di sabbia, plastica bruciata, schegge di vetro e bastoni spezzati è un continuo andirivieni. Chi va alla guerra e chi ritorna portandone i segni. Un contingente di forze fresche si raduna su piazza Tahrir. Aizzato da un capopopolo una drappello di manifestanti più o meno giovani canta in coro hurreya, hurreya (libertà, libertà), prima di imboccare con determinazione via Mahmoud, i volti coperti da maschere antigas, kefiah e sciarpe di squadre di calcio. Dopo mezz’ora li vedi tornare indietro con la faccia inumidita, gli occhi arrossati, il viso e i vestiti imbiancati da spruzzi di acqua e Maalox.
Alle 10 di mattina in piazza Tahrir tira aria da nuovo sgombero come quello brutale di domenica scorsa. Davanti gli scontri continuano a intensificarsi e dietro non sembrano esserci abbastanza persone per fare muro contro la polizia. Una vespa suona il clacson per farsi strada tra i manifestanti con il passeggero che si tiene da solo un panno sulla fronte, da cui fiotta sangue in abbondanza. Un gruppo di ragazzi grida a squarciagola trascinando una ragazza con un velo verde che ha perduto conoscenza. Su tutto il lato orientale di Tahrir sono ospedali improvvisati, rantoli e tentativi di rianimazione.
Quando sembra che la piazza stia per avere la peggio cominciano ad arrivare rinforzi. Il tamburellare di spranghe contro le serrande dei negozi chiama i manifestanti all’attacco. Sulle prime linee avanza una bandiera egiziana e poco dietro una bandiera della squadra di calcio cittadina El-Ahly. Questa volta è la polizia ad avere la peggio. I manifestanti si fanno coraggio. Smontano la barricata eretta di fronte all’entrata dell’American University per trasportarla più avanti. Metro dopo metro si avvicinano al ministero degli interni. A distanza si intravede una camionetta Iveco con un agente montato sulla torretta, intento a sparare munizioni da caccia sulla folla.
«Non andare là davanti» – consiglia Ahmed un ragazzino di 12 anni, spiegando a gesti che là davanti la gente sta morendo. Per le strade ce sono a centinaia di ragazzini come lui, venuti a dare manforte alla guerriglia. Avanzano verso la polizia tenendosi a braccetto per farsi coraggio, prima di prendere di mira gli agenti con pietre e fionde. Combattono come gli adulti e come gli adulti muoiono. Dei 40 caduti di questa ondata di protesta circa metà ha meno di 18 anni. Tra questi un ragazzino di appena 13 anni. Quanto ai feriti quelli non si contano neanche più. Chi ha le gambe rotte, chi una ferita alla testa, chi è stato accecato. Come Ahmed Harara, un’attivista ventenne che domenica ha perso il secondo occhio negli scontri con la polizia, dopo aver perso il primo durante la rivoluzione del 25 gennaio.
Sono passati appena 9 mesi da quella rivoluzione, quando nelle strade del Cairo i manifestanti festeggiavano l’arrivo dei militari gridando «il popolo e l’esercito sono la stessa mano». Sembrano trascorsi secoli, ora il coro in piazza grida: «abbasso, abbasso il governo dei militari». Gli egiziani hanno imparato loro malgrado che la giunta militare aveva altri piani. Del resto il successore di Mubarak, il feldmaresciallo Mohammed Hussein Tantawi era uno dei principali alleati del deposto dittatore di cui è stato ministro della difesa per 20 anni. A dispetto della promessa di transizione verso la democrazia i militari hanno usato il pugno di ferro contro ogni dissenso, spedendo in carcere 12.000 egiziani colpevoli solo di aver partecipato alla rivoluzione. E mese dopo mese hanno rinviato le elezioni presidenziali (quelle che contano veramente), ora previste nel 2013, dando come contentino ai partiti le elezioni parlamentari fissate per il 28 novembre.
Ma come succede a chi è abituato a comandare la giunta militare ha peccato di arroganza. Poche settimane fa ha presentato una bozza di costituzione che riserva all’esercito una posizione di «stato sopra lo stato», che si fa da se il proprio bilancio e può mettere il veto alle leggi che non siano di suo gradimento. Questa mossa ha mandato su tutte le furie i Fratelli Musulmani, convincendoli ad aderire assieme ai movimenti rivoluzionari a una manifestazione tenutasi venerdì scorso a Tahrir, una delle più grandi dai giorni della rivoluzione.
Dopo la protesta un piccolo gruppo di manifestanti ha deciso di passare la notte in piazza. Il tutto si sarebbe probabilmente concluso in un paio di giorni, se non fosse che la giunta militare ha deciso di sgomberare violentemente gli occupanti nella mattina di sabato. L’intervento delle forze di sicurezza ha subito fatto da scintilla per un carburante di rabbia e di indignazione che covava al Cairo e in tante città egiziane di fronte all’evidenza di una rivoluzione tradita per cui le elezioni parlamentari avrebbero fatto da pietra tombale. È così che sono cominciati gli scontri. Prima al Cairo. Poi ad Alessandria. Poi a Suez, Ismailia, Mansura, e decine di altri governatorati dell’Egitto, dove in queste ore continua la battaglia tra manifestanti e forze dell’ordine.
I fratelli musulmani sono indecisi sul da farsi: da un lato appoggiano la protesta, dall’altro continuano a sostenere che le elezioni si svolgeranno regolarmente. Toccherà ancora una volta a loro il ruolo di ago della bilancia. Se decidono di prendersi le elezioni, guadagneranno la maggioranza relativa in parlamento ma saranno ricoperti di infamia. Se decidono di schierarsi con il popolo di Tahrir verranno incoronati come salvatori della rivoluzione e si libereranno della camicia di forza della giunta militare, il vero ostacolo sulla strada che li separa dal governo del paese.
Mentre dietro le quinte in queste ore i Fratelli Musulmani e altri partiti giocano il gioco delle trattative e dei calcoli politici il vero teatro di battaglia per il futuro dell’Egitto continua a essere Tahrir e le vie circostanti. Cammini a pochi metri di distanza e sembra che la vita continui come se niente fosse: signore di Downtown che fanno la spesa, lavoratori che fumano la sigaretta del dopo cena. Rientri in piazza e sono di nuovo spari, grida di battaglia e gas lacrimogeni, che continuano a cadere ogni minuto che sia giorno o che sia notte. Quasi fossero un fenomeno atmosferico.
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