Sostanzialmente negando i tentativi di lettura dei giorni scorsi di certa stampa mainstream sulla geografia politica interna del Pcc, che vedeva contrapposti le presunte fazioni dei “principini” dai natali illustri, a quella dei funzionari che hanno fatto carriera interna al partito, i cosiddetti tecnocrati, Francesco Sisci sul Sole 24 Ore riporta il modello ad una più tradizionale e credibile divisione tra un ala destra e un’ala sinistra.
La prima sarebbe quella più favorevole alle riforme politico economiche nell’accezione occidentale del termine, la seconda, quella “conservatrice”(secondo la definizione di Sisci), sarebbe invece più legata ad una visione populista-maoista della società cinese e sarebbe cresciuta in peso ed importanza in questi anni ponendo l’accento sulla necessità di colmare le disuguaglianze sociali prodotte in trent’anni di politica di Riforma e Apertura.
Sarebbe dunque un modello che vede confrontarsi un’ala riformista-social liberista ad una conservatrice populista-neomaoista.
Senza alcun timore di fornire modelli interpretativi in qualche modo utili alla propaganda e ai sistemi d’informazione occidentali(i quali dispongono i ben altri mezzi di quelli forniti dalla stampa sinologica internazionale)in questa “guerra civile globale” scatenata dall’amministrazione democratica americana, nel tentativo di rovesciare, facendo leva sulle contraddizioni interne, i governi e i sistemi politici in qualche modo non allineati come quelli di Cina, Russia, Siria, Iran, Corea del Nord, ecc…che sta diventando ormai il paradigma della fase attuale, possiamo azzardare l’ipotesi che Sisci, uomo di reale esperienza nel campo, ci abbia sostanzialmente azzeccato, ma solo in parte.
Nel senso che questa sorta di divisione in due ali del dibattito interno al Pcc non tiene conto del diverso peso che queste posizioni rappresentano nelle loro varie sfumature e sottocategorie, e dunque rischia di fornire un’immagine eccessivamente semplificata del panorama politico intrapartitico.
D’altronde uno degli aspetti più difficilmente intellegibili dell’universo Cina è proprio questo. Un po’ come un tempo si parlava di “cremlinologia”, anche per intendere la difficoltà interpretativa dei fenomeni interni al Pcus, oggi si potrebbe parlare di “Zhong Nan Hai –logia”, per intendere lo studio (che prende il nome dal quartier generale del Pcc a Pechino) delle varie posizioni interne al Partito, altrettanto se non più complesse da leggere di quelle sovietiche, se non altro per quelli che sono, fortunatamente, ancor oggi standard di segretezza interni molto elevati.
Di conseguenza, nell’integrare il modello proposto da Sisci e non solo, si procede per ipotesi e tentativi, in ogni modo prodotti da una serie di deduzioni tutte da verificare. Una conferma viene oggi dal Corriere della Sera che addirittura evoca uno scenario da colpo di stato in Cina.
L’idea è quella per cui, già a partire dal 1978, Deng Xiaoping, per controbilanciare il peso della sinistra interna più estrema, si sia appoggiato all’ala destra fornendole un peso specifico di governo e soprattutto di gestione economica superiore a quello che era il peso interno del cosiddetto “gruppo o cricca” di Shangai stesso che la rappresentava. Questa gestione è durata per i mandati di Jiang Zemin dal post 1989 fino al 2002. In quell’anno congressuale infatti sale alla leadership Hu Jintao, che seppur scelto da Deng non ha mai fatto mistero di avere come base d’appoggio la lega della gioventù comunista, tradizionalmente schierata su posizioni più di sinistra, e di godere di grande simpatia in tutti i settori contadini che ancor oggi rappresentano una base fondamentale degli iscritti al Partito.
E in quel periodo vi fu uno scontro molto duro tra Jiang Zemin, che voleva mantenere probabilmente ancora a lungo un certo potere tramite il controllo della commissione militare centrale, e Hu Jintao stesso, che non voleva un ruolo così condizionato, facendosi forte anche dell’essere stato designato direttamente da Deng, che si è riflesso politicamente nella contrapposizione ideologica dei cosiddetti “tre principi del popolo” sintetizzati da Hu Jintao, in opposizione alle più scivolose, ideologicamente, “tre rappresentanze”concepite da Jiang Zemin, che potevano sembrare una giustificazione ideologica dello sdoganamento dei capitalisti in seno al Partito.
Le polemiche furono per nulla velate, con i richiami di Hu Jintao ai discorsi di Deng di fine mandato, quando si scagliava contro le gerontocrazie di Partito che volevano rimanere al potere in età avanzate e anche oltre la fine del mandato, riferite in questo caso da Hu alle pretese di Jiang di controllo della commissione militare centrale per un periodo troppo lungo.
Da allora, nel silenzio della stampa occidentale, anche di sinistra, la Cina di Hu Jintao, nelle politiche intraprese e nello stile di governo, è stata protagonista di una svolta molto più “di sinistra”, a partire dalle politiche sociali.
I dati sono facilmente reperibili, come quelli sull’aumento della spesa sociale che doveva servire tra l’altro all’espansione della domanda interna per bilanciare la crescita, al megapiano di spesa pubblica indirizzato all’indomani della crisi mondiale ad assicurare una domanda stabile alle maggiori imprese statali, al piano di edilizia popolare, solo per fare alcuni esempi.
In questo senso, interrompendo uno strapotere della destra interno al Partito giustificato più dalle dimostrate abilità di gestione economica che non da un peso specifico interno, Hu Jintao ha inaugurato una stagione durata dieci anni in cui l’ala da lui rappresentata, di Centrosinistra populista, potremmo dire, con l’esclusione dell’ala maoista più estrema sintetizzata da Bo Xilai, ha mantenuto un ruolo di supervisione politica tramite la carica di Presidente, e ha lasciato ai rappresentanti dell’ala più moderata un peso ancora importante nella gestione economica, tramite la carica di premier di Wen, pur non rinunciando ad inserire nuove misure più popolari nei piani quinquennali di programmazione economica.
Non a caso Nunziante Mastrolia, analista di studi internazionali presso il Centro Militare di Studi Strategici del Ministero della Difesa Italiana(Cemiss), in una recente intervista “di gruppo” rilasciata al portale agichina24, sostiene che le misure adottate da Bo Xilai a Chongqing non si differenziavano molto dalle misure adottate e da quelle caldeggiate da parte del governo centrale, e rispetto a uno scontro tra modelli, quello di Chongqing contro quello più liberista del Guangdong, ritiene che quello in atto sia più che altro riconducibile ad uno scontro tra persone sul caso individuale di Bo e quello Wang Lijun. A conferma della visione qui proposta, afferma che l’attuale scontro potrebbe significare che i riformisti stanno alzando la testa, come se con Hu Jintao si trovassero già in una posizione di difficoltà, che poi corrisponde a quanto indichiamo come chiave interpretativa.
Che poi questo caso apra contraddizioni di indubbia natura politica su quelle che saranno le scelte economico sociali fondamentali della prossima decade è altrettanto indubbio, ma la stampa occidentale tende sicuramente ad esagerare le divisioni in seno al gruppo dirigente per facilitare l’inserimento anche in Cina quella strategia del “cuneo”, che su scala enormemente più ridotta ha portato dei risultati in Libia, Afghanistan, Iraq e sulla quale l’Occidente sta investendo in Siria. E tuttavia per ora, se non altro per intelligenza, l’ala destra più favorevole a riforme politiche in senso occidentale non si presta a tali giochi. Anche il recente rapporto della Banca Mondiale che chiede esplicitamente al governo cinese di procedere con una privatizzazione di massa dell’economia statale e pubblica, cedendola ai privati, pare fortunatamente non aver avuto una grande eco nel Paese né essere stato preso nella benché minima considerazione dalla maggioranza della leadership cinese.
Per ora la composita ala destra del Partito, che solo in parte ha trovato un riferimento nel premier Wen Jiabao e nel suo continuo richiamo alla riforma politica piuttosto che ad un gruppo o cricca cittadina come quello di Shangai contro cui si scagliava a suo tempo Hu Jintao, appare in grande difficoltà e l’illusione che Wen abbia richiesto e ottenuto la testa di Bo Xilai a nostro avviso è appunto solo un’illusione. Evidentemente l’ala di Hu è stata decisiva nella destituzione di Bo, più per ragioni di opportunità che cozzavano contro la figura di Bo, citato in giudizio, per quanto può valere, 14 volte in 13 paesi tra cui Stati Uniti, Canada, Australia e Spagna con accuse come omicidio, tortura, genocidio e crimini contro l’umanità, e criticato per gli “eccessi” della sua campagna che avrebbe coinvolto imprenditori cinesi torturati con tanto di interviste sul New York Times, e contro i suoi eccessi da folklore maoista, canti rivoluzionari e quant’altro è stato sempre associato alla Rivoluzione Culturale, fantasma sempre evocato dalla destra del Partito per attaccare il centrosinistra e la sinistra estrema del Partito.
Sarebbe quindi più una motivazione dettata dalla scomodità del personaggio che un elemento di lotta politica, finora.
E probabilmente lo scontro di cui parla Sisci tra un isolato Wen Jiabao ed altri membri del Politburo ha come oggetto, oltre che il destino politico di Bo, il fatto che magari Wen abbia tentato di trasformare la destituzione di un singolo in una più vasta campagna contro l’ala sinistra del Partito, con una sorta di meccanismo di “Rivoluzione culturale al contrario”, e che questo tentativo sia stato stoppato insieme dall’ala di Hu e quella dei fedeli di Bo.
Ovviamente come dicevamo all’inizio queste sono solo ipotesi.
http://cinasia-baochai.blogspot.it/2012/03/bo-il-terribile-non-solo-retorica.html
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