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Sembrano tornati i tempi di Mubarak
Paolo Gerbaudo
IL CAIRO
«Erhal! Erhal!», «Vattene! Vattene!». Sono le 7 e mezza di sera e il feldmaresciallo Mohammed Hussein Tantawi ha appena concluso il suo discorso alla nazione trasmesso dalla televisione di stato. L’anziano ufficiale, vestito con la divisa di ordinanza ha affermato che «l’esercito non ha ucciso nessun egiziano» e non ha alcuna ambizione di rimanere al potere, sostenendo poi che «forze oscure» sono dietro alle proteste di questi giorni. Appena Tantawi pronuncia le ultime parole ascoltate attraverso radioline e amplificatori, la piazza risponde con un boato di disapprovazione che non lascia scampo. Non bastano le dimissioni del governo fantoccio presieduto da Essam Sharaf. Non bastano le promesse di dialogo con partiti e movimenti. Non basta la promessa di elezioni presidenziali a giugno 2012. E’ troppo poco, troppo tardi. «El-shaab iurid iskat el-mushir», il popolo vuole la caduta del feldmaresciallo.
Il quarto giorno di mobilitazione contro una giunta militare, che è la continuazione sotto mentite spoglie del regime di Mubarak era il momento decisivo per vedere se il popolo egiziano avrebbe appoggiato la gioventù rivoluzionaria di Tahrir. Nei primi giorni di mobilitazione si avvertiva infatti una certa diffidenza tra la gente comune rispetto ad una protesta diventata presto guerriglia urbana, in un paese in cui con l’economia e il turismo sono a terra, e sono in molti a bramare un po’ di stabilità. Ma le immagini della crudeltà delle forze di sicurezza contro i manifestanti, diffuse su facebook e su al-Jazeera, e la testardaggine della giunta militare nel volere reprimere le proteste ad ogni costo sembrano aver convinto molti indecisi a saltare sulla barca di questa seconda rivoluzione. Così ieri in centinaia di migliaia hanno aderito alla chiamata della «marcia del milione» lanciata lunedì da 35 movimenti e partiti.
A partire da metà pomeriggio piazza Tahrir si è riempita all’inverosimile. Si faceva fatica a entrare e fatica a uscire. Marce di sostegno sono arrivate da Shubra, Dokki, Giza e decine di altri quartieri della capitale egiziana. Studentesse delle scuole superiori intonavano cori ritmati contro Tantawi chiamato «baltageya» ovvero criminale. Un signore con le mani incatenate e l’immagine del figlio finito nelle carceri militari applaudiva un corteo appena entrato in piazza, «bravi che siete venuti qui invece che stare sulla vostra poltrona». Nel frattempo i venditori ambulanti facevano affari d’oro vendendo maschere anti-gas e occhialini protettivi. Sembrava di rivedere le immagini del 28 gennaio il giorno decisivo della rivoluzione contro Mubarak. E come il 28 gennaio sulla «sannaya» l’enorme rotonda al centro di piazza Tahrir sono cominciate a spuntare le tende, con al centro il tendone dell’ospedale da campo.
Forze e leader politici presi di sorpresa dall’impeto dei manifestanti hanno provato a capitalizzare sulla protesta, ma per lo più sono stati respinti a malomodo. Tra loro Beltagy, esponente dei Fratelli musulmani, che continuano a chiedere che le elezioni parlamentari previste per il 28 novembre si tengano regolarmente. «Arrivi troppo tardi», gli hanno gridato i manifestanti. A essere letteralmente accolti a braccia aperte sono stati invece i due generali comparsi a sorpresa in piazza nel tardo pomeriggio per comunicare la propria solidarietà con i manifestanti. Non è la prima volta che ufficiali rompono i ranghi con il regime. L’8 aprile una dozzina di sottufficiali si unì ad un sit-in a piazza Tahrir: in poco tempo furono arrestati e fatti sparire chissà dove. Mai si era visto l’appoggio di ufficiali di così alto livello, a dimostrazione che il regime militare sta veramente cominciando a perdere i pezzi.
Mentre in serata in piazza l’entusiasmo raggiungeva livelli parossistici nelle strade vicino a Tahrir continuavano ad infuriare gli scontri con la polizia e continuava ad aumentare il numero di morti e feriti colpiti dalle pallottole e soffocati dai gas lacrimogeni tra cui il famigerato gas CR, inventato dai britannici e proibito dagli anni ’60, perché può provocare la morte per edema polmonare. «Manca sangue all’ospedale di Qasr el-Aini» – annunciava qualcuno su Twitter, mentre all’hashtag #TahrirNeeds si facevano le liste dei beni di prima necessità da portare in piazza: siringhe da cinque centimetri, anestetizzanti locali, acqua, coperte.
Ma ieri il vero epicentro della violenza è stata Alessandria dove si sono intensificati gli scontri attorno al direttorato della polizia, che gli agenti difendono a tutti i costi sostenendo che ospiti un deposito di armi.
Di fronte alla vitalità della mobilitazione che promette di guadagnare forza nei prossimi giorni e di esplodere con forza venerdì prossimo, la giunta militare continua testardamente a sostenere che le elezioni cominceranno regolarmente lunedì. Nel frattempo cerca di fare fronte alla crisi offrendo piccole concessioni che considera di gradimento dei partiti. Così ieri i militari hanno infine accettato le dimissioni rassegnate lunedì dall’esecutivo di Essam Sharaf e promesso un governo di salvezza nazionale per cui è stato ventilato il nome di El Baradei. Nessuna risposta invece alle domande che vengono dalla piazza. Contro i manifestanti il regime usa le stesse tattiche già viste ai tempi della rivoluzione contro Mubarak ed in particolare l’accusa di essere al soldo di governi stranieri. E quando mancano le prove del complotto, le creano a tavolino come fatto con l’arresto di tre studenti universitari americani a piazza Tahrir, contro cui pende la risibile accusa di aver tirato bottiglie molotov contro le forze di sicurezza.
Mentre la notte scende su Cairo, Alessandria e decine di altre città in cui continua la battaglia tra manifestanti e polizia la soluzione alla crisi politica che attraversa l’Egitto sembra lontana. «Non vedo una via di uscita», sospira Mustafa un manifestante trentatrenne con un grande cerotto in testa. «La giunta militare non abbandonerà il potere, perché se lo fanno finiscono come Mubarak, o peggio come Gheddafi. Dal canto nostro, noi non abbandoneremo la piazza». Nove mesi fa i militari offrirono una via d’uscita alla crisi proponendosi come garanti della transizione democratica: una promessa tradita che ha scatenato questa seconda ondata rivoluzionaria. Questa volta il popolo egiziano potrà contare solo su se stesso.
Il quarto giorno di mobilitazione contro una giunta militare, che è la continuazione sotto mentite spoglie del regime di Mubarak era il momento decisivo per vedere se il popolo egiziano avrebbe appoggiato la gioventù rivoluzionaria di Tahrir. Nei primi giorni di mobilitazione si avvertiva infatti una certa diffidenza tra la gente comune rispetto ad una protesta diventata presto guerriglia urbana, in un paese in cui con l’economia e il turismo sono a terra, e sono in molti a bramare un po’ di stabilità. Ma le immagini della crudeltà delle forze di sicurezza contro i manifestanti, diffuse su facebook e su al-Jazeera, e la testardaggine della giunta militare nel volere reprimere le proteste ad ogni costo sembrano aver convinto molti indecisi a saltare sulla barca di questa seconda rivoluzione. Così ieri in centinaia di migliaia hanno aderito alla chiamata della «marcia del milione» lanciata lunedì da 35 movimenti e partiti.
A partire da metà pomeriggio piazza Tahrir si è riempita all’inverosimile. Si faceva fatica a entrare e fatica a uscire. Marce di sostegno sono arrivate da Shubra, Dokki, Giza e decine di altri quartieri della capitale egiziana. Studentesse delle scuole superiori intonavano cori ritmati contro Tantawi chiamato «baltageya» ovvero criminale. Un signore con le mani incatenate e l’immagine del figlio finito nelle carceri militari applaudiva un corteo appena entrato in piazza, «bravi che siete venuti qui invece che stare sulla vostra poltrona». Nel frattempo i venditori ambulanti facevano affari d’oro vendendo maschere anti-gas e occhialini protettivi. Sembrava di rivedere le immagini del 28 gennaio il giorno decisivo della rivoluzione contro Mubarak. E come il 28 gennaio sulla «sannaya» l’enorme rotonda al centro di piazza Tahrir sono cominciate a spuntare le tende, con al centro il tendone dell’ospedale da campo.
Forze e leader politici presi di sorpresa dall’impeto dei manifestanti hanno provato a capitalizzare sulla protesta, ma per lo più sono stati respinti a malomodo. Tra loro Beltagy, esponente dei Fratelli musulmani, che continuano a chiedere che le elezioni parlamentari previste per il 28 novembre si tengano regolarmente. «Arrivi troppo tardi», gli hanno gridato i manifestanti. A essere letteralmente accolti a braccia aperte sono stati invece i due generali comparsi a sorpresa in piazza nel tardo pomeriggio per comunicare la propria solidarietà con i manifestanti. Non è la prima volta che ufficiali rompono i ranghi con il regime. L’8 aprile una dozzina di sottufficiali si unì ad un sit-in a piazza Tahrir: in poco tempo furono arrestati e fatti sparire chissà dove. Mai si era visto l’appoggio di ufficiali di così alto livello, a dimostrazione che il regime militare sta veramente cominciando a perdere i pezzi.
Mentre in serata in piazza l’entusiasmo raggiungeva livelli parossistici nelle strade vicino a Tahrir continuavano ad infuriare gli scontri con la polizia e continuava ad aumentare il numero di morti e feriti colpiti dalle pallottole e soffocati dai gas lacrimogeni tra cui il famigerato gas CR, inventato dai britannici e proibito dagli anni ’60, perché può provocare la morte per edema polmonare. «Manca sangue all’ospedale di Qasr el-Aini» – annunciava qualcuno su Twitter, mentre all’hashtag #TahrirNeeds si facevano le liste dei beni di prima necessità da portare in piazza: siringhe da cinque centimetri, anestetizzanti locali, acqua, coperte.
Ma ieri il vero epicentro della violenza è stata Alessandria dove si sono intensificati gli scontri attorno al direttorato della polizia, che gli agenti difendono a tutti i costi sostenendo che ospiti un deposito di armi.
Di fronte alla vitalità della mobilitazione che promette di guadagnare forza nei prossimi giorni e di esplodere con forza venerdì prossimo, la giunta militare continua testardamente a sostenere che le elezioni cominceranno regolarmente lunedì. Nel frattempo cerca di fare fronte alla crisi offrendo piccole concessioni che considera di gradimento dei partiti. Così ieri i militari hanno infine accettato le dimissioni rassegnate lunedì dall’esecutivo di Essam Sharaf e promesso un governo di salvezza nazionale per cui è stato ventilato il nome di El Baradei. Nessuna risposta invece alle domande che vengono dalla piazza. Contro i manifestanti il regime usa le stesse tattiche già viste ai tempi della rivoluzione contro Mubarak ed in particolare l’accusa di essere al soldo di governi stranieri. E quando mancano le prove del complotto, le creano a tavolino come fatto con l’arresto di tre studenti universitari americani a piazza Tahrir, contro cui pende la risibile accusa di aver tirato bottiglie molotov contro le forze di sicurezza.
Mentre la notte scende su Cairo, Alessandria e decine di altre città in cui continua la battaglia tra manifestanti e polizia la soluzione alla crisi politica che attraversa l’Egitto sembra lontana. «Non vedo una via di uscita», sospira Mustafa un manifestante trentatrenne con un grande cerotto in testa. «La giunta militare non abbandonerà il potere, perché se lo fanno finiscono come Mubarak, o peggio come Gheddafi. Dal canto nostro, noi non abbandoneremo la piazza». Nove mesi fa i militari offrirono una via d’uscita alla crisi proponendosi come garanti della transizione democratica: una promessa tradita che ha scatenato questa seconda ondata rivoluzionaria. Questa volta il popolo egiziano potrà contare solo su se stesso.
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L’assordante silenzio della Lega araba (o saudita?)
Michele Giorgio
Nelle ore in cui piazza Tahrir ha levato alta la sua voce contro i militari al potere, per portare a compimento la rivoluzione di gennaio, non può passare inosservato il silenzio assordante della Lega araba che pure ha la sua sede al Cairo, a poche decine di metri dal luogo simbolo della rivolta contro Hosni Mubarak. Loquace sui diritti del popolo siriano, l’organizzazione panaraba invece tace sulla lotta degli egiziani per il passaggio immediato dei poteri dal Consiglio supremo delle forze armate (Csfa) ai civili. E non vede neppure i cadaveri dei dimostranti uccisi buttati nei rifiuti dai poliziotti egiziani. Egemonizzata ormai dall’Arabia saudita e dagli emirati e monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo, la Lega araba non ha commentato le ultime stragi, spesso compiute da cecchini, di decine di civili egiziani disarmati che al Cairo e in altre città reclamano i loro diritti. Così come ad ottobre era rimasta in silenzio di fronte al massacro di 29 egiziani copti da parte dell’esercito e della polizia, tragica anticipazione della carneficina avvenuta nei giorni scorsi in piazza Tahrir.
Qualche parola, ad onor del vero, l’ha pronunciata lunedì il segretario della Lega araba, Nabil el Arabi (un egiziano), ma ha soltanto espresso «dispiacere» per i morti e chiesto a tutte le parti di «contenersi», nulla di più. I leader arabi si sono allineati al tono «sobrio» degli Stati uniti «profondamente preoccupati» per le violenze in Egitto.
Eppure non mancano motivi per indignarsi e per reagire. E di ieri la pubblicazione di un rapporto di Amnesty international dal titolo «Promesse mancate: l’erosione dei diritti umani da parte dei militari al potere», che denuncia come i generali egiziani siano venuti completamente meno alla promessa di migliorare i diritti umani e si sono resi invece responsabili di abusi e violazioni che in alcuni casi hanno persino superato quelle dell’era di Hosni Mubarak. «Attraverso l’uso delle corti marziali per processare migliaia di civili, la repressione delle proteste pacifiche e l’estensione dello stato d’emergenza in vigore all’epoca di Mubarak, il Consiglio ha perpetuato la tradizione di governo repressivo da cui i manifestanti del 25 gennaio avevano lottato così duramente per liberarsi», ha denunciato Philip Luther, direttore di Amnesty per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. Amnesty nota che il Consiglio ha rispettato pochi dei suoi impegni e ha peggiorato la situazione in alcune aree. Ad agosto, i generali peraltro avevano ammesso che circa 12.000 civili erano stati processati dai tribunali militari, con procedure gravemente inique. Il pugno di ferro è stato usato anche per indurre al silenzio i mezzi d’informazione: decine di giornalisti e di responsabili di programmi radiotelevisivi sono stati convocati dai procuratori militari. Anche il triste capitolo delle torture in carcere è rimasto aperto mentre gli sgomberi forzati degli abitanti degli insediamenti precari sono andati avanti dopo l’assunzione del potere da parte del Consiglio supremo delle forze armate.
Un rapporto lungo e dettagliato che non lascia dubbi su ciò che accade in Egitto ma la Lega araba non si indigna per le vicende egiziane come fa per i diritti negati ai siriani e l’uso della repressione da parte del regime di Bashar Assad.
L’Arabia saudita, che domina l’organizzazione che riunisce gli Stati arabi, non ha mai visto di buon occhio le rivolte popolari che da dieci mesi infiammano il Nordafrica e il Medio Oriente, temendo per la sua stabilità e delle altre petro-monarchie. E ha fatto del suo meglio per indirizzarle nella direzione più conveniente ai suoi interessi. Almeno per adesso ci è riuscita.
Qualche parola, ad onor del vero, l’ha pronunciata lunedì il segretario della Lega araba, Nabil el Arabi (un egiziano), ma ha soltanto espresso «dispiacere» per i morti e chiesto a tutte le parti di «contenersi», nulla di più. I leader arabi si sono allineati al tono «sobrio» degli Stati uniti «profondamente preoccupati» per le violenze in Egitto.
Eppure non mancano motivi per indignarsi e per reagire. E di ieri la pubblicazione di un rapporto di Amnesty international dal titolo «Promesse mancate: l’erosione dei diritti umani da parte dei militari al potere», che denuncia come i generali egiziani siano venuti completamente meno alla promessa di migliorare i diritti umani e si sono resi invece responsabili di abusi e violazioni che in alcuni casi hanno persino superato quelle dell’era di Hosni Mubarak. «Attraverso l’uso delle corti marziali per processare migliaia di civili, la repressione delle proteste pacifiche e l’estensione dello stato d’emergenza in vigore all’epoca di Mubarak, il Consiglio ha perpetuato la tradizione di governo repressivo da cui i manifestanti del 25 gennaio avevano lottato così duramente per liberarsi», ha denunciato Philip Luther, direttore di Amnesty per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. Amnesty nota che il Consiglio ha rispettato pochi dei suoi impegni e ha peggiorato la situazione in alcune aree. Ad agosto, i generali peraltro avevano ammesso che circa 12.000 civili erano stati processati dai tribunali militari, con procedure gravemente inique. Il pugno di ferro è stato usato anche per indurre al silenzio i mezzi d’informazione: decine di giornalisti e di responsabili di programmi radiotelevisivi sono stati convocati dai procuratori militari. Anche il triste capitolo delle torture in carcere è rimasto aperto mentre gli sgomberi forzati degli abitanti degli insediamenti precari sono andati avanti dopo l’assunzione del potere da parte del Consiglio supremo delle forze armate.
Un rapporto lungo e dettagliato che non lascia dubbi su ciò che accade in Egitto ma la Lega araba non si indigna per le vicende egiziane come fa per i diritti negati ai siriani e l’uso della repressione da parte del regime di Bashar Assad.
L’Arabia saudita, che domina l’organizzazione che riunisce gli Stati arabi, non ha mai visto di buon occhio le rivolte popolari che da dieci mesi infiammano il Nordafrica e il Medio Oriente, temendo per la sua stabilità e delle altre petro-monarchie. E ha fatto del suo meglio per indirizzarle nella direzione più conveniente ai suoi interessi. Almeno per adesso ci è riuscita.
da “il manifesto”
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