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La Mercedes del “Che”

 

La Mercedes del Che”

Sebastiàn Lacunza

La casa tedesca ha lanciato una campagna in cui appare la famosa immagine di Guevara. Con un piccolo ritocco: sul suo basco al posto della stella compare il logo a tre punte della compagnia. Una scelta azzardata perché in Argentina c’è chi ricorda bene che, durante la dittatura militare del ’76-’83, molti delegati sindacali e lavoratori «scomodi» del suo stabilimento alle porte di Buenos Aires furono «desaparecidos». Grazie anche, forse, alla delazione dei dirigenti dell’azienda

BUENOS AIRES
Gli specialisti di marketing della Mercedes Benz hanno scelto una scommessa rischiosa per l’incontro sulle nuove tecnologie svoltosi a Las Vegas orsono tre settimane. Il presidente della compagnia tedesca, Dieter Zetsche, ha usato il famoso ritratto del Che Guevara immortalato da Alberto Korda, ritoccando la stella rossa sul basco con il logo a tre punte della marca automobilistica. Zetsche ha commesso un doppio sacrilegio con la sua innovativa promozione di un programma chiamato «Car Together » e diretto a fomentare l’uso dell’auto condiviso a partire dalle reti sociali. L’azzardo ha provocato le reazioni di quanti hanno amato il Che per la sua vita, al di là dell’immagine seduttrice della sua faccia, ma anche nell’esilio anti-castrista e nella destra repubblicana statunitense che non avrebbero mai creduto di vedere l’icona dei loro incubi promuovendo l’icona dei loro sogni consumisti. Questa trovata pubblicitaria obbliga tuttavia a farsi una domanda meno futile. Che ne sarebbe stato di Ernesto Guevara Lynch de la Serna se avesse rinviato i suoi impulsi rivoluzionari, non avesse intrapreso il suo famoso viaggio in motocicletta e avesse lavorato come operaio nella frabbica della Mercedes Benz nell’Argentina degli anni ’70? Forse avrebbe avuto la stessa sorte degli almeno 14 operai della compagnia tedesca desaparecidos per mano della dittatura militare e degli altri che furono costretti all’esilio o furono arrestati, torturati e alla fine liberati. Questo implica un’altra domanda spinosa, quella delle responsabilità civili e padronali nel massacro perpetrato dalla dittatura argentina fra il ’76 e l’83, che si lasciò dietro 30 mila desaparecidos . La giustizia argentina finalmente ha cominciato a fare il suo lavoro, ha pronunciato finora decine di condanne e giudicato centinaia di militari, poliziotti, agenti dei servizi e perfino qualche prete, ma non ha toccato quasi nessun imprenditore o manager che in quel tempo potrebbe avere avuto un ruolo nella delazione ai militari dei lavoratori «scomodi». I sindacati della compagnie automobilistiche erano allora i più attivi e politicizzati fin dagli anni ’60. Nello stabilimento della Mercedes Benz, nella località di González Catán, popoloso sobborgo di Buenos Aires, emerse una commissione sindacale di sinistra che si opponeva al Sindicato de Mecánicos y Afines del Transporte Automotor capeggiato dal peronista di destra José Rodríguez fino alla sua morte, nel 2009. Nel 1975, l’anno prima del golpe e quando c’era ancora un governo peronista di destra, i lavoratori della Mercedes Benz riuscirono a resistere ai licenziamenti grazie a un mese di scioperi e al blocco degli ingressi della fabbrica. A loro volta i Montoneros, la guerriglia peronista di sinistra, sequestrarono un manager tedesco della Mercedes e per la sua liberazione l’impresa dovette pagare un riscatto di milioni di dollari e pubblicare sulla stampa internazionale inserzioni in cui chiedeva scusa per «la sua politica contraria ai lavoratori», secondo la ricostruzione della giornalista della radio tedesca Gabriela Weber, autore di una documentata inchiesta da cui fu tratto un documentario intitolato «Non ci sono miracoli». Nel marzo del ’76 arrivò il golpe guidato dal generale Jorge Rafael Videla e a partire da allora aumentò la repressione fino a toccare il limite del genocidio che colpì dissidenti, militanti sociali e guerriglieri. Anche così, all’inizio del 77, la commissione interna della compagnia tedesca continuava a funzionare, però dopo un negoziato su aumenti salariali e condizioni di lavoro, cominciarono le desapareciones. Fatto degno di attenzione, la Mercedes Benz avrebbe continuato a pagare i salari dei suoi operai desaparecidos per altri dieci anni, come scrisse la Weber. Le vedove di alcuni di quei delegati desaparecidos, come Esteban Reimer e Hugo Ventura, hanno il sospetto che i loro compagni fossero stati consegnati ai militari dalla compagnia. Ma c’è un altro elemento che complica ancor di più il ruolo del vertice direttivo della fabbrica. Oltre agli almeno 14 lavoratori della Mercedes Benz che figurano fra i desaparecidos e agli altri costretti a partire per l’esilio, le squadracce della dittatura andarono a cercare tre dentro la fabbrica stessa. Uno di loro, Héctor Ratto, ha raccontato che il 12 agosto ’77, quando stava per essere arrestato, il direttore della compagna, Juan Rolando Tasselkraut, diede agli agenti l’indirizzo di un altro lavoratore, che quella stessa notte fu fatto sparire. Ratto resto più di due anni rinchiuso in una caserma dell’esercito a Campo de Mayo, dove fu torturato e dove si suppone che sparirorno gli altri lavoratori. Tasselkraut, che con il tempo sarebbe tornato a dirigere la filiale argentina della Mercedes, ha liquidato come una «stupidaggine» la versione che lo incrimina. E Pablo Llonto, avvocato di Ratto, ci ha detto che la causa giudiziaria avviata nel 2002, è quasi paralizzata in una tribunale di San Martín, altro sobborgo di Buenos Aires. Llonto ha ricordato che ancor prima delle denuncia di Gabriela Weber, la Mercedes avviò una investigazione interna che escluse ogni responsabilità dei suoi manager pur dovendo riconoscere che i delegati sindacali furono « desaparecidos ». L’iniziativa giudiziaria chiama in causa i dirigenti dell’impresa, l’exministro del lavoro peronista Carlos Ruckau f e vuole chiarire il ruolo avuto dal capo del sindacato, José Rodríguez. Contemporaneamente si è aperto un giudizio anche a San Franciso, negli Stati uniti, grazie a una legge che permette di chiamare in causa imprese che abbiano sedi in quel paese e che abbiano commesso violazioni dei diritti umani in qualsiasi posto del mondo. Ma anche quel giudizio si sta trascinando. Per quanto emblematico, il caso della Mercedes Benz non è l’unico. Gli organismi per i diritti umani hanno messo agli atti che nella fabbrica della Ford furono torturati dei sindacalisti e poi trasferiti in campi di conccentramento, dopo di che l’impresa Usa li licenziò per «essersi assentati dal luogo di lavoro senza autorizzazione». Una volta recuperata la democrazia, la Ford pagò gli stipendi arretrati… Però da poco è arrivata una notizia che fa ben sperare. Con una decisione inedita, un tribunale di Salta, nord dell’Argentina, ha chiamato a rispondere il proprietario di una impresa di trasporto di passeggeri – la Veloz del Norte – , Marcos Levín, quale responsabile del sequestro di 12 lavoratori dell’impresa, fra autisti e hostess, durante la dittatura. Molti di loro, presi nel gennaio del ’77, lo stesso mese dei loro compagni della Mercedes Benz, furono torturati ma non « desaparecidos», per cui, una volta recuperata la libertà, hanno potuto portare testimonianze che inchiodano l’imprenditore Levín.

da “il manifesto”

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