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Afghanistan. Strage di civili, un’infamia americana

La prima versione del gesto isolato viene smentita dalla popolazione della provincia di Khandar inferocita dopo la notte di paura. Lo stesso presidente-fantoccio Kharzai ha palesemente protestato con Washington definendo “imperdonabile” il gesto criminale. Non è la prima volta che i militari Isaf sfogano le proprie paranoie omicide sui più deboli, testimoniando il crescente sbando di un’occupazione ormai mal digerita anche dai ragazzotti pieni di retorica e tecnologia che da tempo non tengono il conflitto neppure nei compound-fortezza dei luoghi che dovrebbero controllare. House-music e stupefacenti con cui vincere il terrore d’un nemico spesso imprendibile mettono in condizione gli elementi più spavaldi e fragili di crearsi scontri paralleli da quelli ordinati dagli stessi comandi. Sembra di rivedere un remake di certe follìe praticate in Vitenam dai padri dei marines di oggi, una lezione solo parzialmente meditata dai vertici del Pentagono e mai digerita da chi come Powell si fecero le ossa con quel passato. L’ex Segretario di Stato di George W. Bush indagò su una strage storica del moderno esercito degli Stati Uniti, quella perpetrata il 16 marzo 1968 nel villaggio di My Lai, a 800 chilometri da Saigon.

Un reparto di fanteria, la compagnìa Charlie poi definita la brigata dei macellai, massacrò 347 civili vietnamiti. Erano tutti vecchi, donne e bambini in quanto gli uomini combattevano coi viet-cong. Per vendicarsi di un attacco subìto il reparto americano guidato dal tenente Calley iniziò a mitragliare sulla gente che fuggiva. Follìa? No, crimine di guerra. Eppure gli apparati militare e politico statunitensi cercarono di nasconderlo. Un bel servigio a un più sofisticato occultamento venne dal maggiore dell’esercito Colin Powell cui venne affidato il compito dell’inchiesta. Dal suo rapporto risultava che “le relazioni fra militari Usa e la popolazione locale erano eccellenti”, lo zelo gli valse un’ampia considerazione con cui fece una brillante carriera fino al grado di generale. Dal 1993 Powell spostò le sue ambizioni sul fronte politico. Le prime denunce sul comportamento criminale tenuto a My Lai vennero dalla lettera di un soldato statunitense che sottolineava la diffusa pratica di stragi, torture e stupri da parte dei reparti di fanteria e marines. Fu comunque l’iniziativa di un altro militare di leva, autore di un’altra lettera indirizzata a un politico del Congresso, che ridiede fiato a un’indagine federale stimolata anche dai racconti e dalle foto pubblicate a fine ’69 da un quotidiano locale, frutto del lavoro di un cronista investigativo, Seymour Myron. Lo scoop gli valse l’anno seguente il premio Pulitzer. Eppure la riapertura del processo nei confronti del tenente Calley e d’un’altra dozzina di ufficiali fu una mezza beffa. Inizialmente (1971) Calley venne condannato all’ergastolo ma subito dopo il presidente Nixon intervenne per la sua liberazione e il tenente scontò solo tre anni e mezzo di reclusione in una caserma.

Dell’uso di armi particolarmente efferate da parte della Nato – come i proiettili radioattivi usati nella guerra del Golfo, in seguito letali per gli stessi militari che li spararono, oppure del fosforo bianco utilizzato a Fallujah prima che sulla Striscia di Gaza – ormai si conosce molto. Altrettanto si sa dell’Iraq: le mattanze di Haditha e Ishaqi, i vari tiro a bersaglio compiuti dagli elicotteri Apache contro civili e reportes sono stati documentati da Wikileaks. Nell’Afghanistan devastato da un quarantennio di conflitti d’ogni genere almeno due generazioni portano lutti a ripetizione. Ma questo non sminuisce l’odio per episodi di violenza gratuita come quello di sabato scorso. Che segue altri sfregi intollerabili verso i simboli e le persone: i recenti falò di copie del Corano, l’oltraggio dei cadaveri di talebani uccisi su cui tre marines orinavano facendosi immortalare nel miserabile gesto. Tutti ubriachi e drogati? Sicuramente intossicati di retorica patriottarda e militarista che oramai regge poco anche il rapporto con quegli afghani alleati che vestono la divisa di un esercito autoctono che dovrebbe garantire il controllo del territorio dopo il ritiro del 2014.

 

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