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Un voto che i militari sperano servirà a cambiare poco o nulla
Michele Giorgio
«Le divisioni politiche devono essere rimandate a vantaggio dell’unità e della formazione di un vero governo rivoluzionario». E’ stato il noto scrittore Alaa Aswani, un paio di giorni fa, a lanciare questo appello per la piena realizzazione della rivoluzione del 25 gennaio. Attenti, pare voler spiegare Aswani agli egiziani, togliere i poteri ai militari e passarli ad autorità civili è più importante persino delle elezioni legislative di domani. Ma se in piazza Tahrir c’è piena comprensione delle parole del romanziere egiziano e della necessità di andare sino in fondo contro la giunta militare, una fetta consistente della popolazione guarda a quanto avviene nelle strade del paese con crescente preoccupazione e teme di pagare in prima persona le conseguenze, soprattutto economiche, della crisi.
I primi ad andare a votare domani saranno gli elettori di Cairo, Alessandria, Luxor e Porto Said. Ieri però la Commissione elettorale ha ipotizzato un rinvio, per ragioni di sicurezza, delle votazioni nella capitale e ad Alessandria. Il 14 dicembre sarà la volta di Suez, Aswan, Ismailyia. Il 3 gennaio si voterà nel Sinai e sulla costa mediterranea. Non pochi attivisti sceglieranno l’astensione, in segno di dissenso verso i generali al potere. Si prevede che un 50-60% degli egiziani andranno alle urne, quindi più del 40% che partecipò al referendum costituzionale dello scorso marzo. Nei seggi elettorali entreranno in massa militanti e simpatizzanti delle formazioni islamiste, i copti e gli altri cristiani che con il loro voto credono di arginare il successo dei Fratelli musulmani, ritenuto sicuro. E al voto andrà, ma non si sa con quale percentuale, l’Alto Egitto rimasto ai margini durante la rivoluzione di gennaio e anche in questi giorni nei quali i grandi centri urbani, dal Cairo ad Alessandria fino a Suez hanno urlato la loro rabbia contro il Consiglio militare. E proprio l’Alto Egitto potrebbe riconfermare nell’Assemblea del popolo (Camera bassa) diversi deputati del disciolto Partito nazional democratico dell’ex rais Hosni Mubarak, che nel frattempo si sono riciclati come indipendenti o hanno formato nuovi partiti. Nella nuova Assemblea del popolo potrebbero perciò ritrovarsi in maggioranza le forze che non hanno fatto sul terreno la rivoluzione di gennaio. Come negli ultimi giorni di Mubarak al potere, i leader dei Fratelli musulmani evitano la piazza e le manifestazioni anti-regime e lavorano per la stabilità invocata dai militari al potere. La sinistra, molto attiva tra lavoratori, soprattutto con le sue nuove formazioni, raccoglierà consensi limitati e pochi deputati.
Con l’intento evidente di spaccare il fronte della protesta, ieri il maresciallo Hussein Tantawi, capo delle forze armate, ha incontrato separatamente al Cairo l’ex direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), Mohamed ElBaradei, e l’ex segretario generale della Lega araba, Amr Musa. Un faccia a faccia convocato al momento giusto. Non pochi considerano ElBaradei e Musa come i «leader» dell’ «esecutivo di salvezza nazionale» creato un paio di giorni fa in risposta all’incarico di formare il nuovo governo affidato dai militari all’anziano ex premier Kamal Ganzuri. Ma l’esecutivo di salvezza nazionale non pare realmente alternativo a quello che stanno formando i militari. Assomiglia piuttosto ad un «comitato di saggi». ElBaradei, un moderato, vorrebbe farne una sorta di organo di consulenza del governo. In ogni caso gli islamisti si sono schierati contro l’ex direttore dell’Aiea. Secondo il quotidiano Youm7, oltre 20 movimenti e partiti di quell’area stanno preparando un comunicato per respingere la nomina di ElBaradei a «capo» dell’esecutivo creato da piazza Tahrir.
Da parte loro Tantawi e gli altri generali continuano a non operare alcun cambiamento vero e a mantenere intatta la struttura del regime che fino a dieci mesi fa era guidato da Mubarak. Ieri, ad esempio, hanno confermato per un terzo mandato consecutivo il governatore della Banca centrale Farouk el-Okdah che, a sorpresa, giovedì aveva innalzato i tassi di interesse per la prima volta in oltre due anni, rendendo ancora più difficile l’accesso al credito. Un passo falso in un paese dove l’economia è in caduta libera, sempre più egiziani finiscono sotto la soglia di povertà (due dollari al giorno) e la crescita è passata dal 7% degli anni scorsi all’1% del 2011. Ma el-Okdah ai lavoratori e alle tante piccole imprese che chiudono, ha preferito le sirene del Fmi e delle agenzie di rating. Ha scelto di salvaguardare le riserve di valuta estera scese del 40% negli ultimi 10 mesi a causa del sostegno che la Banca centrale ha dovuto dare al pound egiziano. In caduta libera è anche il turismo (10% del Pil) con la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro in tutto il paese. Condizioni che presto o tardi affievoliranno la protesta popolare a vantaggio dei militari che il potere lo lasciaranno solo alle loro condizioni.
I primi ad andare a votare domani saranno gli elettori di Cairo, Alessandria, Luxor e Porto Said. Ieri però la Commissione elettorale ha ipotizzato un rinvio, per ragioni di sicurezza, delle votazioni nella capitale e ad Alessandria. Il 14 dicembre sarà la volta di Suez, Aswan, Ismailyia. Il 3 gennaio si voterà nel Sinai e sulla costa mediterranea. Non pochi attivisti sceglieranno l’astensione, in segno di dissenso verso i generali al potere. Si prevede che un 50-60% degli egiziani andranno alle urne, quindi più del 40% che partecipò al referendum costituzionale dello scorso marzo. Nei seggi elettorali entreranno in massa militanti e simpatizzanti delle formazioni islamiste, i copti e gli altri cristiani che con il loro voto credono di arginare il successo dei Fratelli musulmani, ritenuto sicuro. E al voto andrà, ma non si sa con quale percentuale, l’Alto Egitto rimasto ai margini durante la rivoluzione di gennaio e anche in questi giorni nei quali i grandi centri urbani, dal Cairo ad Alessandria fino a Suez hanno urlato la loro rabbia contro il Consiglio militare. E proprio l’Alto Egitto potrebbe riconfermare nell’Assemblea del popolo (Camera bassa) diversi deputati del disciolto Partito nazional democratico dell’ex rais Hosni Mubarak, che nel frattempo si sono riciclati come indipendenti o hanno formato nuovi partiti. Nella nuova Assemblea del popolo potrebbero perciò ritrovarsi in maggioranza le forze che non hanno fatto sul terreno la rivoluzione di gennaio. Come negli ultimi giorni di Mubarak al potere, i leader dei Fratelli musulmani evitano la piazza e le manifestazioni anti-regime e lavorano per la stabilità invocata dai militari al potere. La sinistra, molto attiva tra lavoratori, soprattutto con le sue nuove formazioni, raccoglierà consensi limitati e pochi deputati.
Con l’intento evidente di spaccare il fronte della protesta, ieri il maresciallo Hussein Tantawi, capo delle forze armate, ha incontrato separatamente al Cairo l’ex direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), Mohamed ElBaradei, e l’ex segretario generale della Lega araba, Amr Musa. Un faccia a faccia convocato al momento giusto. Non pochi considerano ElBaradei e Musa come i «leader» dell’ «esecutivo di salvezza nazionale» creato un paio di giorni fa in risposta all’incarico di formare il nuovo governo affidato dai militari all’anziano ex premier Kamal Ganzuri. Ma l’esecutivo di salvezza nazionale non pare realmente alternativo a quello che stanno formando i militari. Assomiglia piuttosto ad un «comitato di saggi». ElBaradei, un moderato, vorrebbe farne una sorta di organo di consulenza del governo. In ogni caso gli islamisti si sono schierati contro l’ex direttore dell’Aiea. Secondo il quotidiano Youm7, oltre 20 movimenti e partiti di quell’area stanno preparando un comunicato per respingere la nomina di ElBaradei a «capo» dell’esecutivo creato da piazza Tahrir.
Da parte loro Tantawi e gli altri generali continuano a non operare alcun cambiamento vero e a mantenere intatta la struttura del regime che fino a dieci mesi fa era guidato da Mubarak. Ieri, ad esempio, hanno confermato per un terzo mandato consecutivo il governatore della Banca centrale Farouk el-Okdah che, a sorpresa, giovedì aveva innalzato i tassi di interesse per la prima volta in oltre due anni, rendendo ancora più difficile l’accesso al credito. Un passo falso in un paese dove l’economia è in caduta libera, sempre più egiziani finiscono sotto la soglia di povertà (due dollari al giorno) e la crescita è passata dal 7% degli anni scorsi all’1% del 2011. Ma el-Okdah ai lavoratori e alle tante piccole imprese che chiudono, ha preferito le sirene del Fmi e delle agenzie di rating. Ha scelto di salvaguardare le riserve di valuta estera scese del 40% negli ultimi 10 mesi a causa del sostegno che la Banca centrale ha dovuto dare al pound egiziano. In caduta libera è anche il turismo (10% del Pil) con la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro in tutto il paese. Condizioni che presto o tardi affievoliranno la protesta popolare a vantaggio dei militari che il potere lo lasciaranno solo alle loro condizioni.
da “il manifesto”
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I Fratelli gli unici sicuri
Paolo Gerbaudo
IL CAIRO
L’ultima volta che gli egiziani furono chiamati a eleggere il parlamento il risultato fu di quelli bulgari. Il Partito nazionale democratico (Pnd) dell’ex presidente Hosni Mubarak conquistò l’81% delle preferenze.
È passato un anno da quel 25 novembre 2010, un anno in cui la rivoluzione dei 18 giorni ha fragorosamente aperto le porte per una transizione verso la democrazia. Le prime elezioni libere da 60 anni a questa parte avrebbero dovuto essere una tappa decisiva in questo processo. Ma dopo una settimana di violenta repressione che ha provocato più di 40 morti al Cairo, Suez e Alessandria, l’appuntamento elettorale rischia di essere percepito come una farsa per coprire la realtà di un paese sotto dittatura militare.
Gli elettori egiziani sono chiamati a eleggere i 498 membri del Maglis al-Shabab, l’Assemblea del popolo, e i 270 della Shura, la camera alta. A loro volta gli eletti dovranno nominare un gruppo ristretto di rappresentanti con il compito di scrivere la nuova costituzione egiziana. Il sistema elettorale è estremamente tortuoso e suddiviso in tre turni elettorali.
Si comincia lunedì e martedì a Cairo, Alessandria, Luxor e Porto Said. Il 14 dicembre sarà la volta di Suez, Aswan, Ismailyia, fino ad arrivare al 3 gennaio quando tocca al Sinai e alla costa mediterranea. Due terzi dei seggi saranno riempiti dalle liste di partito. Il resto verrà colmato da candidati indipendenti in un sistema che rischia di favorire il riciclaggio di personalità del vecchio regime.
Il panorama politico alla vigilia del voto è molto frammentato con un totale di 40 partiti e quattro coalizioni. A fare la parte del leone è Hurreya ua Adala (Libertà e giustizia), il braccio politico dei Fratelli musulmani che accompagna un riferimento ai principi etici dell’Islam con un’orientamento economico di stampo liberale. Il loro serbatoio di voti è soprattutto la grande massa dei poveri urbani e rurali tra cui gli «ikhwan» sono ben radicati grazie alle loro iniziative di beneficienza.
Per dissipare le accuse di fondamentalismo i Fratelli hanno dato a vita ad una «Alleanza democratica» che comprende il partito liberale Ghad el-Gedid (Nuovo domani), capeggiato dal candidato alle presidenziali e perseguitato dell’era Mubarak, Ayman Noor, e i nasseristi moderati di Karama (Dignità). Nelle parlamentari del 2005, meno manipolate di quelle del 2010, i Fratelli riuscirono a conquistare 88 rappresentanti alla Maglis al-Shabab, tutti eletti come indipendenti. Questa volta puntano alla maggioranza.
A fargli concorrenza a destra ci penseranno gli islamisti duri e puri dei salafiti dell’Hizb al-Nour, (Partito della luce), sui cui manifesti campeggiano candidati con lunghe barbe e «zibibba», il bernoccolo scuro in mezzo alla fronte, certificato di lunghe e intense preghiere. Il loro programma è riassunto nello slogan «il popolo vuole il volere di Dio»: sharia legge di stato. La loro roccaforte è l’Alto Egitto rurale. Al loro fianco si schiera il partito «Costruzione e sviluppo», filiazione di al-Gamaa al-Islamiya, organizzazione protagonista in passato di attentati contro turisti.
A fare da diga contro gli islamisti al centro si colloca l’alleanza «Blocco per l’Egitto» di orientamento laico, egemonizzata dai liberali di El-Masriin El-Ahrrar, che vanta tra i fondatori l’imprenditore delle telecomunicazioni Naguib Sawiris, già proprietario di Wind e di religione copta. I loro principali alleati sono il partito social-democratico egiziano e il Tagammu, che si presenta come difensore delle conquiste sociali e delle nazionalizzazioni della rivoluzione del 1952, invise a imprenditori come Sawiris.
Se c’è un’alleanza che più delle altre ambisce a farsi portavoce di piazza Tahrir è quella denominata la «Rivoluzione continua». Il suo motore principale è l’alleanza socialista popolare che raggruppa partitini socialisti, comunisti e trotzkisti. Ma dentro ci sono pure gli «islamisti sociali» di Al Tayar Al-Masry, partito fondato da giovani dissidenti dei Fratelli musulmani, e i liberali di Masr al-Hurreya guidati dall’intellettuale Hamzawy.
Mentre in queste ore i partiti vanno a caccia di voti non si placa la violenza del regime militare. Due attivisti sono stati uccisi ieri di fronte alla sede del consiglio di ministri dove protestavano contro la nomina del nuovo premer Al-Ganzuri che promette di varare il nuovo esecutivo in 3 giorni. Di ieri anche la notizia dell’arresto di tre ragazzi italiani, con l’inverosimile accusa di aver incendiato una palma. Una storia che ricorda il recente arresto di tre studenti americani (poi rilasciati) a cui veniva addirittura imputato di aver lanciato molotov contro la polizia nei recenti scontri attorno a piazza Tahrir.
In molti temono che la rabbia generata dalla repressione sanguinosa della giunta militare contro le manifestazioni di protesta di questa settimana riesploda lunedì e martedì. Del resto in precedenti tornate elettorali si sono spesso verificati disordini, come nel 2010, quando si registarono 10 morti per violenze in prossimità dei seggi. Quest’anno il bilancio rischia di essere molto più pesante.
IL CAIRO
L’ultima volta che gli egiziani furono chiamati a eleggere il parlamento il risultato fu di quelli bulgari. Il Partito nazionale democratico (Pnd) dell’ex presidente Hosni Mubarak conquistò l’81% delle preferenze.
È passato un anno da quel 25 novembre 2010, un anno in cui la rivoluzione dei 18 giorni ha fragorosamente aperto le porte per una transizione verso la democrazia. Le prime elezioni libere da 60 anni a questa parte avrebbero dovuto essere una tappa decisiva in questo processo. Ma dopo una settimana di violenta repressione che ha provocato più di 40 morti al Cairo, Suez e Alessandria, l’appuntamento elettorale rischia di essere percepito come una farsa per coprire la realtà di un paese sotto dittatura militare.
Gli elettori egiziani sono chiamati a eleggere i 498 membri del Maglis al-Shabab, l’Assemblea del popolo, e i 270 della Shura, la camera alta. A loro volta gli eletti dovranno nominare un gruppo ristretto di rappresentanti con il compito di scrivere la nuova costituzione egiziana. Il sistema elettorale è estremamente tortuoso e suddiviso in tre turni elettorali.
Si comincia lunedì e martedì a Cairo, Alessandria, Luxor e Porto Said. Il 14 dicembre sarà la volta di Suez, Aswan, Ismailyia, fino ad arrivare al 3 gennaio quando tocca al Sinai e alla costa mediterranea. Due terzi dei seggi saranno riempiti dalle liste di partito. Il resto verrà colmato da candidati indipendenti in un sistema che rischia di favorire il riciclaggio di personalità del vecchio regime.
Il panorama politico alla vigilia del voto è molto frammentato con un totale di 40 partiti e quattro coalizioni. A fare la parte del leone è Hurreya ua Adala (Libertà e giustizia), il braccio politico dei Fratelli musulmani che accompagna un riferimento ai principi etici dell’Islam con un’orientamento economico di stampo liberale. Il loro serbatoio di voti è soprattutto la grande massa dei poveri urbani e rurali tra cui gli «ikhwan» sono ben radicati grazie alle loro iniziative di beneficienza.
Per dissipare le accuse di fondamentalismo i Fratelli hanno dato a vita ad una «Alleanza democratica» che comprende il partito liberale Ghad el-Gedid (Nuovo domani), capeggiato dal candidato alle presidenziali e perseguitato dell’era Mubarak, Ayman Noor, e i nasseristi moderati di Karama (Dignità). Nelle parlamentari del 2005, meno manipolate di quelle del 2010, i Fratelli riuscirono a conquistare 88 rappresentanti alla Maglis al-Shabab, tutti eletti come indipendenti. Questa volta puntano alla maggioranza.
A fargli concorrenza a destra ci penseranno gli islamisti duri e puri dei salafiti dell’Hizb al-Nour, (Partito della luce), sui cui manifesti campeggiano candidati con lunghe barbe e «zibibba», il bernoccolo scuro in mezzo alla fronte, certificato di lunghe e intense preghiere. Il loro programma è riassunto nello slogan «il popolo vuole il volere di Dio»: sharia legge di stato. La loro roccaforte è l’Alto Egitto rurale. Al loro fianco si schiera il partito «Costruzione e sviluppo», filiazione di al-Gamaa al-Islamiya, organizzazione protagonista in passato di attentati contro turisti.
A fare da diga contro gli islamisti al centro si colloca l’alleanza «Blocco per l’Egitto» di orientamento laico, egemonizzata dai liberali di El-Masriin El-Ahrrar, che vanta tra i fondatori l’imprenditore delle telecomunicazioni Naguib Sawiris, già proprietario di Wind e di religione copta. I loro principali alleati sono il partito social-democratico egiziano e il Tagammu, che si presenta come difensore delle conquiste sociali e delle nazionalizzazioni della rivoluzione del 1952, invise a imprenditori come Sawiris.
Se c’è un’alleanza che più delle altre ambisce a farsi portavoce di piazza Tahrir è quella denominata la «Rivoluzione continua». Il suo motore principale è l’alleanza socialista popolare che raggruppa partitini socialisti, comunisti e trotzkisti. Ma dentro ci sono pure gli «islamisti sociali» di Al Tayar Al-Masry, partito fondato da giovani dissidenti dei Fratelli musulmani, e i liberali di Masr al-Hurreya guidati dall’intellettuale Hamzawy.
Mentre in queste ore i partiti vanno a caccia di voti non si placa la violenza del regime militare. Due attivisti sono stati uccisi ieri di fronte alla sede del consiglio di ministri dove protestavano contro la nomina del nuovo premer Al-Ganzuri che promette di varare il nuovo esecutivo in 3 giorni. Di ieri anche la notizia dell’arresto di tre ragazzi italiani, con l’inverosimile accusa di aver incendiato una palma. Una storia che ricorda il recente arresto di tre studenti americani (poi rilasciati) a cui veniva addirittura imputato di aver lanciato molotov contro la polizia nei recenti scontri attorno a piazza Tahrir.
In molti temono che la rabbia generata dalla repressione sanguinosa della giunta militare contro le manifestazioni di protesta di questa settimana riesploda lunedì e martedì. Del resto in precedenti tornate elettorali si sono spesso verificati disordini, come nel 2010, quando si registarono 10 morti per violenze in prossimità dei seggi. Quest’anno il bilancio rischia di essere molto più pesante.
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